MARGINE ALLA «DESINENZA IN
A»
¿Da qual caminetto di letterato o banco di drogherìa, da qual
latrina di gazzettiere o biblioteca in saccheggio bonghiano, hai tù, mio
temerario editore, saputo salvarmi questa copia rarìssima della prima edizione
della «Desinenza in A», che t'intestasti a ristampare?
¡Vedi quanto è làcera e unta! ¡quanto è macchiata e scorbiata!
Nelle sue pàgine, come in suola alpinìstica irta di chiodi,
scorgi e fiuti la traccia del lunghìssimo giro che ha fatto per ritornare a mè.
Serba essa il meretricio profumo del boudoir della dama e il tanfo carcerario
della caserma; e cèneri dell'ozio elegante (la sigaretta) e il pelime del
dotto. Io vi ritrovo il baffo de' polpastrelli della cuoca che se la leggeva a
voce alta e tenèndola stretta, per non lasciarsi almeno sfuggire il suono
d'idèe che non arrivava a comprèndere, e lo sgraffio furioso della padrona di
lei che le avèa fin troppo comprese; io v'incontro la tabaccosa goccia, caduta
insieme agli occhiali dal naso del mio vecchio maestro di belle lèttere che
blandamente ci si appisolava compassionàndomi, e la gualcitura del criticuccio
novello che la scagliava lontano da sé al primo dubbio che l'autore fosse men
bestia di quanto ei sperava.
Nè solamente indovino ma leggo. Segni in matita di tutti i
colori, pudiche cancellature effetto d'impudicizia, punti esclamativi, e, più
ancora, d'interrogazione, postille e paraffi adulatorii e ingiuriosi, stèndono
sulle pàgine della rèduce copia una ragnaja d'interpretazioni e di note che più
grottesca e contraddicèntesi non èbbero Dante e il Burchiello.
¿Chi siete voi, mièi inèditi crìtici? In questo ripescato
esemplare, nè il frontespizio nè i màrgini han mantenuto le vostre
riveritìssime firme. Ogni suo ùltimo possessore — imitando quanto si tenta ora
di fare nella genealogìa letteraria, a differenza della gentilizia in cui i
nipoti gènerano i nonni — raschiò diligentemente il nome dell'antecessore.
Senonché tutti io ringrazio e miti e spietati, perocché a mè giova tanto la
lìrica di chi mi ama quanto la sàtira di chi m'odia. Per pensare, per scrìvere,
per vìvere intellettualmente mi è indispensabile che le molècole, ora pigre,
del mio cervello, riaquìstino la primitiva rapidità e combustibilità. Venga la
spinta dall'applàuso, venga dall'oltraggio, a mè basta che non difetti. Ad un
morso di cane, Gerolamo Cardano, bizzarramente grande, dovette (com'egli narra)
il suo ingegno; a quello dei crìtici dèbbono il loro non pochi scrittori. Un
vento infatti è la crìtica, che, se i mòccoli spegne, ingagliarda i falò.
Non se ne offèndano tuttavìa, i mièi postillatori benèvoli; tù
Cletto Arrighi, tù Primo Levi, tù Perelli, tù Pàolo Mantegazza, tù Cameroni, tù
Capuana, tù Màyor. Oltre la riconoscenza del letterato, vi ha quella pure
dell'uomo e questa è tutta per voi. Se la frusta ed il pùngolo instìgano il
sangue e più spedito lo rèndono a' suòi uffici, lo plutonizza ancor meglio il
bacio, senapismo d'affetto. E ciò dico, mentre rammèmoro in special modo coloro
che hanno e saputo lodarmi senza l'ingiuria dell'adulazione e fatto spiccare il
mio disadorno pensiero nella cornice del proprio. Vorrèi anzi ammirare le loro
felici pensate, colle mie fuse, nella presente edizione; mi ci provài; ma ¡mi
perdònino! la soluzione era sàtura già, nè più c'entrava una sola mica di sale.
Prometto loro però di saccheggiarli alla prima occasione. Di memoria non manco
nè di audacia.
Mi ajùtino intanto a discùter coi loro e mièi avversari, i
postillatori scontenti. Nè a questi risponderèi per le stampe se sapessi dove
stan tutti di casa. Contrariamente al costituzionale principio della pubblicità
ne' giudizi, io preferisco trattare le letterarie mie càuse a porte chiuse. Quì
però, del nemico, non si scorge che l'arme. Sono quindi costretto, per farmi
udire da alcuni, a suonare, quale campana, per tutti.
Chiamando dunque in soccorso la scienza di Rosellini e di
Champollion per decifrare la scarabocchiatura, a penna, a matita, ad unghia,
che copre i lembi di questa bandiera stracciata, e cercando di sgarbugliare,
coll'arcolajo della riflessione, tanta matassa di segni, sèmbrami che, come
lavoro preliminare, la si potrebbe partire in due grandi gomìtoli — quello cioè
che s'avvolge sul generale pensiero del libro e quello sulla sua forma, che è
quanto dire sulla idèa al minuto.
E, cominciando dall'ùltimo, e facendogli sopportare una
seconda chirùrgica operazione, io mi arbitrerò anzitutto di collocare
l'Opposizione della mia nessuna Maestà, come la conquistatrice acies romana, in
trè file — una dei saggiatori della purezza delle parole, l'altra degli
investigatori della castità della frase, la terza de' stimatori della qualità
dello stile. Come vedete, per spartizioni e per tagli io non la cedo a un beccajo...
nè ad un metafìsico.
I nemici non sono pochi. Ma, ¡su le màniche! e avanti. Non ho
coraggio bastante per aver paura.
Si affaccia prima la pigmèa e sparuta (perché cibata di pura
crusca) fanterìa de' gramàtici, la penna in resta, la brachetta fuori. Prèndersela
con costoro — ultimo avanzo di un'oste già debellata — gli è come azzuffarsi
colle ombre del cardinal Bembo e di Benedetto Varchi. Non me ne òccupo quindi
che come di partita pro-memoria in un bilancio. Questa
schiera è composta, o, a dir meglio, era or fà qualche anno, di tutti coloro
che possedèvano fede accademica di miserabilità intellettuale, di coloro che,
non sapendo far libri, facèvano dizionari e s'inquietàvano per la corrotta
italianità e pei dialettismi non trattenuti da alcuna forca e per le stesse
nuove scoperte apportatrici di vocàboli nuovi. Pur di non dire «vagone»
avrèbbero sempre viaggiato in vettura. Èrano, in gergo scientìfico, chiamati
cultori della istruzione, forse perché incaricàvansi di strappare le pianticine
novelle per vedere se mettèan bene radice. Rondàvano in avvisaglia, con passo
di sùghero, e quando accorgèvansi che qualche scrittore cercava introdurre nei
gramaticali confini da essi riputati propri, merce non nominata nelle loro
tariffe, lo attorniàvano, assaltàvanlo, arrestàvanlo schiamazzando quali oche.
E: «quella è di legge», «questa è di contrabbando»,
affannàvansi, que' gabellieri, a sfilare e palpare ogni parola di un libro, a
stemperare, entro i lor stacci, i perìodi di un pòvero autore finché ne colasse
una broda completamente sciapa, incolora, inodora. Nè, per essi, serviva la
scusa della analogìa, la raccomandazione del buon senso, l'invito della
necessità. Permettendo, ad esempio, l'onomatopèico «cricch» perché si leggèa a
pàgina tale, linea tal'altra del lor ricettario, proibìvano irremissibilmente
il suo stretto parente «cracch», non trovàndosi esso in nessuna parte del
mastro del loro sapere. L'òttimo autore, secondo tali notài spacciàntisi per
legislatori, non dovèa aver orecchio che pei rumori e pei suoni protocollati,
udir quindi eternamente la zampogna e il liuto, non il pianoforte mai. Fuor di
Toscana, anzi di Firenze, anzi di Palazzo Riccardi, non era letteraria salute.
Poiché Arno non diede l'aqua con cui fu bollito il proto-risotto
ed impastato il capo-stipite dei panettoni, Milano era
tenuta di abolir senza più quelle sue antiche ghiottonerie non previste dalle
edizioni «dal miglior fior ne coglie» per non mèttersi a rischio di nominarle,
salvoché non si fosse adattata a sostituirvi i più legìttimi nomi di «riso
giallo» e di «pan balestrone.» Così, se c'era scrittore che ancora trovasse in
isbaglio, qualche efficace metàfora la quale non fosse catalogata tra «gli
impacci del Rosso» e «gli avanzi del grosso Cattani o del Cibacca»,, tra «il regno di Cornovaglia» e i viaggi «a Lodi, a
Piacenza, a Carpi, in Picardìa, a Calcinaja, a Volterra»,, tra il «mangiar spinaci» e «l'arruffar matasse» e tutto
il resto della ciurma galeotta del vocabolario toscano, ¡guài se l'avesse pur
tollerata! dovèa immediatamente cacciarla; pena la Crusca negli occhi ed il
Frullone sul capiro, irati di non potere, per lui, russare di sèguito la
governativa prebenda.
Che io molto non fossi nelle grazie di sìmili egrege persone
(uòmini meno di lèttere che di parole) è più chiaro della loro «chiarissimità»
ora buja. Non vi ha scrittore, sempre s'intende, al saggio della loro pietra di
paragone, che era poi una mola mugnaja, più di mè impuro. Nè io davvero, mi
sono mai incomodato a cercare, per le parole che adopro, maggiori difese di
quelle che danno le stesse parole accoppiate, cioè del pensiero che esprìmono.
¿Cosa infatti avrebbe valso ripètere a que' bacalari per la millèsima volta,
che la lingua naque prima della scrittura e l'una e l'altra innanzi la règola?
¿che l'Italia stette benìssimo senza gramàtiche tre sècoli buoni e ci sarebbe
potuta star sempre? ¿che quelle clàssiche eleganze da essi additate a modello,
capestrerìe come chiamàvanle con vocàbolo affatto degno della loro parlata, non
èrano, il più delle volte, che solecismi solenni (nè noi ce ne scandolezziamo)
maggiori assài di quelli che possa creare un originale stilista? E, ancora:
¿che avrebbe giovato ricantar loro sul motivo di Orazio (ut sylva fòliis ecc.),
che un idioma, come qualsìasi altro mortale frutto, è destinato, se non
spègnesi in germe, a percòrrere l'intero suo ciclo fino alla maturanza
completa, fino alla conchiusiva caduta dall'àlbero della vita, e che l'ùnico
mezzo di evitargli una ràpida morte, è di trasfòndergli continuamente umore,
imitando Dante, che colla falce del giudizio mieteva da ogni sottolingua
italiana ed anche non italiana le spighe della nazionale favella? ¿che avrebbe,
infine, servito provare loro statisticamente che non è tanto la qualità della
materia impiegata quanto l'ingegno di chi la foggia e coòrdina che fà
l'eccellenza di un'òpera d'arte, cosicché alla domanda — qual sia la miglior
lingua — si può sempre rispòndere: leggete Shakspeare, è l'inglese; leggete
Rìchter, è il tedesco; è l'italiano con Foscolo; è il milanese con Porta?
Ripeto: non avrebbe giovato ricordar loro tanto, poiché era
vano sperare che gente la quale non s'impensieriva che dei mattoni linguìstici,
si accorgesse che, tutti insieme, tendèvano a rappresentar qualche idèa, a
formare un letterario edificio. Interamente quindi perduto, per essi, sarebbe
stato quanto ho già detto e quanto sto quì per soggiùngere a titolo di buona
misura.
E il contentino è questo. Pochi tra i grandi autori, gloria dell'umanità,
hanno schivato le ire dei crìtici loro contemporanei tentanti di impor la
cavezza al genio, e quasi tutti si vendicàrono, dannando i lor zoiletti
all'eterno ridìcolo. Ora, stà il curiosìssimo fatto, che quelli autori sìano
appunto i più spesso mostrati ad esempio dai successori dei berteggiati, a
volta loro da berteggiarsi. E, davvero, quel venosino col quale la falsa
crìtica fà tanto chiasso, volteggiandolo minacciosa intorno alla testa dei
novellini scrittori, la ha già bastonata senza misericordia; quel fiero
ghibellino cui essa domanda, per ogni suo pasto da orco, e zanne e ventrìcolo,
l'ha fatta più volte tremare colla maestosa sua voce, come quando disse «òpera
naturale è che uom favella, — ma, così o così, natura lascia — poi fare a voi secondo
che v'abbella.» Volendo quindi scoprir la radice di tale stranezza nè potèndosi
crèdere che il ricordo de' buffetti e de' calci sia amàbile a' crìtici, com'era
a Rousseau quel del castigo di mademoiselle Lambercier, bisognerà ricercarla e
la troveremo fra le astuzie stratègiche. A guisa infatti degli àrabi che coi
cadàveri inquìnan le fonti dei loro nemici, mìrano i crìtici, cogli autori
morti, a spègnere i vivi.
Pur non rièscono. La treggia non caccierà più il carro dal
mondo nè il carro la diligenza nè la diligenza il ferroviario convoglio. Il
progresso che essi combàttono col tardo archibugio a pietra, loro risponde coi
cèleri Vètterli, come lor rispondeva mediante quel rudimentale fucile
quand'essi ostinàvansi a maneggiar l'arco e la freccia, e coll'arco quando
ancora loro arme era il selcio. La umanità procedette sempre a dispetto d'ogni
accademia, d'ogni senato, d'ogni governo. ¡Guài se il passato avesse più forza
dell'avvenire! Saremmo tuttora alla lingua dei lupi e degli orsi e ad uno
stadio di civiltà affatto corrispondente.
Ma, seppelliti questi morti di hastati, ecco i prìncipes qui
consùrgunt ad arma, pùntano il loro schioppetto e fan cecca. Sono essi gli
incettatori della nazionale moralità, una compagnìa in lamentazione perpetua —
di cui fanno parte i violacei predicatori che ventilàbran dal pùlpito i
vituperi più concupiscenti contro la concupiscenza e le ascoltatrici loro
ammiranti, le baldracche, che han messo insieme bastèvoli soldi per comprarsi
il rossetto della castità; fanno parte i loschi compilatori di virtù per il
pòpolo a dieci centèsimi la dispensa e i gazzettieri che colla sifìlide
cristallina alle labbra sermònano di pudicizia e le mamme affannate a difèndere
le orecchie premaritali delle loro figliuole da ogni sussurro impudico, salvo a
lasciarvi precipitar dentro un mondezzajo di roba, non appena quelle figliuole
sìen giunte al legìttimo stato di comporre adulteri; fanno insomma parte tutti
coloro, i quali veri stradini della nettezza pùbblica, pel sudiciume — gìrano,
sollevando, per così dire, la casta frasca di vite alle statue per poi urlare
«¡allo scàndalo!»
Il realismo in arte è il bersaglio contro il quale scàgliano
essi i lor giavellotti ed è insieme lo scudo con cui sen ripàrano i loro
contrari. Perocché, in questo balordo argomento, una guerra s'è accesa che più
fiera non suscitàrono le due secchie rapite, la bolognese e la greca, una
guerra a cui paragone sembrò quasi sensata quella di buffa memoria dei clàssici
e dei romàntici. Vuolsi che essa scoppiasse al primo apparire in commercio
delle fotografìe colorate di Zola. La gàrrula turba de' letterati si partì
allora in due campi — diciàmoli meglio, stàbuli — e gli uni si buttàrono tosto
a ginocchi ed accèsero i lumi dinanzi a quella forma di arte perché
imaginàronsi che fosse nuova, gli altri si pòsero a tirar sassate contro di
essa e a fischiare, principalmente istizziti da quella riputazione di novità.
Il realismo, intanto, stava a guardare dal libro di Omero.
Ma il bello è, che, a confòndere maggiormente le idèe, e fautori
e avversari, stroppiando il senso di quel frasone empibocca, incapàronsi di
fargli significare, là a tìtolo d'onore, quà di disdoro, quella parte soltanto
di letteratura che studia e descrive le voluttà della carne e le turpitùdini
umane. A chi si debba tale spilorcia interpretazione non sappiamo. Sappiamo
solo, che, nella realtà, se c'è il male colle sue innumeri fronti, c'è pure il
bene in tutti i sorrisi suòi. Al realismo o verismo pòssono quindi appartenere
con pari diritto tanto le dipinture di una cloaca, di un ubbriaco che rece, di
cani che s'accòppiano in piazza, quanto quelle di un fragrante roseto, di un
eròe che per la patria s'immola, di un uomo che respinge l'amplesso della donna
del suo benefattore. Nella realtà vi ha il bordello in tumulto e la pacìfica
casa: Protàgora abderita che tutto vende e difende a seconda del prezzo e
Giannone che muta continuamente paese per non mutare opinione, e, per seguire
la verità, è da tutti perseguitato. Della realtà fanno parte integrante e
l'illusione ed il sogno e la fede e lo stesso idealismo.
Sarebbe quindi eccellente partito, che, a stabilire i tèrmini
della questione, s'incominciasse a cambiare il nome alla questione medèsima. E
però si riserbi a luogo più acconcio quella parola di «realismo», fatta per
imbrogliare, e se ne addotti una di significato più certo. Per conto nostro,
nelle trè arti non sappiamo vedere che una questione sola, quella del brutto e
del bello, senza riguardo nè a scuole nè a scopi. Se ci sono però buontemponi
che vòglion scaldàrsela per quel letterario atteggiamento, che è, come
affèrmano, diretto ad vìrgam erigèndam, ¡si sèrvano! Àbbiano in ogni modo la
compietezza di scègliere la giusta parola e non ci pàrlino d'altro che di
«carnalismo.»
Senonché, carnalismo non vuole ancor dire immoralità. Se le
leggi divine impòngono, se le umane favorìscono, le une e le altre
improvvidamente, la procreazione della spece, non vi dovrebbe èssere arte più
leggìttima e più commendèvole di quella che risveglia ed instiga la foja
generatrice, o, come dicèvano i nostri antichi, lùmbum ìntrat. Tuttavia, c'è un
inconveniente. Le òpere letterarie, anche le più scollacciate, quando
raggiùngono la perfezione non commuòvono che il cielo dell'ànimo. Si potrèbbero
esse paragonare «ai fidi incendi per le innocue torri» delle rappresentazioni
teatrali. La voluttà intellettuale sòffoca la carnale. Una volgarìssima serva
irriterà e sazierà meglio la libìdine tua che non una Saffo, testimoni Faone e
Nicolò Tommasèo. Misurati col quale termòmetro, gli epigrammi
così-detti osceni di Marziale ed i sonetti di Porta, che si
chiàmano inèditi anche dopo le cento edizioni, sègnano un alto grado di
moralità senza confronto più alto degli sconcìssimi — perché malfatti —
libèrcoli approvati dagli alti e bassi Consigli scolàstici — Novelle esemplari,
Fior di virtù (e di stolidità) ecc. ecc. — fonte di lucro ai maestri e di
ebetismo ai discèpoli.
Pur non si pensi, con ciò, che chi scrive applàuda a due mani
al rubensiano delirio di polpe e di sguardi procaci che ha invaso la scolaresca
del giorno fatta ubbriaca da mezza bottiglia di stecchettina gazosa. La smania
sessuale è in natura,, ha dunque diritto di avere
anch'essa la sua sede nell'arte; l'invito del sesso però non forma tutta la
vita,, manchévole quindi sarebbe quella
letteratura che si occupasse esclusivamente (perdonate la frase) dei propri
ìnguini non istudiando che di rènderli appariscenti, nè più nè meno dell'altra
che si cappona per procurarsi una voce di àngelo. Che, se in questa desinenza in
A la nota lubrica ha il sopravvento, a mè preme avvertire gli egregi lettori:
I° che l'autore non ha con essa seguito la traccia de' suòi giovinetti
colleghi, ma hanno questi piuttosto seguita la sua. La desinenza in A venne
infatti composta nel 1876, allorché del rosario del carnalismo non èrano state
ancor snocciolate, almeno in Italia, che poche avemarìe e non si era ancor
giunti ad alcun paternostro. 2° che l'autore innanzi concèdere al pùbblico
questa sua sgualdrinella figliuola, gliene aveva già presentato trè altre
morigeratìssime. La cifra di un uomo, e màssime di uno scrittore, è formata,
non da un ùnico nùmero, ma da parecchi. Così, com'e, La desinenza in A — libro
non certo per monacanda — rappresenta la giovinezza dell'autore, gli errori
della poca sua carne, il suo squillo di bicchiere nell'orgia. Ma la giovinezza
gli è oggi completamente sfiorita. La penna che segnò quèi ritratti donneschi è
rotta per sempre. Bene stà. Ogni stagione il suo frutto. Fanciullo, scrissi
d'infanzia e vi offersi L'Altrieri; adolescente, di adolescenza e vi diedi
l'Alberto Pisani; giòvine, di gioventù, ed èccovi La desinenza in A. Se la
vecchiaja non mi sarà, come sembra, contesa, scriverò cose da vecchio —
metafisici soliloqui, archeològiche dissertazioni — ¡chissà mai! anche
ascètica. Letterariamente almeno, il Dossi non si falsificherà mai.
I cavalieri intanto e le dame, la cui virtù è sì fragile da
temerne lo scoppio, pur coll'esporla alla temperatura di qualche grosso
proverbio da fin di tàvola (sìmili in ciò a coloro che per gli eccessivi
riguardi contro le infreddature tròvansi perpetuamente nello stato più proprio
di buscàrsene) e si spavèntano all'ombra solo di quelli onorèvoli... — più
onorèvoli assài di parecchi votanti nei Parlamenti — ... membri che hanno, come
scrive Aretino a messer Battista Zatti da Brescia, «fatto i maggiori uòmini del
mondo, i Michelàngiolo, i Tiziano, i Raffaello, e appresso loro, i papi, gli
imperatori e i rè» nonché gli stessi che ne pìglian vergogna, — considerino,
dico, questi esimii signori (del che caldamento li prego) come non sìavi còdice
che li òbblighi a comprar nè il presente nè altro libro del gènere suo, e, quel
ch'è più, a continuarne la compitazione quando si accòrgono di che si tratta.
Chi ama le comedie prive di sesso ha i teatri suòi, ha i burattini, dove può
assìstere, senza perìcolo alcuno, da quello all'infuori di addormentarsi, anche
al ballo. Per i pòveri d'intelligenza provvede la caldaja dei frati; c'è una
letteratura estesìssima, nientemeno che il novantanove per cento di ogni
biblioteca. Ne profìttino dunque. L'aqua non costa nulla e rinfresca. E se,
dopo ciò, si ostìnano a spizzicare le mie frolle pernici in salmì, per poi
lamentarsi di qualche doloruccio di ventre, ¡colpa loro! Questo libro contiene,
certo, veleni, ma anche i veleni sono ùtili, basta sapere dosàrseli, cosicché
l'arte della salute — intendi, per burla, la medicina — fonda in gran parte su
di essi.
E, ora ¡avanti i signori triari! stavo per dire «trepiedi.»
Sono la schiuma... ¡pardon! la panna dei crìtici. Hanno, pressoché tutti, fatto
studi profondi — di che non si sà — fuori d'Italia, là nei paesi in cui le
vòcali cèdono alle consonanti e l'uva al lùppolo; le loro sentenze le spùtan
dall'alto delle càttedre o di que' mucchi di residui cibari che hanno nome
«riviste o rassegne» mensili o quindicinali,,
non abbassandosi che raramente a ragionare spropòsiti ne' fogli quotidiani,
diventati, loro mercè, piombo in foglia. Costoro non pèrdonsi nelle scaramucce
delle parole nè si formalìzzano di qualche frase che mostri il rosato ginocchio
più delle altre. Ùnica loro preoccupazione è lo stile, sono gli intenti
dell'autore.
Ora, il primo capo di accusa contro mè di tali crìtici in
mitria, è quello che io scriva troppo avvolto ed oscuro. «Diàmine» sèmbrano essi
dire «la più parte degli altri scombìccheracarta, basta un'occhiata per
accertarsi che non vàlgono nulla; costùi bisogna lèggerlo due, trè volte, prima
di persuadèrsene.»
Ebbene, voglio èssere, come nessuno più, arrendèvole; voglio
per un istante dimenticare la pregiudiziale, se la incolpata oscurità dipenda
dalle idèe dell'autore che non sanno farsi vedere o piuttosto dagli occhi de'
leggitori che non arrìvano a percepirle: completamente mi càrico dell'asserito
peccato di una bujezza sì favorèvole ai lumi, ma, insieme, domando: ¿quale ne è
la càusa? Una letteraria virtù, mièi signori — la densità delle idèe.
Ho detto una virtù; pur tuttavìa, giacché sono sul cèdere,
accorderò anche che tràttisi semplicemente di un bel difetto. Posseggo due
scuse, però — e uno scusino: l'influenza del tempo nel quale è tuffato il mio
corpo, il corpo che assièpami la volontà e, se ciò non vi par sufficiente,
questa medèsima volontà mia.
E, prendendo le mosse dal tempo, tutti vèggono — meno i
crìtici dalle acute pupille nella collòttola — come sia oggi impossibile ad un
autore, che al manubrio dell'organetto preferisca l'arco del violino, di
scrìvere precisamente come quando il patrimonio delle idèe era di gran lunga
più scarso dell'attuale e pisciàvasi chiaro perché non si beveva che aqua,
compreso il vino. Bastava allora di esprimere ciò che il cuore individual
suggeriva e la lingua materna imboccava; ciascun paese viveva, per conto suo,
dei frutti esclusivi del proprio suolo e del proprio pensiero, nè più nè meno
di Ippia sofista — vero sìmbolo di quell'època — che, insomaràtosi nel
principio che ciascun uomo costituisce una completa repùbblica a sé, anzi un
intero universo, si facèa colle sue cìniche mani tutto, dalle ciabatte al
mantello, dal letto al pranzo, dai mòbili alla moglie. Senonché, oggi, si mutò
stile: siamo figli di esploratori, e viaggiatori noi stessi, e, in quella
maniera che da occidente ad oriente, dal polo antàrtico all'àrtico,
s'incròciano e mèscolano tutti i prodotti del globo, tra cui màssimo l'uomo, gìran
le idèe più ancora liberamente e si spòsano e ne crèano altre, prolìfiche come
infusori. È una tendenza generale, questa, che nè le polìtiche tariffarie ed i
cannoni dei governanti, nè gli ohimè dei grammàtici e gli esorcismi dei preti
sanno o potranno frenare. I mercati del mondo (in gergo ufficiale «Stati»)
gràvitano a fòndersi in uno solo. Si và a tutto vapore, e già può dirsi a tutto
elèttrico, verso il comunismo più equo e la più ordinata anarchia.
La universale e fatale tendenza tròvasi poi, nel mio
infinitesimale pianeta del corpo, preparata la sdrucciolina da càuse
particolari, anzi orgàniche. Difatti, le doppie porte per le quali le
sensazioni pènetrano nella casa dell'ànima (rètine, timpani, ecc.) e che, nella
maggioranza degli uòmini sono pressoché uguali, tantoché le due correnti della
percezione èntrano in essi simultaneamente e tòccano con pari scocco nel
campanello della coscienza, in mè sono affatto assimètriche, donde un risultato
opposto. Nè le sensazioni rivali che vèngono a mè dai vari oggetti, giùngono a
combaciarsi perfettamente e a dare un sol squillo nello spìrito mio,
fermentando in esso un miscuglio di ali e zampe e teste d'idèe versàtovi da
letture affrettate, copiose, disparatissime. Era forse, originariamente, il mio
cuore un ùnico specchio, ma, dalla memoria onerato, si spezzò in centomila
specchietti. Il troppo olio, dirèbbesi, affogò lo stoppino. Se nel bujo
notturno, nei preludi del sonno, mi si rierge talvolta l'idèa — come la colonna
di fuoco che guidava gli ebrèi — luminosa,, comparso il sole, io più non
scorgo che fumo. Vero è che nel fumo perdura la fiamma e che, a forza di gòmito
e pòmice, la idèa riaquista splendore, o, come di Virgilio e delle orse si
scrisse, «fòrmam post ùterum lingua magistra pàrit», ma ciò non avviene che a
prezzo di transazioni, di sottintesi, di ripieghi, cosicché il mio stile
potrèbbesi bensì assomigliare ad una donna sapientemente abbigliata, non mai ad
una bellissima vèrgine nuda. In questo mio stesso discorso, in questo stesso
periodo — da mè lasciati più greggi del sòlito — i lettori hanno prove a
biseffe di ciò che affermo. Si aggiunga la preoccupazione affannosa di stipare
quanto più senso si possa in ogni frase (perocché sempre mi parve atto di
letteraria disonestà quello di vèndere al pùbblico, per libri scritti, volumi
di carta tinta d'insignificante inchiostro); si aggiunga lo studio, non meno
morboso, di cacciar dapertutto malizia, affinché, se la stoffa od il taglio del
pensiero non vale, valga almeno la fòdera, e non farà meraviglia se il modo
dello scrivere mio debba inevitabilmente mancare di quella tagliente sobrietà
che forma la caratterìstica della espressione dei grandissimi ingegni e de'
grandissimi stolti.
Ma della complicazione del mio attuale pensiero, c'è un'altra
càusa, pur fìsica. Se colla continua ed ostinata meditazione, il cervello
consegue la forza di ascèndere e la sicurezza di aggirarsi pei greppi più
vertiginosi, smarrisce, spesso, quella di camminare in pianura. Guadagnando le
ali, perde, per così dire, i piedi. Il proverbiale esempio del matemàtico, che,
sciolti i càlcoli più sublimi, sbaglia la somma del domèstico conto che gli
propone la cuoca, è in règola perfettamente colla verità ed è applicàbile a
tutte le arti. È noto come uno de' màssimi agenti del pensiero sia il sangue,
la virgiliana purpurea ànima. Ora, la irritazione che l'ostàcolo tra la volontà
nostra e la cercata idèa pròvoca ai nervi dell'intelligenza, invita, attira al
cervello il flusso sanguigno necessario ad abbàttere lo stesso ostàcolo, e la idèa
si svela. Al ragazzo che fà i suòi primi italianucci è sufficente irritazione
nervosa la ricerca delle parole di cui riveste la traccia temàtica dàtagli dal
maestro; all'adolescente, la caccia alla rima ed all'armonìa del verso colle
quali ripete le ripetizioni di moda; al giòvane, che aspira alla artìstica
originalità, lo sforzo, prima di evitare le idèe e le forme troppo stancate,, poi di scoprirne di nuove, poi ancora di raddoppiare,
di triplicare i sensi delle sue frasi, finché, vievìa, moltiplicàndosi i dièsis
e i bemolle e gli altri accidenti in chiave, arrivi a quella concentrazione, a
quella ingegnosa oscurità di stile che fà la delizia degli intelligenti e la
disperazione del pubblicaccio. Ora, il sottoscritto, che ha passato come ogni
altro autore non condannato allo sgabello della mediocrità, tali stadi, tròvasi
appunto a quello che si potrebbe chiamare «la distillerìa della quintessenza.»
Le difficoltà che, una ventina, una decina di anni prima, bastàvano a
rieccitargli la Vènere intellettuale, oggi, perché superate, gliela làsciano
inerte. Indicàtegli un masso di pòrfido letterario, ei ne saprà far balzare una
statua; consegnàtegli, per una burocràtica scarpa il necessario cuojo asinino
già tagliato e il puntarolo e lo spago, darà punti svogliati e voi rimarrete a
piè nudo.
Confesserò tuttavia (ed ecco la mia scusa aggiuntina) come,
allorquando mi accorsi che non avrèi potuto per nessun verso fuggire il
crescendo della complicazione stilìstica, lo affrettài e mi vi abbandonài
tutto, mirando solo di convertir la cattiva in una buona ventura, come fà,
della macchia che gli goccia impreveduta sul foglio, l'aquarellista. E
veramente, l'originalità in arte ha più spesso radice in difetti che non in
virtù. Stia certo il lettore che, se di un'oncia soltanto della lìmpida mente e
dell'amàbile filosofìa di Alessandro Manzoni o del sicuro ànimo e dell'ampio
umorismo di Giuseppe Rovani avessi potuto disporre, non mi sarèi contentato di
fare il geroglìfico Dossi. Gli è, del resto, una fatalità cronològica alla
quale nè io nè i mièi fratelli in letteratura sapremmo sottrarci. Trascorsa la
primavera pariniana, la manzoniana state, il rovaniano autunno, più non ci
avanza, del letterario anno che stà per finire, se non l'inverno. Spremuta
l'uva di Alfieri, di Monti e degli altri, fatto il vin di Manzoni e di Giusti,
fatto il torchiàtico di Aleardi, di Prati, di Rèvere e d'altrettali, più non
rimane da fabbricarsi, dell'ùltima svinatura, che l'aquavite. Lambicchiàmone
dunque in buon'ora. Ci servirà di sole invernale, e, riscaldate da essa, le
generazioni novelle prepareranno con impulso gagliardo il terreno ed i tralci
per le vendemmie future.
Tornando a noi, o piuttosto a mè, io non mi lagno niente del
nùmero, quale si sia, che estrassi nell'ùltima leva della letteratura paesana,
nè dell'èsito degli sforzi coi quali tentài di assecondare e completarmi la
sorte. Uno stile che fosse una rotaja inoliata sarebbe la perdizione de' libri
mièi. Uno invece a viluppi, ad intoppi, a tranelli, obbligando il lettore a
procèder guardingo e a sostare di tempo in tempo — parlo sempre del non
dozzinale lettore ossìa dello scaltrito in que' docks di pensiero che si
chiàmano e Lamb e Montaigne e Swift e Jean Paul — segnala cose che una lettura
veloce nasconderebbe. Per contraccambio, le idèe o sottintese o mezzo accennate
(quel pleou emisy pantòs che Esìodo dà come règola d'arte) fanno sì ch'egli
prenda interesse al libro, perocché, interpretàndolo, gli sembra quasi di
scriverlo. Nè per altra ragione le sciarade ed i «rèbus» mantèngono a molti
giornali il favore del pùbblico. Aggiungi che una sìmile illuminazione a
traverso la nebbia, facendo aguzzare al lettore la vista dell'intelletto, non
solo lo guida nelle idèe dell'autore assài più addentro che se queste gli si
fòssero di bella prima sfacciatamente presentate, ma insensibilmente gli attira
il cervello — a modo di que' poppatòi artificiali che avvìano il latte alla
mammella restìa — a meditarne di proprie. In altre parole, dall'addentellato di
una fàbbrica letteraria, egli trae invito e possibilità di appoggiàrvene contro
un'altra — la sua — e, da lettore mutàtosi in collaboratore, è naturalmente
condotto ad amar l'òpera altrùi diventata propria.
Ed è al medèsimo scopo di farmi lèggere con attenta lentezza
che dèvesi ancora attribuire la mia ripugnanza di usare parecchi spedienti —
meglio dirèi ruffianesmi — i quali, secondo l'opinione de' crìtici e il gusto
della platèa, costituirèbbero i requisiti essenziali della forma romàntica,
primo tra tutti l'intreccio che appassiona e rapisce. Quanto ho detto, toccando
dello stile che più conviene a libri della pasta de' mièi, può appressapoco
ridirsi parlàndosi dell'intreccio. Non nego che una fàvola concitata, densa di
colpi di scena, irritante la curiosità, incalzante la lettura, sia la maggiore
fortuna, anzi la dote sine qua non per un romanzo sprovvisto di ogni sapore di
stile e d'ogni potenza d'idèa: là è necessario infatti che il leggitore
percorra a rotta di collo il volume e precìpiti al fine prima di accòrgersi che
l'autore è più di lui soro,, inghiotta per così dire il cibo
senza aver tempo di rilevarne la insipidità. Nei libri, invece, in cui gli
avvenimenti narrati sono un mero pretesto ad esprìmere idèe ed una occasione di
suggerirne, deve l'intreccio sì esìstere ma non troppo apparire, dee
contentarsi di fare, non da ricamo, ma da canovaccio, adducendo carezzosamente
il lettore sino alle ùltime pàgine, quale còmodo cocchio da viaggio che
permette di osservare il paese, non già traèndovelo turbinosamente quale rozza
infuriata. E sìmile intreccio modesto non parmi che manchi in questa Desinenza
in A, poiché le sue trè parti fòrmano gli atti di una sola tragicommedia La
Donna, e poiché i medèsimi personaggi, che noi conoscemmo bambini nei primi
capìtoli, li ritroviamo, salvo quelli che perdiamo provvidenzialmente per via,
giòvani nelle scene di mezzo, vecchi nelle estreme. Oltracciò, vi ha un altro
legame più ìntimo, che si tentò di celare nel nesso tra la natura ambiente cosìdetta
«morta» da chi non ha fino l'orecchio, e la storia, il caràttere, il «momento»
degli attori che ne son circondati. Chi conosce il segreto dei pinti romanzi di
Hogarth, comprenderà le mie scritte pitture. Il mòbile, la tappezzerìa, la
pianta, vi aquìstano un valore psìchico, vi complètano l'uomo, e, da sèmplici
attrezzi teatrali, vèngono a far parte integrante del ruolo dei personaggi. Gli
è il coro dell'antica tragedia ridotto a forma moderna. D'ogni intreccio, però,
quello che credo di non aver trascurato e cui tengo massimamente è l'intreccio
fra il mio e l'ànimo de' lettori;... alludo sempre ai non irosi e non
disattenti lettori, cioè ai pochi.
Come vedete da questa ultimìssima frase, quì non si tira di
prezzo colla signora Crìtica, allorché nota che io perdo — per ostinata
premeditazione — la gran maggioranza del pùbblico quella maggioranza che non sà
lèggere se non i libri scritti a caràtteri di ditta. Osserverò tuttavìa, dal
canto mio, che tale pèrdita non è poi così grave, come asserìscono, per chi
aspiri ad arricchire meno le case editrici che la letteratura. Il pùbblico di
un letterato non è già quello dell'uomo polìtico e del canterino (celebrità
spesso e l'uno e l'altro della gola) pei quali è indispensàbile e folla e
contemporaneità di fautori; non ne occòrrono a lui nè migliaja, nè centinaja e
neppure ventine in un tratto: gliene bàstano pochi, uno anche, purché sìano
degni, a loro volta, di lode e purché si succèdano — sentinelle d'onore del
nome suo — fino al più lontano avvenire. La votazione per la durèvole gloria di
un artista non si chiude in quel medèsimo giorno in cui viene proposta, ma le
urne rimàngono aperte nei sècoli. Se si contàssero gli intellettuali custodi e
inaffiatori, insino a oggi, della fama di Dante, non si arriverebbe certo alla
grossa cifra della sine nòmine plebs che si accalcava estasiata intorno a
passate o grugnisce ora giojosa intorno a viventi volgarità. Senonché,
l'applàuso della moltitùdine scompare colle mani che l'hanno prodotto e anche
prima, mentre il làuro, piantato dai pochi intelligenti sulla tomba del
meritèvole e con sollècito amore educato, non cessa di crèscere e si rafforza
cogli anni. Ciò che crea la moda, la moda pur spazza via, nè oggi alcuno più
sosterrebbe la burattinesca trucità dei già celebrati romanzi della Radcliffe
nè la patètica pappa delle novelle, furiosamente già lette, del Chiari, come
domani non si soffrirà più da nessuno la grandìssima parte del bozzettismo del
giorno. Se è dunque assiomàtico che un libro trovi tanta maggior grazia presso
l'uomo d'ingegno quanta minore ne incontra presso il citrullo e viceversa, sarà
necessario evidentemente, per conquistare una sùbita popolarità, di piacere ai
goffi ossìa di scrìver goffàggini. Stìeno però tranquilli i pubblicisti che
hanno missione, dirèbbesi, di alimentare il cretinismo italiano; nè io nè gli
altri mièi migliori colleghi saremmo mai rei di abigeato di qualche loro
lettore. Per conto mio, in arte sono aristocraticìssimo. Come Frine, io non
ambisco all'omaggio che dei sovrani... dell'intelligenza. Nulla più mi spaventa
di quell'unànime battimani che mi farebbe domandar con Focione: ¿sy dé pou tì
kakon légon émauton léleoa?
¿Parlo molto di mè, non è vero, mièi adoràbili crìtici? ¿Che
volete? M'insegnaste voi stessi, che per fare o per dire qualche cosa almeno
mediocre, è d'uopo tenersi nell'orticello che si conosce men male: ora, io
descrivo mè, cioè la persona che m'è più nota. ¿Perché non vi descrivete anche
voi, buoni crìtici? Si vedrebbe alla prova chi fà men ladra figura. Comunque; questa
«subiettività» che vi dà tanto sui nervi e che stà infine di casa, non ne' mièi
libri, ma nelle sole lor prefazioni, da considerarsi come lettere ìntime al
pùbblico, non ha nulla d'ingiurioso, ch'io sappia, alla individualità altrùi. A
parte che quì si tratta di un subiettivismo che riguarda, non le circostanze
occasionali di un corpo, indifferentìssime per tutti gli altri, ma l'essenza di
un'ànima, proprietà universale; a parte che la letteraria coscienza è sìntomo
di virtù, non di vizio, giacché l'occhio dell'artista che non scorge se non il
suo esterno è occhio che poco vede, egli è sempre — parmi — più cortese ed
amàbile, nello schiùdere la gallerìa delle fantasìe nostre, di non imitare que'
padroni di quadri che si ritìrano sultanescamente, abbandonando ai servi i
visitatori, bensì di accompagnar questi noi stessi, facendo loro da cicerone.
Ciò, non fosse altro, testìfica che io non sono poi quel trappista, quel
Simeone stilita, quell'antropòfago di sé medèsimo, quell'ùrsus spelaeus che
piaque a certuni, collo stòmaco grave di anguilla, sognarmi. Voi vi fate, o
crìtici, una sbagliatìssima idèa di quello che sia la società umana,
ritenèndola tutta compresa, insieme alla fama ed al resto, nei pochi metri
quadrati dei giornalìstici uffici che smèrciano i vostri veleni, sacri asili al
di fuori de' quali non sarebbe che «lido e solitùdine mera.» Ben altro vasta è
la umana società, i cui giorni si còntano a sècoli, i cui membri s'intìtolano
pòpoli, il cui chiacchieratojo è il mondo. Per conseguire, tra essa, notorietà,
lascio a voi di tentare i vostri «invescativi o coercitivi» come li dite,
impiegàndovi tutta quella provvisione di màntici e ruote, di olii e di unti, di
zùccheri e incensi, di cui disponete. Anch'io miro alla Fama ma a patto solo di
giùngerla all'aria aperta e colla trionfale quadriga de' cavalli bianchi, non
sul carretto dell'immondezza di Checco, non sul baroccio
giallo-nero ed infangato di Cèsare, non sulle penne rubate
e sempre vendìbili a chi più paga di Ruggero.
Per finirla, o mièi crìtici astiosi, io vorrèi lusingarmi che
niuno di voi, abbia letto questa Desinenza in A nel suo giusto momento. Non
succhia il midollo di un libro se non il lettore il quale si trovi in una
disposizione di nervi consìmile a quella in cui era, scrivendo, l'autore. Il
gran Mìlton è da lèggersi la domènica, quando si accùmula nell'atmosfera il
religioso uragano, fatto di nubi d'incenso, di cerei lampi, di armònico tuono
di òrgani; Leopardi in una giornata piovosa, colla disgrazia ai calcagni e la
dispepsia allo stòmaco; Cattaneo in un'àula parlamentare, assente lo sfibratore
Deprètis; Carducci sotto un arco romano non medicato dal dottore Baccelli;
Correnti fra le stoffe preziose e le rarità antiquarie; Hugo, al mare. Così, è
nell'època del malincònico e verginale erotismo dell'adolescenza che più si
comprende la Vita nuova del giovinetto Allighieri ed è nell'ora del disinganno
amoroso che il presente volume sembrerà fàcile e piano. Nè a quest'ùltima ora
rado pervèngono gli uòmini; anzi tutti vi tòrnano quante volte ha loro sorriso
da un fresco aspetto di donna l'inganno. Ma una illusione ancora maggiore è la
mia che crìtici mestieranti rilèggano un libro che han giudicato una volta e
indùcansi, per soprassello, a cambiar di parere. Quando uno tra essi lanciò la
sua sentenzietta spietata, ¡non c'è più cristi! la ripete stucchevolmente per
tutta quanta la vita del condannato e anche dopo. Imitazione quindi perfetta è,
la crìtica, della misericordia divina, privilegiata inventrice, a quanto
insègnano i preti, della pena che non ha fine.
Pienamente dunque d'accordo co' mièi avversari in ciò, che
niuno di noi restò persuaso dei ragionamenti dell'altro, non io de' loro, non
essi de' mièi; ritengo per sempre finita la nostra cartacea battaglia: sparsa è
l'arena di penne e di matite spuntate, sparsa è di pozze d'inchiostro, e La
desinenza in A entra, non troppo sconnessa, nelle sue seconde nozze col
pùbblico. ¿Ma che? ¿che è mai questo sciame di donne che m'assal da ogni lato?
Come i cimbri, sconfitti da Mario, che si traèvano seco il lor feminile
bagaglio, bèllica impedimenta, come i bracati persiani sull'usta dei quali si
affollava la bagascerìa di tutto l'impero, i mièi crìtici si rimorchiàrono
appresso un nùvolo di gonnelle — dalla seta alla cotonina — ballerine ed
avvocatesse (ambo oratrici coi piedi), trecche toscane e maestre di scuola
(ambo appendici de' clàssici), sorelle di carità, mogli a nolo ed altre parenti
posticce, sarte, balie, modelle, cantiniere, telegrafiste, filandiere... un
cibrèo insomma di fèmmina, che dopo di avere assistito ozioso alla pugna, cerca
ora di riappiccarla coi denti e colle unghie. Colùi che, cavalcando
soprapensieri nella romana campagna, capitò qualche volta in mezzo a un'orda di
porci e in quella grufolante e minacciosa marèa, stette minuti che gli pàrvero
ore, potrebbe ùnico penetrarsi di tutta la gravità del mio caso. ¿Come
salvarmi? ¿come superar tanta Eva? I lombi pure di Pròcolo e di Vittorio
impallidirèbbero.
E una matrona, un quintale di ciccia che porta gli occhiali
della filosofia e il busto della lògica e il guardinfante dell'oratoria,
m'investe di una mitraglia aforìstica, sbuffando: «Tutto quanto si guarda da
una sol parte si vede male. Chi ingiuria la donna, ingiuria pur l'uomo che ne è
il frutto peggiore. Chi non sà perdonare, è di perdono non meritèvole... ¿Se ti
credevi in piena ragione, perché tanta ira?» — aggiunge iratìssima.
«L'evo dell'assolutismo maschile non è più» — sentenzia una
bella sveltina in elegantìssima toeletta forense (comeché appena laureata dai
professori e dagli studenti dell'Università di...) cercando ingrossare la voce
con empirsi le profilate narici di tabacco rosa. — «Chiusa è l'età in cui
facevate a vostro profitto le leggi, divorziàndoci ignominiosamente (consulta
il Talmud) solo che avèssimo lasciato affreddare la zuppa ai cari sposini,
presumèndoci adùltere (vedi in Seldeno) sol che si fosse rimaste appartate con
uomo che non ci era marito, il tempo di cuòcere un ovo. Ma il nostro dito ha
già tôcco la vostra tarlata legislazione. Noi riusciremo a tutto. La
persuasiva, dea della Tribuna, è noi che l'abbiamo trovata. Tù lo puòi dire, tù
stesso, a cui favore la femminil parlantina seppe più volte rinspirar la
pazienza che il tuo laconismo avèa fatto smarrire a tuòi creditori e lettori...»
«¿E chi ti aperse i cieli d'amore?» domanda rimproverante una
èsile e pellùcida vèrgine con un sospiro che tèrmina in tosse «¿di quell'amore
che non muor mai, perché non si ciba di vivanda mortale? ¿Chi t'insegnò la
làgrima innamorata, seme di perla? ¿chi piovve sul tuo stèrile ingegno quella
luce lunare della mestizia che feconda i pensieri? ¿a chi devi i primi vagiti
poètici?...»
«¡Ingratissimo!» esclama con roca voce un composto di cipria,
cold-cream e pinguèdine floscia che ancor tenta di
spacciarsi per donna, «chi smorzò la tua smania amorosa? ¿chi saziò le tue
labbra affamate? ¿Non più dunque ricordi le cento volte che abbracciasti queste
mie giarettiere chiamàndomi Dea perché mi slacciassi alla svelta? ¿nè la foga
giojosa con cui pagavi il mio lusso? ¿nè l'intima soddisfazione che ti
procuravo, scarrozzando con mè per la città invidiante, tù bruttìssimo al
fianco di una bella mia pari? ¡Accidenti alla memoria tua!»
«¿E chi,» subentra, ironicamente soave, un pàllido volto tra
due càndide ali di tela, strizzàndomi maliziosamente l'occhio per poi tosto
velarlo di pudica palpebra, «vegliò lunghe notti al tuo letto e al tuo gèmito,
quando tornasti piagato dalla guerra d'amore e fasciò la tua doppia ferita e
ministrò sul tuo fronte gèlida aqua e baci scottanti?»
«¿E chi,» continua con uno strillo acutìssimo un'ombra
cenciosa, verso mè roteando il suo rosario di bosso, «ha pregato per tè che non
accendevi lumi a San Rocco... dopo di averti servito da fida...?»
«¿Mi riconosci tu?» interrompe una machinosa fantesca coi
riflessi dei fornelli nel viso, indicàndomi con una mèscola e urtando in terra
gli zòccoli. «¡Sù, padrone de' tuòi stivali, ridomàndami ancora, se hai faccia,
que' broducci ristretti da sei capponi e dòdici ova con cui ti guarivo dalle
medicine che t'ingozzàvano, ridomàndami que' pranzettini di molti volumi che ti
mantenèvano, come dicevi, l'ingegno tuo e la stima de' tuòi amici...!»
«¿E il piacere che ti suscitài per gli orecchi? ¿e il gusto
che ti diedi per gli occhi?» esclàmano insieme due bàmbole, giojellate e
piumate, la prima con un trillo armonioso e un contemporaneo abbajamento
cagnesco, l'altra con un ràpido lancio di gamba e uno strido di papagallo.
«¿E i bottoni che t'abbiamo cucito?» echeggia ochinescamente
un coro di cameriere, il petto pieno di poppe e di spilli, «¿e le camice che ti
stirammo? ¿e i caffè che ti abbiamo opportunamente recati sull'alba?»
«¿E i pedalini che t'ammagliammo?» ìtera un coro di vecchie
punzecchiàndomi cogli aghi di calza, «dove li lasci?»
¿Che rispòndere? Dall'alto del Pègaso mio, inutilmente
inquieto, cerco di pacificare la rumoreggiante folla, ma ottengo l'effetto
opposto. Senza prò, infatti, mi sbraccio a fare a tutte comprèndere che ogni
vita di artista è zeppa di contraddizioni tra lo scrittore e l'uomo e che però
io non sono (mi pròvino) quell'odiatore di donne che mi si rèputa; che, in ogni
modo, se nella Madonna a fresco del muro mio fu occasionalmente aperta una
fogna, m'impegno di tosto murarla e di ridipingèrvene due, beninteso Madonne:
invano prometto loro, purché non mi ammàzzino prima, di cantare con entusiasmo
le loro lodi,, ché se fu inneggiato alla peste,
al cancro, alla piva e a tutti quanti i malanni, si potrà bene, credo, bruciare
incenso rimato anche alla fèmmina, che non ne è poi il peggiore: invano tento
di sferrare alle nubi il mio alato destriero — ¡pòvero Pegasuccio! — non può
mòversi più, stretto dalla calca e spennato. E le iridiscenti sue penne già
battibàgliano ne' cappellini delle mie inimiche.
«¡Rèndici tutto quanto ci hai tolto... fiori… baci...
carezze!» è questo il grido ùnico, furibondo, che si eleva alle stelle.
Mi ergo in arcione. È un mare di teste in moto, di irati
ombrellini e conocchie, di tesi pugni. Anche la voce, quest'ùltima delle sei
ricchezze che le donne fanno pèrdere all'uomo (ingènium, mòres, pecunia, vis,
lùmina, vox) ho smarrita. E, sulla chioma mi passa la fredda ombra di Orfèo.
«¡Restituisci i tuòi furti!» urla quel tempestoso ocèano di
Mènadi, con un ondeggiamento in avanti.
Un'arma sola mi resta — càrica per fortuna. Con un sùbito
moto, la sfòdero.
¡Meraviglia! ¡incanto! Un bràmito di voluttuoso terrore, di
riverenza e di cupidigia, distèndesi di bocca in bocca. A mè, torreggiante
sulla sella pegasea, quelle innùmeri donne, come da un colpo di vento
abbattute, come Titania o la tèssala dama dinanzi al scespiriano Bòttom o al
lucianesco Lucio inasiniti, càdono a ginocchi. Alla minaccia è sottentrata la
sùpplica, e tutte tutte invòcano la mia benedizione.
Roma, 27 settembre 1883
carlo dossi
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