¿Dal sopra in giù, a cinquanta metri di lontananza, quale più
grato spettàcolo di un collegio di ragazze e di bimbe, in ora di ricreazione?
¡Quanto bello vedere quelli amorosi intrecci di forme verginalmente sobrie, che
non attèndono migliorìe da Parigi o da Vienna, e quell'incompro ondeggiar di
capelli e que' colori freschìssimi, cui fu pittrice la sola natura! E, oh
quanto mai commovente, pensare che in corpi sì vaghi polsèggiano ànime gaje
come i lor visi, buone spontaneamente, perché spensierate che di là di quel
muro, fine al soddisfatto lor sguardo, s'àgita, bolle una melma di birberìe,
dove il fratello s'adopra di affogare il fratello e il meno ribaldo soccombe; e
pensarle con un solo desìo e una sola paura, gli esami, con un solo rimorso, il
premio fallito; accendenti ancora il lumino alla purità della Mamma di Dio, nè
ancor distinguenti, tra due chiavi diverse, la maschia e la fèmmina… Oh, a tale
veduta, a tali pensieri, fin il vecchio deluso, cui delle gioje del mondo non
sono rimasti che i dèbiti e le cicatrici, si leva intenerito gli occhiali, per
asciugarne gli annuvolati cristalli.
Tuttavìa, mi si susurra all'orecchio, che, da vicino, un
collegio interessa ben più.
¿Vorreste farne sperienza? Per quel privilegio, che gli
scrittori hanno comune coi doganieri, di frugar dapertutto, noi scenderemo
nell'istituto della signora Isidora Cornalba, un istituto messo sù alla
tedesca, nel quale s'impara quel tanto che basti per rimanere ignorante e si
mangia quel poco che giovi a conservar l'appetito. Fatto stà, che frutti
migliori non si saprèbbero dare. Tante le ivi educate, quante le ben maritate.
E noi, sull'ali della bugìa, c'introdurremo in questo egregio istituto, dove ci
ha divanzati il sole più allegro che mai illuminasse una domenica di primavera.
A nembi cinguèttan glì uccelli sul fico del
cortile-a-giardino, a nembi le ragazzine nel mezzo dei
fiori. Ragazze, fiori ed uccelli, trè cose, l'una creata per l'altra.
Ecco, anzitutto, in un canto, due bambolotte di nove in dieci
anni, abbigliate e velate di bianco, con le manine a mezza orazione, e tra le
manine, un rosso libro di messa. Stan savie savie, lo sguardo raccolto,
indifferenti agli inviti di quella frugaglia ancor senza mammelle, vera semenza
di rose, che gioca chiassosamente sù e giù nel cortile, quà a mosca cieca o
agli sposi (cioè, cantando, partita in due schiere, il «voglio una figlia» con
la controdimanda del «¿che dote mi date?») là a predelline o a bìndolo, o, più
quietamente, a dar ciascuna da bere, per ora, al suo vaso di parco. Le due
bambolotte han fatto appena bucato; la loro interna casetta, pulita di tutti
que' peccatoni imparati a memoria, càndida come le loro vestine, è in attesa
del primo e pròssimo arrivo di bimbo-Gesù in commestìbile
forma, e ne pregusta il sapore — un sapore assài somigliante al pane di Spagna
e ai mostaccini che madama Cornalba serba e promette per tali solennità. Oh
poverine! rapite in una gastro-ascètica èstasi non le si
accòrgono intanto di quelle tre monellucce loro coetanee, le quali, dietro
l'uscio del luogo per cui progredìscon le scienze, stan dividendo un
cartoccione di roba, e rìdono, verso le due, con un visino più moscadello del
sòlito.
Ma, mentre le nostre angiolette mèditano col palato il terzo
dei sacramenti, ci ha altre che si prepàrano al sèttimo. Sono ragazze in sugli
ùndici, che si dìsputano a gara il Millo del portinajo, un gognolino di un
anno, e se lo sèrrano al seno, e gli fanno il linguino e il pizzicorino e lo
mangiùcchian di baci e carezze, — baci che han denti, carezze che hanno unghie
— palleggiàndolo, soppesàndolo, miràndolo e di sopra e di sotto e all'indrizzo
e al rovescio, per imparare, forse, come i bimbi si fanno. Oh simpatìe provvidenziali!
oh innata maternità! Ma di tanto entusiasmo il neonato non sà, pel momento, che
fare, e dà in làgrime e strilli. Amore è dolore. Millo comincia ben presto a
sentire che male sia mai il bene delle ragazze.
Altre, invece, non riàndano mica zoologìa; sibbene geografìa.
Vèdile, le quattro studiose, sotto quel pèrgolo ingraticciato, che attende la
appena-seminàtavi ombra; vèdile, fuse in un ùnico amplesso,
vôlti gli sguardi a un atlante, che una di loro, gentil morettina di trèdici
anni, si tien spalancato in grembo. La giovinetta poggia il flessìbile mìgnolo
sul vecchio dei due emisferi, forse accennando le analogìe tra i promontori ed
i golfi; nè pare si avvegga della bianca cuffiazza a bindelloni
color-patriarca della signora Isidora, che sosta a
osservarle con un bocchino di compiacenza a traverso la grata. Ma una gobbetta
tira l'amoerre della rettrice e le spìa alcunché: tosto scompare il sorriso
della rettrice, tosto scompare lei stessa. Ecco riguizza sull'ampio aperto
volume un libricciuolo slegato, zêppo d'orecchie, e quattro sguardi vi si
fìsano sù, con l'appetito con cui mamma Eva adocchiava quel frutto, che, voi
donne, sapete.
S'udiva in questa, da una finestra a terreno, il suono di un
pianoforte. Era un tremoleggiato «notturno», un frèmito verginale, che si
elevava quasi a implorare pietà, e toccava all'accento più gemebondo, poi,
soprafatto dal duolo, ricadeva a morire sconsolatamente. E a quell'agonìa in
minore, trè quindicenni, cui le corte gonnelle volèvano ancora bambine a
dispetto degli occhi, e passeggiàvano sobbracciate lungo il cortile, si
soffermàrono, scambiàndosi un risolino. Delle quali, una, cioè Elda Batori,
alta e superba figura, dalla nerìssima chioma che all'opaco pallore, qual di magnolia,
del suo dòrico viso, aggiungeva altro pallore, e dall'occhio ùmido e grigio e
dalla voce che agiva voluttuosamente sul tatto, fe' sogghignando:
«Ci siamo.»
A tali parole, gli sguardi delle trè belle educande si vòlsero
al secondo piano di una casa, che si innalzava di là della via, nascosta nella
parte inferiore dal muraglione della corte-giardino. Ecco,
difatti, il pettegolìo di un oboè piagnucolare il motivo del clavicèmbalo; e
allora il motivo, che impallidiva vieppiù, riaversi, e da un tempo di chiesa,
grave come un canònico, entrato ben presto nel gajo trottino di una ballata,
passare — sempre seguito dal zoppicante oboè — in un galoppato 3 e 4, finché,
vievìa, guadagnando la mano, i tasti alle dita e al ritmo le note, tutto non fu
che un imperversar burrascoso, un turbinìo, un càos di suoni, quale un
accordatore non avrebbe saputo desiderare migliore.
«¡Pòvero piano!» sospirò la seconda delle trè collegiali, la
biondìssima Isa di Garza, dalla pupilla cerulea. E s'era fatta, Isa, una smilza
fanciulla, flessuosa come una spiga, di elegantìssime forme, quelle forme nate
a dar voga a una foggia e nome a una sarta, meglio assài delle belle, per le
quali, anzi, la veste è il màssimo danno. Nè la fanciulla minacciava alla Moda
una inimica. Ben si vedèa, dal pretenzioso suo disabbiglio, dalla studiata
spettinatura, dai guanti eterni, che Isa, quand'anche non figlia del conte
Gonzalo, di donna Tullia era certo.
«Miss Clelia è proprio in guazzetto col barbigino,» disse
allora la terza, il cui nome di Eugenia Ottonieri accompagnava la ciccia di una
ragazza barocca, biancorossa e freschìssima, «come pomi a odorar, soave e
buona» nello stile di quella, che, se credete alla Bibbia, tenèa lontana la
muffa dalla saggezza del vecchio rè Dàvide «¡non si scherza, ve'! Io, che sò il
linguaggio dei fiori, non passa dì che non legga qualche dichiarazione d'amore
sulla finestra o di lei o di lui. Ieri l'altro, ad esempio, il barbigino ci
avèa esposto un tulipano, che signìfica ‹ti amo› e sùbito la maestrina ha messo
fuori, a rincontro, un cespo di erbasavia che vuole dire ‹sei freddo.› Ma il
giorno dopo, al posto del tulipano, stava già un peperone, che se potesse
parlare, direbbe ‹ardo›, cui miss Clelia rispose con un baràttolo di
sanguisughe, che, come si sà, equivale a un ‹tua per sempre›. E davvero, gli è
un bel pasticetto colùi,» aggiunse vogliosamente. «¡Ci si può star senza
smorfie!»
«Stài puve,» fe' Isa, con un frèmere lieve di nari, e aristocraticamente
fraudando il suo alfabeto dell'erre, nel che però si capiva, come ancora
penasse a parlare men bene di quanto poteva. «Stài puve... con i tuòi apprentis
commercianti. Avrài i vestiti au prix de fabrique. Da parte mia, non ti farò
concorrenza. J'avoue di non èssere nata col tic degli amori all'ombra di una
ditta e di un banco, tra le ciòtole e i mastri, e con le stoffe che mi
contèmplan dall'alto dei loro scaffali. Je suis née poétique, moi. Io non
comprendo che un amore alla Otello, salvo il colore. Io vorrèi, per lo meno, un
pirata, nervosamente magro come un lione non del Musèo, souple come un
fioretto, con due nerìssimi occhi, lùcidi, aguzzi come i pugnali che gli
pèndono intorno, con i capelli, pur neri, bouclès, con due lunghi mostacchi che
gli piòvono in bocca. Io vorrèi vedermi con lui sulla tolda di un brick, pas
marchand, fra il tuonar degli schioppi e lo scoppiare del tuono» (e Isa, quì si
allacciava un de' quattro bottoni del suo guanto sinistro) «fra monti di preda
e fiumi di sangue, gettàndomi, il mio pirata, ai piedi, le teste de' suòi
rivali, e gettando sé stèsso, e tremando, ¡egli! dinanzi cui trèmano tutti. ¡E
poi gli arrembaggi, e le galoppades a traverso le lande s'uno stesso corsiero!
e la prigione colle catene e la luna, e lo scivolare, fuggendo, dalle corde di
seta...
«Di' piuttosto il salirvi,» esclamò la tomboloccia Ottonieri
con un sorriso senza risparmio, che, alleàndosi allo splendore dei denti suòi e
lampeggiando nelle pozzette delle sodìssime guance e nel castagnino degli
occhi, parve la circondasse di una giojosa aurèola. «¡Bella vita, Isa mia, con
la Questura dietro e dinanzi la Fame! ¡vita da pèrdere i tacchi e l'onore! O
tièntela, sai, la tua pidocchiosa poesìa, i tuòi rompicolli, il tuo puzzo di
pescherìa e di pece, e i batticuori e la perpetua infreddatura. Io scelgo,
invece, un amore con tutti i suòi còmodi, con lo sgabellino sotto, e sotto la
stufa russa, coi quattro piatti ed il dolce, la carrozza e il teatro, e la sua
villa sul lago, oltre una lunga convalescenza, ogni anno, a Nizza o a Vichy per
le malattìe avvenire. S'intende poi, col suo bravo marito, anche molto mercante
purché non troppo al minuto, anche un po' panciutello, purché, stando in piedi,
si possa vedere, dei piedi, almeno la punta; marito che mangia e lascia
mangiare, che dorme e lascia dormire...»
«Questo poi no, lasagnona,» saltò su a dir la Batori, dandole
un pizzicotto, «una fanciulla che si rispetta dee volere un marito...»
Senonché, avvertita dal gòmito di Isa, interrùppesi Elda, e scorta la
direttrice, che a loro veniva come cercando di spigolare qualche parola della
conversazione, con un sùbito vezzo di bambinesca ingenuità: «¿Non è vero,»
chiese «signora Isidora, che il giglio simboleggia il candore?» Chiese, e la
mano di lei si drizzava ad una biancheggiante ajuola, nel mezzo di cui, sorgèa
altìssimo e pungiglioso un càctus, sìmile al Dio di Làmpsaco allorché sparge
negli orti grottesco terrore.
Ma intanto, ad una delle finestre del dormitorio, le quali
asolàvano, spalancate, le lesbie accensioni e le notturne oppressure, appariva
l'èsile forma di una fanciulla, che si appoggiava languidamente al davanzale.
Il viso di lei sofferente, peggio che pàllido, giallo, mostrava una trasparenza
di opalo, o piuttosto quella pellùcida tinta del baco, quando, ricco di seta,
stà per ascèndere ai cùlmini della trasfigurazione; gli occhi, due pozze di
duolo, serbàvano quelle tracce che gli insoddisfatti desìi làsciano quanto le
nauseate soddisfazioni, e gli occhi la giovinetta avèa vôlti, fisi estaticamente
a sòffici anella di nùvole imaginose.
«Oh alfine! ecco l'azzùrro,» fà quì una voce in falsetto.
«Ecco l'amore ideale, l'insofferente di corpo, il primìssimo amore. Sii ben
venuta, nota soave di poesìa fra cotanta prosaccia. Quella celeste...»
¡Piano, ginnasialino! Raccomanda il dottore di non lasciarla
mai sola.
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