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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • MARGINE ALLA «DESINENZA IN A»
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MARGINE ALLA «DESINENZA IN A»

 

¿Da qual caminetto di letterato o banco di drogherìa, da qual latrina di gazzettiere o biblioteca in saccheggio bonghiano, hai , mio temerario editore, saputo salvarmi questa copia rarìssima della prima edizione della «Desinenza in A», che t'intestasti a ristampare?

¡Vedi quanto è làcera e unta! ¡quanto è macchiata e scorbiata!

Nelle sue pàgine, come in suola alpinìstica irta di chiodi, scorgi e fiuti la traccia del lunghìssimo giro che ha fatto per ritornare a . Serba essa il meretricio profumo del boudoir della dama e il tanfo carcerario della caserma; e cèneri dell'ozio elegante (la sigaretta) e il pelime del dotto. Io vi ritrovo il baffo de' polpastrelli della cuoca che se la leggeva a voce alta e tenèndola stretta, per non lasciarsi almeno sfuggire il suono d'idèe che non arrivava a comprèndere, e lo sgraffio furioso della padrona di lei che le avèa fin troppo comprese; io v'incontro la tabaccosa goccia, caduta insieme agli occhiali dal naso del mio vecchio maestro di belle lèttere che blandamente ci si appisolava compassionàndomi, e la gualcitura del criticuccio novello che la scagliava lontano da sé al primo dubbio che l'autore fosse men bestia di quanto ei sperava.

solamente indovino ma leggo. Segni in matita di tutti i colori, pudiche cancellature effetto d'impudicizia, punti esclamativi, e, più ancora, d'interrogazione, postille e paraffi adulatorii e ingiuriosi, stèndono sulle pàgine della rèduce copia una ragnaja d'interpretazioni e di note che più grottesca e contraddicèntesi non èbbero Dante e il Burchiello.

¿Chi siete voi, mièi inèditi crìtici? In questo ripescato esemplare, il frontespizio i màrgini han mantenuto le vostre riveritìssime firme. Ogni suo ùltimo possessoreimitando quanto si tenta ora di fare nella genealogìa letteraria, a differenza della gentilizia in cui i nipoti gènerano i nonniraschiò diligentemente il nome dell'antecessore. Senonché tutti io ringrazio e miti e spietati, perocché a giova tanto la lìrica di chi mi ama quanto la sàtira di chi m'odia. Per pensare, per scrìvere, per vìvere intellettualmente mi è indispensabile che le molècole, ora pigre, del mio cervello, riaquìstino la primitiva rapidità e combustibilità. Venga la spinta dall'applàuso, venga dall'oltraggio, a basta che non difetti. Ad un morso di cane, Gerolamo Cardano, bizzarramente grande, dovette (com'egli narra) il suo ingegno; a quello dei crìtici dèbbono il loro non pochi scrittori. Un vento infatti è la crìtica, che, se i mòccoli spegne, ingagliarda i falò.

Non se ne offèndano tuttavìa, i mièi postillatori benèvoli; Cletto Arrighi, Primo Levi, Perelli, Pàolo Mantegazza, Cameroni, Capuana, Màyor. Oltre la riconoscenza del letterato, vi ha quella pure dell'uomo e questa è tutta per voi. Se la frusta ed il pùngolo instìgano il sangue e più spedito lo rèndono a' suòi uffici, lo plutonizza ancor meglio il bacio, senapismo d'affetto. E ciò dico, mentre rammèmoro in special modo coloro che hanno e saputo lodarmi senza l'ingiuria dell'adulazione e fatto spiccare il mio disadorno pensiero nella cornice del proprio. Vorrèi anzi ammirare le loro felici pensate, colle mie fuse, nella presente edizione; mi ci provài; ma ¡mi perdònino! la soluzione era sàtura già, più c'entrava una sola mica di sale. Prometto loro però di saccheggiarli alla prima occasione. Di memoria non manco di audacia.

Mi ajùtino intanto a discùter coi loro e mièi avversari, i postillatori scontenti. a questi risponderèi per le stampe se sapessi dove stan tutti di casa. Contrariamente al costituzionale principio della pubblicità ne' giudizi, io preferisco trattare le letterarie mie càuse a porte chiuse. Quì però, del nemico, non si scorge che l'arme. Sono quindi costretto, per farmi udire da alcuni, a suonare, quale campana, per tutti.

Chiamando dunque in soccorso la scienza di Rosellini e di Champollion per decifrare la scarabocchiatura, a penna, a matita, ad unghia, che copre i lembi di questa bandiera stracciata, e cercando di sgarbugliare, coll'arcolajo della riflessione, tanta matassa di segni, sèmbrami che, come lavoro preliminare, la si potrebbe partire in due grandi gomìtoli — quello cioè che s'avvolge sul generale pensiero del libro e quello sulla sua forma, che è quanto dire sulla idèa al minuto.

E, cominciando dall'ùltimo, e facendogli sopportare una seconda chirùrgica operazione, io mi arbitrerò anzitutto di collocare l'Opposizione della mia nessuna Maestà, come la conquistatrice acies romana, in trè file — una dei saggiatori della purezza delle parole, l'altra degli investigatori della castità della frase, la terza de' stimatori della qualità dello stile. Come vedete, per spartizioni e per tagli io non la cedo a un beccajo... ad un metafìsico.

I nemici non sono pochi. Ma, ¡su le màniche! e avanti. Non ho coraggio bastante per aver paura.

Si affaccia prima la pigmèa e sparuta (perché cibata di pura crusca) fanterìa de' gramàtici, la penna in resta, la brachetta fuori. Prèndersela con costoro — ultimo avanzo di un'oste già debellata — gli è come azzuffarsi colle ombre del cardinal Bembo e di Benedetto Varchi. Non me ne òccupo quindi che come di partita pro-memoria in un bilancio. Questa schiera è composta, o, a dir meglio, era or qualche anno, di tutti coloro che possedèvano fede accademica di miserabilità intellettuale, di coloro che, non sapendo far libri, facèvano dizionari e s'inquietàvano per la corrotta italianità e pei dialettismi non trattenuti da alcuna forca e per le stesse nuove scoperte apportatrici di vocàboli nuovi. Pur di non dire «vagone» avrèbbero sempre viaggiato in vettura. Èrano, in gergo scientìfico, chiamati cultori della istruzione, forse perché incaricàvansi di strappare le pianticine novelle per vedere se mettèan bene radice. Rondàvano in avvisaglia, con passo di sùghero, e quando accorgèvansi che qualche scrittore cercava introdurre nei gramaticali confini da essi riputati propri, merce non nominata nelle loro tariffe, lo attorniàvano, assaltàvanlo, arrestàvanlo schiamazzando quali oche.

E: «quella è di legge», «questa è di contrabbando», affannàvansi, que' gabellieri, a sfilare e palpare ogni parola di un libro, a stemperare, entro i lor stacci, i perìodi di un pòvero autore finché ne colasse una broda completamente sciapa, incolora, inodora. , per essi, serviva la scusa della analogìa, la raccomandazione del buon senso, l'invito della necessità. Permettendo, ad esempio, l'onomatopèico «cricch» perché si leggèa a pàgina tale, linea tal'altra del lor ricettario, proibìvano irremissibilmente il suo stretto parente «cracch», non trovàndosi esso in nessuna parte del mastro del loro sapere. L'òttimo autore, secondo tali notài spacciàntisi per legislatori, non dovèa aver orecchio che pei rumori e pei suoni protocollati, udir quindi eternamente la zampogna e il liuto, non il pianoforte mai. Fuor di Toscana, anzi di Firenze, anzi di Palazzo Riccardi, non era letteraria salute. Poiché Arno non diede l'aqua con cui fu bollito il proto-risotto ed impastato il capo-stipite dei panettoni, Milano era tenuta di abolir senza più quelle sue antiche ghiottonerie non previste dalle edizioni «dal miglior fior ne coglie» per non mèttersi a rischio di nominarle, salvoché non si fosse adattata a sostituirvi i più legìttimi nomi di «riso giallo» e di «pan balestrone.» Così, se c'era scrittore che ancora trovasse in isbaglio, qualche efficace metàfora la quale non fosse catalogata tra «gli impacci del Rosso» e «gli avanzi del grosso Cattani o del Cibacca»,, tra «il regno di Cornovaglia» e i viaggi «a Lodi, a Piacenza, a Carpi, in Picardìa, a Calcinaja, a Volterra»,, tra il «mangiar spinaci» e «l'arruffar matasse» e tutto il resto della ciurma galeotta del vocabolario toscano, ¡guài se l'avesse pur tollerata! dovèa immediatamente cacciarla; pena la Crusca negli occhi ed il Frullone sul capiro, irati di non potere, per lui, russare di sèguito la governativa prebenda.

Che io molto non fossi nelle grazie di sìmili egrege persone (uòmini meno di lèttere che di parole) è più chiaro della loro «chiarissimità» ora buja. Non vi ha scrittore, sempre s'intende, al saggio della loro pietra di paragone, che era poi una mola mugnaja, più di impuro. io davvero, mi sono mai incomodato a cercare, per le parole che adopro, maggiori difese di quelle che danno le stesse parole accoppiate, cioè del pensiero che esprìmono. ¿Cosa infatti avrebbe valso ripètere a que' bacalari per la millèsima volta, che la lingua naque prima della scrittura e l'una e l'altra innanzi la règola? ¿che l'Italia stette benìssimo senza gramàtiche tre sècoli buoni e ci sarebbe potuta star sempre? ¿che quelle clàssiche eleganze da essi additate a modello, capestrerìe come chiamàvanle con vocàbolo affatto degno della loro parlata, non èrano, il più delle volte, che solecismi solenni ( noi ce ne scandolezziamo) maggiori assài di quelli che possa creare un originale stilista? E, ancora: ¿che avrebbe giovato ricantar loro sul motivo di Orazio (ut sylva fòliis ecc.), che un idioma, come qualsìasi altro mortale frutto, è destinato, se non spègnesi in germe, a percòrrere l'intero suo ciclo fino alla maturanza completa, fino alla conchiusiva caduta dall'àlbero della vita, e che l'ùnico mezzo di evitargli una ràpida morte, è di trasfòndergli continuamente umore, imitando Dante, che colla falce del giudizio mieteva da ogni sottolingua italiana ed anche non italiana le spighe della nazionale favella? ¿che avrebbe, infine, servito provare loro statisticamente che non è tanto la qualità della materia impiegata quanto l'ingegno di chi la foggia e coòrdina che l'eccellenza di un'òpera d'arte, cosicché alla domanda — qual sia la miglior lingua — si può sempre rispòndere: leggete Shakspeare, è l'inglese; leggete Rìchter, è il tedesco; è l'italiano con Foscolo; è il milanese con Porta?

Ripeto: non avrebbe giovato ricordar loro tanto, poiché era vano sperare che gente la quale non s'impensieriva che dei mattoni linguìstici, si accorgesse che, tutti insieme, tendèvano a rappresentar qualche idèa, a formare un letterario edificio. Interamente quindi perduto, per essi, sarebbe stato quanto ho già detto e quanto sto quì per soggiùngere a titolo di buona misura.

E il contentino è questo. Pochi tra i grandi autori, gloria dell'umanità, hanno schivato le ire dei crìtici loro contemporanei tentanti di impor la cavezza al genio, e quasi tutti si vendicàrono, dannando i lor zoiletti all'eterno ridìcolo. Ora, stà il curiosìssimo fatto, che quelli autori sìano appunto i più spesso mostrati ad esempio dai successori dei berteggiati, a volta loro da berteggiarsi. E, davvero, quel venosino col quale la falsa crìtica tanto chiasso, volteggiandolo minacciosa intorno alla testa dei novellini scrittori, la ha già bastonata senza misericordia; quel fiero ghibellino cui essa domanda, per ogni suo pasto da orco, e zanne e ventrìcolo, l'ha fatta più volte tremare colla maestosa sua voce, come quando disse «òpera naturale è che uom favella, — ma, così o così, natura lascia — poi fare a voi secondo che v'abbella.» Volendo quindi scoprir la radice di tale stranezza potèndosi crèdere che il ricordo de' buffetti e de' calci sia amàbile a' crìtici, com'era a Rousseau quel del castigo di mademoiselle Lambercier, bisognerà ricercarla e la troveremo fra le astuzie stratègiche. A guisa infatti degli àrabi che coi cadàveri inquìnan le fonti dei loro nemici, mìrano i crìtici, cogli autori morti, a spègnere i vivi.

Pur non rièscono. La treggia non caccierà più il carro dal mondo il carro la diligenza la diligenza il ferroviario convoglio. Il progresso che essi combàttono col tardo archibugio a pietra, loro risponde coi cèleri Vètterli, come lor rispondeva mediante quel rudimentale fucile quand'essi ostinàvansi a maneggiar l'arco e la freccia, e coll'arco quando ancora loro arme era il selcio. La umanità procedette sempre a dispetto d'ogni accademia, d'ogni senato, d'ogni governo. ¡Guài se il passato avesse più forza dell'avvenire! Saremmo tuttora alla lingua dei lupi e degli orsi e ad uno stadio di civiltà affatto corrispondente.

Ma, seppelliti questi morti di hastati, ecco i prìncipes qui consùrgunt ad arma, pùntano il loro schioppetto e fan cecca. Sono essi gli incettatori della nazionale moralità, una compagnìa in lamentazione perpetua — di cui fanno parte i violacei predicatori che ventilàbran dal pùlpito i vituperi più concupiscenti contro la concupiscenza e le ascoltatrici loro ammiranti, le baldracche, che han messo insieme bastèvoli soldi per comprarsi il rossetto della castità; fanno parte i loschi compilatori di virtù per il pòpolo a dieci centèsimi la dispensa e i gazzettieri che colla sifìlide cristallina alle labbra sermònano di pudicizia e le mamme affannate a difèndere le orecchie premaritali delle loro figliuole da ogni sussurro impudico, salvo a lasciarvi precipitar dentro un mondezzajo di roba, non appena quelle figliuole sìen giunte al legìttimo stato di comporre adulteri; fanno insomma parte tutti coloro, i quali veri stradini della nettezza pùbblica, pel sudiciumegìrano, sollevando, per così dire, la casta frasca di vite alle statue per poi urlare «¡allo scàndalo

Il realismo in arte è il bersaglio contro il quale scàgliano essi i lor giavellotti ed è insieme lo scudo con cui sen ripàrano i loro contrari. Perocché, in questo balordo argomento, una guerra s'è accesa che più fiera non suscitàrono le due secchie rapite, la bolognese e la greca, una guerra a cui paragone sembrò quasi sensata quella di buffa memoria dei clàssici e dei romàntici. Vuolsi che essa scoppiasse al primo apparire in commercio delle fotografìe colorate di Zola. La gàrrula turba de' letterati si partì allora in due campidiciàmoli meglio, stàbuli — e gli uni si buttàrono tosto a ginocchi ed accèsero i lumi dinanzi a quella forma di arte perché imaginàronsi che fosse nuova, gli altri si pòsero a tirar sassate contro di essa e a fischiare, principalmente istizziti da quella riputazione di novità. Il realismo, intanto, stava a guardare dal libro di Omero.

Ma il bello è, che, a confòndere maggiormente le idèe, e fautori e avversari, stroppiando il senso di quel frasone empibocca, incapàronsi di fargli significare, a tìtolo d'onore, quà di disdoro, quella parte soltanto di letteratura che studia e descrive le voluttà della carne e le turpitùdini umane. A chi si debba tale spilorcia interpretazione non sappiamo. Sappiamo solo, che, nella realtà, se c'è il male colle sue innumeri fronti, c'è pure il bene in tutti i sorrisi suòi. Al realismo o verismo pòssono quindi appartenere con pari diritto tanto le dipinture di una cloaca, di un ubbriaco che rece, di cani che s'accòppiano in piazza, quanto quelle di un fragrante roseto, di un eròe che per la patria s'immola, di un uomo che respinge l'amplesso della donna del suo benefattore. Nella realtà vi ha il bordello in tumulto e la pacìfica casa: Protàgora abderita che tutto vende e difende a seconda del prezzo e Giannone che muta continuamente paese per non mutare opinione, e, per seguire la verità, è da tutti perseguitato. Della realtà fanno parte integrante e l'illusione ed il sogno e la fede e lo stesso idealismo.

Sarebbe quindi eccellente partito, che, a stabilire i tèrmini della questione, s'incominciasse a cambiare il nome alla questione medèsima. E però si riserbi a luogo più acconcio quella parola di «realismo», fatta per imbrogliare, e se ne addotti una di significato più certo. Per conto nostro, nelle trè arti non sappiamo vedere che una questione sola, quella del brutto e del bello, senza riguardo a scuole a scopi. Se ci sono però buontemponi che vòglion scaldàrsela per quel letterario atteggiamento, che è, come affèrmano, diretto ad vìrgam erigèndam, ¡si sèrvano! Àbbiano in ogni modo la compietezza di scègliere la giusta parola e non ci pàrlino d'altro che di «carnalismo

Senonché, carnalismo non vuole ancor dire immoralità. Se le leggi divine impòngono, se le umane favorìscono, le une e le altre improvvidamente, la procreazione della spece, non vi dovrebbe èssere arte più leggìttima e più commendèvole di quella che risveglia ed instiga la foja generatrice, o, come dicèvano i nostri antichi, lùmbum ìntrat. Tuttavia, c'è un inconveniente. Le òpere letterarie, anche le più scollacciate, quando raggiùngono la perfezione non commuòvono che il cielo dell'ànimo. Si potrèbbero esse paragonare «ai fidi incendi per le innocue torri» delle rappresentazioni teatrali. La voluttà intellettuale sòffoca la carnale. Una volgarìssima serva irriterà e sazierà meglio la libìdine tua che non una Saffo, testimoni Faone e Nicolò Tommasèo. Misurati col quale termòmetro, gli epigrammi così-detti osceni di Marziale ed i sonetti di Porta, che si chiàmano inèditi anche dopo le cento edizioni, sègnano un alto grado di moralità senza confronto più alto degli sconcìssimi — perché malfattilibèrcoli approvati dagli alti e bassi Consigli scolàsticiNovelle esemplari, Fior di virtù (e di stolidità) ecc. ecc. — fonte di lucro ai maestri e di ebetismo ai discèpoli.

Pur non si pensi, con ciò, che chi scrive applàuda a due mani al rubensiano delirio di polpe e di sguardi procaci che ha invaso la scolaresca del giorno fatta ubbriaca da mezza bottiglia di stecchettina gazosa. La smania sessuale è in natura,, ha dunque diritto di avere anch'essa la sua sede nell'arte; l'invito del sesso però non forma tutta la vita,, manchévole quindi sarebbe quella letteratura che si occupasse esclusivamente (perdonate la frase) dei propri ìnguini non istudiando che di rènderli appariscenti, più meno dell'altra che si cappona per procurarsi una voce di àngelo. Che, se in questa desinenza in A la nota lubrica ha il sopravvento, a preme avvertire gli egregi lettori: che l'autore non ha con essa seguito la traccia de' suòi giovinetti colleghi, ma hanno questi piuttosto seguita la sua. La desinenza in A venne infatti composta nel 1876, allorché del rosario del carnalismo non èrano state ancor snocciolate, almeno in Italia, che poche avemarìe e non si era ancor giunti ad alcun paternostro. che l'autore innanzi concèdere al pùbblico questa sua sgualdrinella figliuola, gliene aveva già presentato trè altre morigeratìssime. La cifra di un uomo, e màssime di uno scrittore, è formata, non da un ùnico nùmero, ma da parecchi. Così, com'e, La desinenza in A — libro non certo per monacandarappresenta la giovinezza dell'autore, gli errori della poca sua carne, il suo squillo di bicchiere nell'orgia. Ma la giovinezza gli è oggi completamente sfiorita. La penna che segnò quèi ritratti donneschi è rotta per sempre. Bene stà. Ogni stagione il suo frutto. Fanciullo, scrissi d'infanzia e vi offersi L'Altrieri; adolescente, di adolescenza e vi diedi l'Alberto Pisani; giòvine, di gioventù, ed èccovi La desinenza in A. Se la vecchiaja non mi sarà, come sembra, contesa, scriverò cose da vecchiometafisici soliloqui, archeològiche dissertazioni — ¡chissà mai! anche ascètica. Letterariamente almeno, il Dossi non si falsificherà mai.

I cavalieri intanto e le dame, la cui virtù è sì fragile da temerne lo scoppio, pur coll'esporla alla temperatura di qualche grosso proverbio da fin di tàvola (sìmili in ciò a coloro che per gli eccessivi riguardi contro le infreddature tròvansi perpetuamente nello stato più proprio di buscàrsene) e si spavèntano all'ombra solo di quelli onorèvoli... — più onorèvoli assài di parecchi votanti nei Parlamenti — ... membri che hanno, come scrive Aretino a messer Battista Zatti da Brescia, «fatto i maggiori uòmini del mondo, i Michelàngiolo, i Tiziano, i Raffaello, e appresso loro, i papi, gli imperatori e i » nonché gli stessi che ne pìglian vergogna, — considerino, dico, questi esimii signori (del che caldamento li prego) come non sìavi còdice che li òbblighi a comprar il presente altro libro del gènere suo, e, quel ch'è più, a continuarne la compitazione quando si accòrgono di che si tratta. Chi ama le comedie prive di sesso ha i teatri suòi, ha i burattini, dove può assìstere, senza perìcolo alcuno, da quello all'infuori di addormentarsi, anche al ballo. Per i pòveri d'intelligenza provvede la caldaja dei frati; c'è una letteratura estesìssima, nientemeno che il novantanove per cento di ogni biblioteca. Ne profìttino dunque. L'aqua non costa nulla e rinfresca. E se, dopo ciò, si ostìnano a spizzicare le mie frolle pernici in salmì, per poi lamentarsi di qualche doloruccio di ventre, ¡colpa loro! Questo libro contiene, certo, veleni, ma anche i veleni sono ùtili, basta sapere dosàrseli, cosicché l'arte della saluteintendi, per burla, la medicinafonda in gran parte su di essi.

E, ora ¡avanti i signori triari! stavo per dire «trepiedi.» Sono la schiuma... ¡pardon! la panna dei crìtici. Hanno, pressoché tutti, fatto studi profondi — di che non si — fuori d'Italia, nei paesi in cui le vòcali cèdono alle consonanti e l'uva al lùppolo; le loro sentenze le spùtan dall'alto delle càttedre o di que' mucchi di residui cibari che hanno nome «riviste o rassegne» mensili o quindicinali,, non abbassandosi che raramente a ragionare spropòsiti ne' fogli quotidiani, diventati, loro mercè, piombo in foglia. Costoro non pèrdonsi nelle scaramucce delle parole si formalìzzano di qualche frase che mostri il rosato ginocchio più delle altre. Ùnica loro preoccupazione è lo stile, sono gli intenti dell'autore.

Ora, il primo capo di accusa contro di tali crìtici in mitria, è quello che io scriva troppo avvolto ed oscuro. «Diàmine» sèmbrano essi dire «la più parte degli altri scombìccheracarta, basta un'occhiata per accertarsi che non vàlgono nulla; costùi bisogna lèggerlo due, trè volte, prima di persuadèrsene

Ebbene, voglio èssere, come nessuno più, arrendèvole; voglio per un istante dimenticare la pregiudiziale, se la incolpata oscurità dipenda dalle idèe dell'autore che non sanno farsi vedere o piuttosto dagli occhi de' leggitori che non arrìvano a percepirle: completamente mi càrico dell'asserito peccato di una bujezzafavorèvole ai lumi, ma, insieme, domando: ¿quale ne è la càusa? Una letteraria virtù, mièi signori — la densità delle idèe.

Ho detto una virtù; pur tuttavìa, giacché sono sul cèdere, accorderò anche che tràttisi semplicemente di un bel difetto. Posseggo due scuse, però — e uno scusino: l'influenza del tempo nel quale è tuffato il mio corpo, il corpo che assièpami la volontà e, se ciò non vi par sufficiente, questa medèsima volontà mia.

E, prendendo le mosse dal tempo, tutti vèggono — meno i crìtici dalle acute pupille nella collòttola — come sia oggi impossibile ad un autore, che al manubrio dell'organetto preferisca l'arco del violino, di scrìvere precisamente come quando il patrimonio delle idèe era di gran lunga più scarso dell'attuale e pisciàvasi chiaro perché non si beveva che aqua, compreso il vino. Bastava allora di esprimere ciò che il cuore individual suggeriva e la lingua materna imboccava; ciascun paese viveva, per conto suo, dei frutti esclusivi del proprio suolo e del proprio pensiero, più meno di Ippia sofistavero sìmbolo di quell'època — che, insomaràtosi nel principio che ciascun uomo costituisce una completa repùbblica a sé, anzi un intero universo, si facèa colle sue cìniche mani tutto, dalle ciabatte al mantello, dal letto al pranzo, dai mòbili alla moglie. Senonché, oggi, si mutò stile: siamo figli di esploratori, e viaggiatori noi stessi, e, in quella maniera che da occidente ad oriente, dal polo antàrtico all'àrtico, s'incròciano e mèscolano tutti i prodotti del globo, tra cui màssimo l'uomo, gìran le idèe più ancora liberamente e si spòsano e ne crèano altre, prolìfiche come infusori. È una tendenza generale, questa, che le polìtiche tariffarie ed i cannoni dei governanti, gli ohimè dei grammàtici e gli esorcismi dei preti sanno o potranno frenare. I mercati del mondo (in gergo ufficiale «Stati») gràvitano a fòndersi in uno solo. Si a tutto vapore, e già può dirsi a tutto elèttrico, verso il comunismo più equo e la più ordinata anarchia.

La universale e fatale tendenza tròvasi poi, nel mio infinitesimale pianeta del corpo, preparata la sdrucciolina da càuse particolari, anzi orgàniche. Difatti, le doppie porte per le quali le sensazioni pènetrano nella casa dell'ànima (rètine, timpani, ecc.) e che, nella maggioranza degli uòmini sono pressoché uguali, tantoché le due correnti della percezione èntrano in essi simultaneamente e tòccano con pari scocco nel campanello della coscienza, in sono affatto assimètriche, donde un risultato opposto. le sensazioni rivali che vèngono a dai vari oggetti, giùngono a combaciarsi perfettamente e a dare un sol squillo nello spìrito mio, fermentando in esso un miscuglio di ali e zampe e teste d'idèe versàtovi da letture affrettate, copiose, disparatissime. Era forse, originariamente, il mio cuore un ùnico specchio, ma, dalla memoria onerato, si spezzò in centomila specchietti. Il troppo olio, dirèbbesi, affogò lo stoppino. Se nel bujo notturno, nei preludi del sonno, mi si rierge talvolta l'idèa — come la colonna di fuoco che guidava gli ebrèiluminosa,, comparso il sole, io più non scorgo che fumo. Vero è che nel fumo perdura la fiamma e che, a forza di gòmito e pòmice, la idèa riaquista splendore, o, come di Virgilio e delle orse si scrisse, «fòrmam post ùterum lingua magistra pàrit», ma ciò non avviene che a prezzo di transazioni, di sottintesi, di ripieghi, cosicché il mio stile potrèbbesi bensì assomigliare ad una donna sapientemente abbigliata, non mai ad una bellissima vèrgine nuda. In questo mio stesso discorso, in questo stesso periodo — da lasciati più greggi del sòlito — i lettori hanno prove a biseffe di ciò che affermo. Si aggiunga la preoccupazione affannosa di stipare quanto più senso si possa in ogni frase (perocché sempre mi parve atto di letteraria disonestà quello di vèndere al pùbblico, per libri scritti, volumi di carta tinta d'insignificante inchiostro); si aggiunga lo studio, non meno morboso, di cacciar dapertutto malizia, affinché, se la stoffa od il taglio del pensiero non vale, valga almeno la fòdera, e non farà meraviglia se il modo dello scrivere mio debba inevitabilmente mancare di quella tagliente sobrietà che forma la caratterìstica della espressione dei grandissimi ingegni e de' grandissimi stolti.

Ma della complicazione del mio attuale pensiero, c'è un'altra càusa, pur fìsica. Se colla continua ed ostinata meditazione, il cervello consegue la forza di ascèndere e la sicurezza di aggirarsi pei greppi più vertiginosi, smarrisce, spesso, quella di camminare in pianura. Guadagnando le ali, perde, per così dire, i piedi. Il proverbiale esempio del matemàtico, che, sciolti i càlcoli più sublimi, sbaglia la somma del domèstico conto che gli propone la cuoca, è in règola perfettamente colla verità ed è applicàbile a tutte le arti. È noto come uno de' màssimi agenti del pensiero sia il sangue, la virgiliana purpurea ànima. Ora, la irritazione che l'ostàcolo tra la volontà nostra e la cercata idèa pròvoca ai nervi dell'intelligenza, invita, attira al cervello il flusso sanguigno necessario ad abbàttere lo stesso ostàcolo, e la idèa si svela. Al ragazzo che i suòi primi italianucci è sufficente irritazione nervosa la ricerca delle parole di cui riveste la traccia temàtica dàtagli dal maestro; all'adolescente, la caccia alla rima ed all'armonìa del verso colle quali ripete le ripetizioni di moda; al giòvane, che aspira alla artìstica originalità, lo sforzo, prima di evitare le idèe e le forme troppo stancate,, poi di scoprirne di nuove, poi ancora di raddoppiare, di triplicare i sensi delle sue frasi, finché, vievìa, moltiplicàndosi i dièsis e i bemolle e gli altri accidenti in chiave, arrivi a quella concentrazione, a quella ingegnosa oscurità di stile che la delizia degli intelligenti e la disperazione del pubblicaccio. Ora, il sottoscritto, che ha passato come ogni altro autore non condannato allo sgabello della mediocrità, tali stadi, tròvasi appunto a quello che si potrebbe chiamare «la distillerìa della quintessenza.» Le difficoltà che, una ventina, una decina di anni prima, bastàvano a rieccitargli la Vènere intellettuale, oggi, perché superate, gliela làsciano inerte. Indicàtegli un masso di pòrfido letterario, ei ne saprà far balzare una statua; consegnàtegli, per una burocràtica scarpa il necessario cuojo asinino già tagliato e il puntarolo e lo spago, darà punti svogliati e voi rimarrete a piè nudo.

Confesserò tuttavia (ed ecco la mia scusa aggiuntina) come, allorquando mi accorsi che non avrèi potuto per nessun verso fuggire il crescendo della complicazione stilìstica, lo affrettài e mi vi abbandonài tutto, mirando solo di convertir la cattiva in una buona ventura, come , della macchia che gli goccia impreveduta sul foglio, l'aquarellista. E veramente, l'originalità in arte ha più spesso radice in difetti che non in virtù. Stia certo il lettore che, se di un'oncia soltanto della lìmpida mente e dell'amàbile filosofìa di Alessandro Manzoni o del sicuro ànimo e dell'ampio umorismo di Giuseppe Rovani avessi potuto disporre, non mi sarèi contentato di fare il geroglìfico Dossi. Gli è, del resto, una fatalità cronològica alla quale io i mièi fratelli in letteratura sapremmo sottrarci. Trascorsa la primavera pariniana, la manzoniana state, il rovaniano autunno, più non ci avanza, del letterario anno che stà per finire, se non l'inverno. Spremuta l'uva di Alfieri, di Monti e degli altri, fatto il vin di Manzoni e di Giusti, fatto il torchiàtico di Aleardi, di Prati, di Rèvere e d'altrettali, più non rimane da fabbricarsi, dell'ùltima svinatura, che l'aquavite. Lambicchiàmone dunque in buon'ora. Ci servirà di sole invernale, e, riscaldate da essa, le generazioni novelle prepareranno con impulso gagliardo il terreno ed i tralci per le vendemmie future.

Tornando a noi, o piuttosto a , io non mi lagno niente del nùmero, quale si sia, che estrassi nell'ùltima leva della letteratura paesana, dell'èsito degli sforzi coi quali tentài di assecondare e completarmi la sorte. Uno stile che fosse una rotaja inoliata sarebbe la perdizione de' libri mièi. Uno invece a viluppi, ad intoppi, a tranelli, obbligando il lettore a procèder guardingo e a sostare di tempo in tempoparlo sempre del non dozzinale lettore ossìa dello scaltrito in que' docks di pensiero che si chiàmano e Lamb e Montaigne e Swift e Jean Paulsegnala cose che una lettura veloce nasconderebbe. Per contraccambio, le idèe o sottintese o mezzo accennate (quel pleou emisy pantòs che Esìodo come règola d'arte) fanno sì ch'egli prenda interesse al libro, perocché, interpretàndolo, gli sembra quasi di scriverlo. per altra ragione le sciarade ed i «rèbus» mantèngono a molti giornali il favore del pùbblico. Aggiungi che una sìmile illuminazione a traverso la nebbia, facendo aguzzare al lettore la vista dell'intelletto, non solo lo guida nelle idèe dell'autore assài più addentro che se queste gli si fòssero di bella prima sfacciatamente presentate, ma insensibilmente gli attira il cervello — a modo di que' poppatòi artificiali che avvìano il latte alla mammella restìa — a meditarne di proprie. In altre parole, dall'addentellato di una fàbbrica letteraria, egli trae invito e possibilità di appoggiàrvene contro un'altra — la sua — e, da lettore mutàtosi in collaboratore, è naturalmente condotto ad amar l'òpera altrùi diventata propria.

Ed è al medèsimo scopo di farmi lèggere con attenta lentezza che dèvesi ancora attribuire la mia ripugnanza di usare parecchi spedientimeglio dirèi ruffianesmi — i quali, secondo l'opinione de' crìtici e il gusto della platèa, costituirèbbero i requisiti essenziali della forma romàntica, primo tra tutti l'intreccio che appassiona e rapisce. Quanto ho detto, toccando dello stile che più conviene a libri della pasta de' mièi, può appressapoco ridirsi parlàndosi dell'intreccio. Non nego che una fàvola concitata, densa di colpi di scena, irritante la curiosità, incalzante la lettura, sia la maggiore fortuna, anzi la dote sine qua non per un romanzo sprovvisto di ogni sapore di stile e d'ogni potenza d'idèa: è necessario infatti che il leggitore percorra a rotta di collo il volume e precìpiti al fine prima di accòrgersi che l'autore è più di lui soro,, inghiotta per così dire il cibo senza aver tempo di rilevarne la insipidità. Nei libri, invece, in cui gli avvenimenti narrati sono un mero pretesto ad esprìmere idèe ed una occasione di suggerirne, deve l'intreccioesìstere ma non troppo apparire, dee contentarsi di fare, non da ricamo, ma da canovaccio, adducendo carezzosamente il lettore sino alle ùltime pàgine, quale còmodo cocchio da viaggio che permette di osservare il paese, non già traèndovelo turbinosamente quale rozza infuriata. E sìmile intreccio modesto non parmi che manchi in questa Desinenza in A, poiché le sue trè parti fòrmano gli atti di una sola tragicommedia La Donna, e poiché i medèsimi personaggi, che noi conoscemmo bambini nei primi capìtoli, li ritroviamo, salvo quelli che perdiamo provvidenzialmente per via, giòvani nelle scene di mezzo, vecchi nelle estreme. Oltracciò, vi ha un altro legame più ìntimo, che si tentò di celare nel nesso tra la natura ambiente cosìdetta «morta» da chi non ha fino l'orecchio, e la storia, il caràttere, il «momento» degli attori che ne son circondati. Chi conosce il segreto dei pinti romanzi di Hogarth, comprenderà le mie scritte pitture. Il mòbile, la tappezzerìa, la pianta, vi aquìstano un valore psìchico, vi complètano l'uomo, e, da sèmplici attrezzi teatrali, vèngono a far parte integrante del ruolo dei personaggi. Gli è il coro dell'antica tragedia ridotto a forma moderna. D'ogni intreccio, però, quello che credo di non aver trascurato e cui tengo massimamente è l'intreccio fra il mio e l'ànimo de' lettori;... alludo sempre ai non irosi e non disattenti lettori, cioè ai pochi.

Come vedete da questa ultimìssima frase, quì non si tira di prezzo colla signora Crìtica, allorché nota che io perdo — per ostinata premeditazione — la gran maggioranza del pùbblico quella maggioranza che non lèggere se non i libri scritti a caràtteri di ditta. Osserverò tuttavìa, dal canto mio, che tale pèrdita non è poi così grave, come asserìscono, per chi aspiri ad arricchire meno le case editrici che la letteratura. Il pùbblico di un letterato non è già quello dell'uomo polìtico e del canterino (celebrità spesso e l'uno e l'altro della gola) pei quali è indispensàbile e folla e contemporaneità di fautori; non ne occòrrono a lui migliaja, centinaja e neppure ventine in un tratto: gliene bàstano pochi, uno anche, purché sìano degni, a loro volta, di lode e purché si succèdanosentinelle d'onore del nome suo — fino al più lontano avvenire. La votazione per la durèvole gloria di un artista non si chiude in quel medèsimo giorno in cui viene proposta, ma le urne rimàngono aperte nei sècoli. Se si contàssero gli intellettuali custodi e inaffiatori, insino a oggi, della fama di Dante, non si arriverebbe certo alla grossa cifra della sine nòmine plebs che si accalcava estasiata intorno a passate o grugnisce ora giojosa intorno a viventi volgarità. Senonché, l'applàuso della moltitùdine scompare colle mani che l'hanno prodotto e anche prima, mentre il làuro, piantato dai pochi intelligenti sulla tomba del meritèvole e con sollècito amore educato, non cessa di crèscere e si rafforza cogli anni. Ciò che crea la moda, la moda pur spazza via, oggi alcuno più sosterrebbe la burattinesca trucità dei già celebrati romanzi della Radcliffe la patètica pappa delle novelle, furiosamente già lette, del Chiari, come domani non si soffrirà più da nessuno la grandìssima parte del bozzettismo del giorno. Se è dunque assiomàtico che un libro trovi tanta maggior grazia presso l'uomo d'ingegno quanta minore ne incontra presso il citrullo e viceversa, sarà necessario evidentemente, per conquistare una sùbita popolarità, di piacere ai goffi ossìa di scrìver goffàggini. Stìeno però tranquilli i pubblicisti che hanno missione, dirèbbesi, di alimentare il cretinismo italiano; io gli altri mièi migliori colleghi saremmo mai rei di abigeato di qualche loro lettore. Per conto mio, in arte sono aristocraticìssimo. Come Frine, io non ambisco all'omaggio che dei sovrani... dell'intelligenza. Nulla più mi spaventa di quell'unànime battimani che mi farebbe domandar con Focione: ¿sy pou kakon légon émauton léleoa?

¿Parlo molto di , non è vero, mièi adoràbili crìtici? ¿Che volete? M'insegnaste voi stessi, che per fare o per dire qualche cosa almeno mediocre, è d'uopo tenersi nell'orticello che si conosce men male: ora, io descrivo , cioè la persona che m'è più nota. ¿Perché non vi descrivete anche voi, buoni crìtici? Si vedrebbe alla prova chi men ladra figura. Comunque; questa «subiettività» che vi tanto sui nervi e che stà infine di casa, non ne' mièi libri, ma nelle sole lor prefazioni, da considerarsi come lettere ìntime al pùbblico, non ha nulla d'ingiurioso, ch'io sappia, alla individualità altrùi. A parte che quì si tratta di un subiettivismo che riguarda, non le circostanze occasionali di un corpo, indifferentìssime per tutti gli altri, ma l'essenza di un'ànima, proprietà universale; a parte che la letteraria coscienza è sìntomo di virtù, non di vizio, giacché l'occhio dell'artista che non scorge se non il suo esterno è occhio che poco vede, egli è sempre — parmi — più cortese ed amàbile, nello schiùdere la gallerìa delle fantasìe nostre, di non imitare que' padroni di quadri che si ritìrano sultanescamente, abbandonando ai servi i visitatori, bensì di accompagnar questi noi stessi, facendo loro da cicerone. Ciò, non fosse altro, testìfica che io non sono poi quel trappista, quel Simeone stilita, quell'antropòfago di sé medèsimo, quell'ùrsus spelaeus che piaque a certuni, collo stòmaco grave di anguilla, sognarmi. Voi vi fate, o crìtici, una sbagliatìssima idèa di quello che sia la società umana, ritenèndola tutta compresa, insieme alla fama ed al resto, nei pochi metri quadrati dei giornalìstici uffici che smèrciano i vostri veleni, sacri asili al di fuori de' quali non sarebbe che «lido e solitùdine mera.» Ben altro vasta è la umana società, i cui giorni si còntano a sècoli, i cui membri s'intìtolano pòpoli, il cui chiacchieratojo è il mondo. Per conseguire, tra essa, notorietà, lascio a voi di tentare i vostri «invescativi o coercitivi» come li dite, impiegàndovi tutta quella provvisione di màntici e ruote, di olii e di unti, di zùccheri e incensi, di cui disponete. Anch'io miro alla Fama ma a patto solo di giùngerla all'aria aperta e colla trionfale quadriga de' cavalli bianchi, non sul carretto dell'immondezza di Checco, non sul baroccio giallo-nero ed infangato di Cèsare, non sulle penne rubate e sempre vendìbili a chi più paga di Ruggero.

Per finirla, o mièi crìtici astiosi, io vorrèi lusingarmi che niuno di voi, abbia letto questa Desinenza in A nel suo giusto momento. Non succhia il midollo di un libro se non il lettore il quale si trovi in una disposizione di nervi consìmile a quella in cui era, scrivendo, l'autore. Il gran Mìlton è da lèggersi la domènica, quando si accùmula nell'atmosfera il religioso uragano, fatto di nubi d'incenso, di cerei lampi, di armònico tuono di òrgani; Leopardi in una giornata piovosa, colla disgrazia ai calcagni e la dispepsia allo stòmaco; Cattaneo in un'àula parlamentare, assente lo sfibratore Deprètis; Carducci sotto un arco romano non medicato dal dottore Baccelli; Correnti fra le stoffe preziose e le rarità antiquarie; Hugo, al mare. Così, è nell'època del malincònico e verginale erotismo dell'adolescenza che più si comprende la Vita nuova del giovinetto Allighieri ed è nell'ora del disinganno amoroso che il presente volume sembrerà fàcile e piano. a quest'ùltima ora rado pervèngono gli uòmini; anzi tutti vi tòrnano quante volte ha loro sorriso da un fresco aspetto di donna l'inganno. Ma una illusione ancora maggiore è la mia che crìtici mestieranti rilèggano un libro che han giudicato una volta e indùcansi, per soprassello, a cambiar di parere. Quando uno tra essi lanciò la sua sentenzietta spietata, ¡non c'è più cristi! la ripete stucchevolmente per tutta quanta la vita del condannato e anche dopo. Imitazione quindi perfetta è, la crìtica, della misericordia divina, privilegiata inventrice, a quanto insègnano i preti, della pena che non ha fine.

Pienamente dunque d'accordo co' mièi avversari in ciò, che niuno di noi restò persuaso dei ragionamenti dell'altro, non io de' loro, non essi de' mièi; ritengo per sempre finita la nostra cartacea battaglia: sparsa è l'arena di penne e di matite spuntate, sparsa è di pozze d'inchiostro, e La desinenza in A entra, non troppo sconnessa, nelle sue seconde nozze col pùbblico. ¿Ma che? ¿che è mai questo sciame di donne che m'assal da ogni lato? Come i cimbri, sconfitti da Mario, che si traèvano seco il lor feminile bagaglio, bèllica impedimenta, come i bracati persiani sull'usta dei quali si affollava la bagascerìa di tutto l'impero, i mièi crìtici si rimorchiàrono appresso un nùvolo di gonnelle — dalla seta alla cotoninaballerine ed avvocatesse (ambo oratrici coi piedi), trecche toscane e maestre di scuola (ambo appendici de' clàssici), sorelle di carità, mogli a nolo ed altre parenti posticce, sarte, balie, modelle, cantiniere, telegrafiste, filandiere... un cibrèo insomma di fèmmina, che dopo di avere assistito ozioso alla pugna, cerca ora di riappiccarla coi denti e colle unghie. Colùi che, cavalcando soprapensieri nella romana campagna, capitò qualche volta in mezzo a un'orda di porci e in quella grufolante e minacciosa marèa, stette minuti che gli pàrvero ore, potrebbe ùnico penetrarsi di tutta la gravità del mio caso. ¿Come salvarmi? ¿come superar tanta Eva? I lombi pure di Pròcolo e di Vittorio impallidirèbbero.

E una matrona, un quintale di ciccia che porta gli occhiali della filosofia e il busto della lògica e il guardinfante dell'oratoria, m'investe di una mitraglia aforìstica, sbuffando: «Tutto quanto si guarda da una sol parte si vede male. Chi ingiuria la donna, ingiuria pur l'uomo che ne è il frutto peggiore. Chi non perdonare, è di perdono non meritèvole... ¿Se ti credevi in piena ragione, perché tanta ira?» — aggiunge iratìssima.

«L'evo dell'assolutismo maschile non è più» — sentenzia una bella sveltina in elegantìssima toeletta forense (comeché appena laureata dai professori e dagli studenti dell'Università di...) cercando ingrossare la voce con empirsi le profilate narici di tabacco rosa. — «Chiusa è l'età in cui facevate a vostro profitto le leggi, divorziàndoci ignominiosamente (consulta il Talmud) solo che avèssimo lasciato affreddare la zuppa ai cari sposini, presumèndoci adùltere (vedi in Seldeno) sol che si fosse rimaste appartate con uomo che non ci era marito, il tempo di cuòcere un ovo. Ma il nostro dito ha già tôcco la vostra tarlata legislazione. Noi riusciremo a tutto. La persuasiva, dea della Tribuna, è noi che l'abbiamo trovata. lo puòi dire, stesso, a cui favore la femminil parlantina seppe più volte rinspirar la pazienza che il tuo laconismo avèa fatto smarrire a tuòi creditori e lettori...»

«¿E chi ti aperse i cieli d'amoredomanda rimproverante una èsile e pellùcida vèrgine con un sospiro che tèrmina in tosse «¿di quell'amore che non muor mai, perché non si ciba di vivanda mortale? ¿Chi t'insegnò la làgrima innamorata, seme di perla? ¿chi piovve sul tuo stèrile ingegno quella luce lunare della mestizia che feconda i pensieri? ¿a chi devi i primi vagiti poètici?...»

«¡Ingratissimoesclama con roca voce un composto di cipria, cold-cream e pinguèdine floscia che ancor tenta di spacciarsi per donna, «chi smorzò la tua smania amorosa? ¿chi saziò le tue labbra affamate? ¿Non più dunque ricordi le cento volte che abbracciasti queste mie giarettiere chiamàndomi Dea perché mi slacciassi alla svelta? ¿ la foga giojosa con cui pagavi il mio lusso? ¿ l'intima soddisfazione che ti procuravo, scarrozzando con per la città invidiante, bruttìssimo al fianco di una bella mia pari? ¡Accidenti alla memoria tua!»

«¿E chi,» subentra, ironicamente soave, un pàllido volto tra due càndide ali di tela, strizzàndomi maliziosamente l'occhio per poi tosto velarlo di pudica palpebra, «vegliò lunghe notti al tuo letto e al tuo gèmito, quando tornasti piagato dalla guerra d'amore e fasciò la tua doppia ferita e ministrò sul tuo fronte gèlida aqua e baci scottanti

«¿E chi,» continua con uno strillo acutìssimo un'ombra cenciosa, verso roteando il suo rosario di bosso, «ha pregato per che non accendevi lumi a San Rocco... dopo di averti servito da fida...?»

«¿Mi riconosci tu?» interrompe una machinosa fantesca coi riflessi dei fornelli nel viso, indicàndomi con una mèscola e urtando in terra gli zòccoli. «¡, padrone de' tuòi stivali, ridomàndami ancora, se hai faccia, que' broducci ristretti da sei capponi e dòdici ova con cui ti guarivo dalle medicine che t'ingozzàvano, ridomàndami que' pranzettini di molti volumi che ti mantenèvano, come dicevi, l'ingegno tuo e la stima de' tuòi amici...!»

«¿E il piacere che ti suscitài per gli orecchi? ¿e il gusto che ti diedi per gli occhiesclàmano insieme due bàmbole, giojellate e piumate, la prima con un trillo armonioso e un contemporaneo abbajamento cagnesco, l'altra con un ràpido lancio di gamba e uno strido di papagallo.

«¿E i bottoni che t'abbiamo cucitoecheggia ochinescamente un coro di cameriere, il petto pieno di poppe e di spilli, «¿e le camice che ti stirammo? ¿e i caffè che ti abbiamo opportunamente recati sull'alba

«¿E i pedalini che t'ammagliammoìtera un coro di vecchie punzecchiàndomi cogli aghi di calza, «dove li lasci

¿Che rispòndere? Dall'alto del Pègaso mio, inutilmente inquieto, cerco di pacificare la rumoreggiante folla, ma ottengo l'effetto opposto. Senza prò, infatti, mi sbraccio a fare a tutte comprèndere che ogni vita di artista è zeppa di contraddizioni tra lo scrittore e l'uomo e che però io non sono (mi pròvino) quell'odiatore di donne che mi si rèputa; che, in ogni modo, se nella Madonna a fresco del muro mio fu occasionalmente aperta una fogna, m'impegno di tosto murarla e di ridipingèrvene due, beninteso Madonne: invano prometto loro, purché non mi ammàzzino prima, di cantare con entusiasmo le loro lodi,, ché se fu inneggiato alla peste, al cancro, alla piva e a tutti quanti i malanni, si potrà bene, credo, bruciare incenso rimato anche alla fèmmina, che non ne è poi il peggiore: invano tento di sferrare alle nubi il mio alato destriero — ¡pòvero Pegasuccio! — non può mòversi più, stretto dalla calca e spennato. E le iridiscenti sue penne già battibàgliano ne' cappellini delle mie inimiche.

«¡Rèndici tutto quanto ci hai tolto... fioribaci... carezze!» è questo il grido ùnico, furibondo, che si eleva alle stelle.

Mi ergo in arcione. È un mare di teste in moto, di irati ombrellini e conocchie, di tesi pugni. Anche la voce, quest'ùltima delle sei ricchezze che le donne fanno pèrdere all'uomo (ingènium, mòres, pecunia, vis, lùmina, vox) ho smarrita. E, sulla chioma mi passa la fredda ombra di Orfèo.

«¡Restituisci i tuòi furtiurla quel tempestoso ocèano di Mènadi, con un ondeggiamento in avanti.

Un'arma sola mi restacàrica per fortuna. Con un sùbito moto, la sfòdero.

¡Meraviglia! ¡incanto! Un bràmito di voluttuoso terrore, di riverenza e di cupidigia, distèndesi di bocca in bocca. A , torreggiante sulla sella pegasea, quelle innùmeri donne, come da un colpo di vento abbattute, come Titania o la tèssala dama dinanzi al scespiriano Bòttom o al lucianesco Lucio inasiniti, càdono a ginocchi. Alla minaccia è sottentrata la sùpplica, e tutte tutte invòcano la mia benedizione.

 

Roma, 27 settembre 1883

 

carlo dossi


 




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