ATTO PRIMO
Era un giorno qualunque di un qualunque gennajo. Il palazzo
dei Garza si stava abbigliando pel ballo di gala che la contessa Tullia (c'è
anche un marito, ma conta per vetro rotto) usava di offrire ogni anno alle
stelle della città, nel cristianìssimo scopo di spègnerle tutte con il fulgore
delle sue gemme, l'inaspettato della toilette, la sua bellezza spavalda e il
nùmero dei sospiranti. Tapezzieri e pittori, lampadài e fioristi, avèvano
invaso il palazzo sloggiàndone quasi i padroni. D'ogni parte un traurtarsi, un
sorvegliare a chi sorvegliava, un comandare contro-comandi,
un affannarsi a conchiùdere nulla o peggio; là, il lamento di un mòbile grave
che non voleva mutar domicilio compromettendo la sua emèrita età, o lo squillo
di gràndine cristallina da un lampadario commosso; quà, gli accordi di un
pianoforte o la scordatura improvvisa di un servizio di Sèvres; in complesso,
nell'aria, tale un broncio, tale una luna da minacciare tutt'altro che un
divertimento.
¡E sì, che, almeno pei servitori, la festa è già nel suo
pieno! Sulle cantine, non più catenaccio; le pletòriche botti son salassate
senza pietà; nella cucina par convenuto il mercato; tanto è il cibo, da
spaventare la fame. Eppure, sarà una grazia, quest'oggi, se potranno i padroni
sedersi a tovaglia e alzàrsene non malcontenti. Poiché la pompa ha ucciso la
comodità. La sala da pranzo diventò un teatrino; la scala, una serra dal
vertiginoso profumo: quanto ai saloni, sèmplice spazio; pura mobiglia, le
càmere. Basti pensare, che il ballo s'è spinto fino allo studio dell'adiposo
padrone, obbligàndolo a evacuare d'òrdine della signora, che intende
sostituirvi un boudoir; sì che il pòvero conte Gonzalo, fàttosi usbergo di
scientìfica flemma, ha dovuto raccôrre le sue ittèriche carte e colla penna
all'orecchio, il calamajo in saccoccia e due messali sotto le ascelle (ché i
servitori non hanno più tempo, nemmen di servire) emigrare in uno stanzone
remoto, dove, vedèndosi il fiato e soffrendo di unghiella, lima ora una ottava
di quel suo immenso poema tra il didascàlico e il rompiscàtole, che tratta
«della domèstica pace.»
Diamo adesso un'occhiata alla guardaroba. ¡Vatti a nascònder,
Babele! Armadi e tiretti, scatoloni e ceste, tutto è aperto, scoperto; è un
guazzabuglio, una arlecchinerìa di fogge e colori, di sottanini e di gonne, di
sbuffi e volanti, di bindella e cervelli... dico cioè cappellini. Potrèi, fossi
maligno, osservare che la padrona, a pezzi e a pezzetti, c'è tutta. E sul
tavolone un monte di bava di bachi, spuma senza sostanza come la bonne société,
che basterebbe a parare otto donne, ma non a salvare il pudore a una sola, un
candidìssimo monte, che decresce man mano, passando tra le àgili dita di
quattro sartine, le quali, sedute nel vano di una finestra, ci danno lo strano
spettàcolo di affacendarsi a cucire — mentre bianchéggiano i tetti su di un
ciel grigio — una veste di estate. E quelle ragazze agùcchiano svelto, chîne le
fronti gentili, in silenzio, nè si soffèrmano che a provvedere l'ago di nuovo
filo, aguzzando, verso la cruna, occhi che non hanno dormito. Sopra la sponda della
finestra òziano intanto quattro grosse pagnotte e... un coltello. ¡O sojatora
cucina! ¡o carestiosa ubertà! Tuo malgrado, anzi, è per tè, se anche la gabbia
di Cicio, il pàssero solitario, pende muta in un canto. Èccoti lì, Cicio mio,
irrigidito sulla incommèstìbil sabbiuccia, vuoto l'abbeccatojo, scîutto
l'orciuolo, senza più cuore, senza lattuga, senza ancor làgrime, salvoché forse
da quel gattone soriano, che strofinàndoti-sotto le volte
più voluttuose, guarda in sù e sospira, per non potere pagarti l'ùltimo
ufficio.
Tanto, dico, la guardaroba era zeppa di nulla, che Isa, la
settenne bambina della contessa, avèa dovuto tirare i suòi due metri quadrati
d'immunità, il suo San Marinetto, il suo tappetino, sin contro uno sposareccio
cassone, di quelli che con le scolture e gli intarsii dissìmulano (come l'àbito
bello il cuor brutto) la biancherìa sùdicia. Era, quel tappetino, l'asilo di
tutti i colletti all'àmido renitenti, di tutti i nastri ribelli al cappio o
scartati dalla instàbile moda, in una parola, di tutti i banditi
dall'abbigliatojo materno; ed era l'assoluta provincia della bambina e della
sua amica di cartapesta, la graziosa Fanny, una fantoccia, che le assomigliava
come uovo a uovo e nell'oltremare della pupilla e nel vermiglio delle
guancette, tènere e tuffolotte, e nell'incipienza del naso e nel
biondo-ambra della capigliatura, avvantaggiando su lei in
ciò solo (d'assài rilievo però) — nel silenzio.
Ma siccome, quaggiù, cosa compensa cosa stando la perfezione
nel complesso di tutte, valeva il muscoletto linguale dell'Isa e per l'una e
per l'altra, anzi ne sovrabbondava.
«¡Pòvera la mia Fanny!» dicèa essa accoccolata sul tappetino
mentre aggiustava intorno alla bàmbola con la manina guantata una bianca sottana
di raso, «quella brutta Honorine non ti ha ancora portato l'abituccio di gala.
Hai, è vero il gros lilla, hai la faille rosa, hai la moire mauve, ma li hai
messi già tutti. ¡Fi! c'est indécent comparire due volte nello stesso salon con
la stessa toilette... ¿Che ne direbbe la baronessa Colorno, cette dégoutante?
¿che ne direbbe la Breda, cette parvenue?... Eppòi, tu devi ballare i lanciers
con Sua Altezza, e far ‹ghigna ghigna› a quella smorfiosa di una marchesazza
d'Alife. ¡Pòvera la mia Fanny! ¿È il nojoso pappà, vero? che non ti vuole dare
le sou? ¡Avaraccio!... Ha ben ragione don Peppo. ¡Auf! ¡ces maris! ¡che
caldo!... Ma non piàngere mica, Fanny. Noi lo diremo a don Peppo, e don Peppo
ti comprerà lui la vestina.»
Tra parèntesi; chi mai sia don Peppo e quale il suo ufficio in
casa del conte Gonzalo, non giurerèi: stanno due indizi però; l'uno che ogni
qualvolta è pronunciato tal nome, s'increspa maliziosamente il cantuccio dei
labbri di questa o di quella sartina; l'altro, che Isa, per ajutarsi la imaginazione,
ha investito della parte di lui uno zùfolo rosso da un soldo. E Isa, adducendo
il delicato strumento a Fanny, seguitava:
«¡O caro il nostro don Peppo! ¡que vous êtes ponctuel!...
Attacca pure, Francesco... Su, monti don Peppo,» (e la bambina accomodava lo
zufolotto a fianco della fantoccia, in una scàtola già di canditi) «la mi segga
quì presso, monsieur; tout près...¡ Vite! dal mercante... E
tip-top e tip-top e
tip-top...
«Bonjour, mercante» «¿In che posso servirla, signora
contessa?» (facèa da mercante un soffietto) «J'ai besoin di cinque e cinquanta
milioni di miglia di velluto d'oro e d'argento con la coda.» «Ecco, signora
contessa.» «¿Quanto costa, mercante?» «Nove franchi, signora contessa.» «Lei,
mercante, è un gran ladro.» «Non posso fare di meno, signora contessa.»
«Basteranno allora dix francs. M'impresti il suo
porte-monnaie, don Peppo.» «Oh non s'incòmodi, signora
contessa.» «Adieu, mercante.» «Servo suo, signora contessa...» E tip-top e
tip-top e tip-top...
«Eppòi, ¿sai? o Fanny, ti metteremo all'ingiro un collier di
brillanti, azzeruole e bottoni, con un bel dòndolo in mezzo, e dentro il
portrait di don Peppo.
«En attendant, siedi alla pettiniera. ¡Ici, Lulla e Amorina!»
(e Isa, da un mucchio di bambolucce, elèssene due e poi altre) «Allumez les
bougies... Tu, Tesoretta, và a pigliare il peignoir. Tu, Carmelita, inclina la
glace e dammi un miroir. Monsieur Violet, la mi faccia una coiffure à la
chienne-adorable con su una bella corona di marrons glacés
e di carta di dolci e una piumona di pollo del Paradiso... ¡Du koheuil et un
bâtonnet, Tesoretta! ¡de la veloutine, Carmelita! ¡une houppe, Lulla!...
¡Bestia di un'Amorina! ¿non senti che mi tiri i capelli?
«Ah! c'est fini. ¡Les gants! Mes gants a sei bottoni. Inclina
un po' ancora la glace, Carmelita. ¡Que je suis bien! que je suis
ravissante!... Tu, stài distante, pappà; toujours si malpropre, toi.»
Ma riecco don Peppo (e la bambina riprendeva lo zùfolo) «Come
mi trova, don Peppo?» «Un bombonino, contessa.» «Mi dia il braccio, don Peppo.»
«A' suòi comandi, contessa.» «¡Allons donc, de la musique!...» «¿ Voulez-vous
danser une valse avec moi, comtesse? » «Très-volentiers,
chevalier.» (e lì Isa accoppiava lo zufolotto a Fanny).
«¿Aimez-vous la valse, comtesse?» «À la folie, chevalier;
¿et vous?» «Oh, j'aime les perdrix aux truffes, comtesse.» «¡Les perdrix à don
Peppo! ¡vite! ¡le champagne et le pâté à don Peppo!» «¡Que vous êtes
spirituelle, comtesse!» «¡Que vous êtes bien frisê, chevalier!»
Ma, a questo punto, si udì lo sbadiglio di un uscio, e apparve
un metro di donna, vestita di nero, dal naso che respirava sussiego, cioè
apparve la signora Modesta, la guardarobiera, una di quelle donnette
dall'affacendatìssimo ozio, indispensàbili a che una casa cammini come Dio
vuole. E la signora Modesta, annunziava: «Donna Isa, la maestra ti aspetta.»
«Io no...» fe' la bimba.
«¿Hai capito?»
«Io no...» ripetè Isa con sgarbo.
«¡Guarda che vado a chiamare pappà!»
«Vai pure. È festa. Pappà non permette che si studii alla
festa.»
«Oggi, non è festa punto, donna Papagallina,» esclamò stizzita
la guardarobiera «¡Badi che la contessa!...»
Isa sospirò con dispetto. «Vengo,» disse «Ma lasciami prima
coucher la Fanny. Maman vuole l'òrdine.»
E lentamente si diede a raccògliere e a mèttere in pila le sue
proprietà.
Quand'ecco, si riapre la porta a una rotonda e sgualdrina
figura di bambinaja, che dice: «Contessina, la sarta.»
Isa, in un balzo, fu in piedi. Attaccossi alla gonna di
Lauretta, e via ambedùe. Il balocco di carne correva alla sua majùscola bimba.
Rimase con quelli di stoppa la signora Modesta, che, crollando
la cuffia in aria di commiserazione, si sbassava a riunirli, ne faceva un
fagotto; poi, alzato il coperchio-sedile della cassa
istoriata, vi seppelliva entro ogni cosa. La qual cassapanca (anacronismo
antiquario a tutto vantaggio della filosòfica lògica) rappresentava, nel
secentista dossale, uno sculto pavone spiegante la pompa delle occhiute sue
penne; nel telajo di sotto, l'intarsio maggiolinesco di una gran casa in
rovina.
|