¡Morto! ¡di quali idee, di quài sentimenti (sottintesi
pensieri) è mai grave questo sèmplice annunzio, sì antico e pur sempre sì
nuovo, di una coscienza che si smoccolò, di un io passato alla terza persona!
Per quanto provvisti di filosòfiche sottigliezze — diciamo meglio, astuzie —
per quanto persuasi della «circolazione eterna della materia», e della
«immutabilità universa» e papagallanti, che «nulla saprebbe morire» e per
converso, che «tutto è una morte» con l'assài zoppa consolazione, che «se tanto
più l'uomo è felice quanto men pensa, felicìssimo sarà nel sepolcro», basta il
toccheggio di una ignota agonìa che scenda la cappa del nostro vampeggiante
camino, in quell'ora del dopopranzo in cui il digestivo calore èvoca
l'umanitario, a inondarci di malinconìa mentre la vista di un funereo convoglio
che lungo-nereggi per le vie lasciando dietro di sé una tal
quale solennità, ci rallenta l'allegra andatura e ci attira la mano al
cappello, inconsapèvole omaggio a quella comun parentela, troppo fra i vivi
obliata.
E, tuttavia, non conosce la morte chi non la scorse in una
faccia adorata. ¡O Amelia! ¡mia Amelia! èccoti là su quel letto che ti doveva
èssere vita, indifferente in mezzo a un nembo di fiori, fiori che a uno a uno
ti avrèbber destato altrettanti sorrisi; là, in quella bianchìssima veste,
cucita per le tue nozze, ma tu più bianca di lei, i grandi occhi dischiusi, e
pur non scorgenti l'amato, semiaperte le labbra, e pur non chiedenti altre
labbra, le mani inerti, gelate agli scottanti mièi baci. Benché presentita da
una diuturna attesa, benché la morte di un amatìssimo nostro sia perfino
desiderata, per tôrre lui al dolore e abbandonàrvici noi, ella sempre ne è
fùlmine. Finché la paurosa parola cova in pensiero, inturgidìscono tacitamente
nelle glàndule loro le làgrime, sol rattenute da una agugliata di speme. Ma la
parola scoccò; rotto è il punto, e lo scoppiar delle làgrime ci confonde la
vista. Dell'estinto par che ogni vizio si abbùi; non splèndono che le virtù. È
allora, che gli insensìbili oggetti fra i quali ei viveva aquìstano una vita
fittizia, quasiché parte di lui fosse tra loro indugiata, e presentàndoci in
mille maniere quella medèsima idèa, e sì tenendo discosta la smussatrice
abitùdine, protràggonci, ìrritano, ci rinnòvan la piaga. Ed ecco insieme
iniziarsi un processo contro di noi, giùdici noi. ¿Come operammo con lui che
cessò? Al rimorso che accusa, ogni spillo è pugnale, ogni errore colpa. ¡O tu,
che fai piànger chi ti ama, oh rammenta che lo potresti poi piàngere!
¡Morto!... — tale l'annuncio, quel dì, a chi entrava in casa
Giojelli. Del conto del generale l'ùltima somma era fatta; ed or si poteva, ora
solo, giudicar della cifra. Ma la bontà stessa del risultato non ad altro
serviva che a rènder più cupo il lutto alla derelitta figliuola. ¡Eccellente
creatura! l'avèan dovuta a forza staccare dal babbo, cui ella, singultando,
gridava di voler seppellire il suo duolo nella tomba di lui. E inutilmente la
cameriera, asciugàndosi dalle ciglia, con un cantuccio del fazzoletto, la
pòlvere, cercava incuorarla, dicendo, che «tanto tanto la malattìa del pòvero
signor padrone era inguarìbile» mentre il cuoco, passàndosi un dito, anche lui,
in sugli occhi lacrimosi pel vino, osservava, che «già troppe volte il signor
generale era andato a cercare la Vecchia, senza trovarla mai in casa, perché
non avesse costèi a restituirgli la vìsita,» e inutilmente il mèdico e il
prete, que' due lugubri figuri, che, vivendo di morte, han di cordoglio il solo
vestito, avèvano messo fuori la lor più riposta mercanzietta confortatoria, la
loro «in reverendi panni stultizia», e l'uno, il turba coscienze (fiutando un
dolore di prima classe) parlava con fegatoso sembiante della celeste felicità,
e l'altro il guasta-corpi (che già computava nel cento
anche la consolazione) svaligiava, a prò dell'erede, il sòlito Sèneca di tutti
quelli ingegnosi bisticci che si gùstano tanto, quando non se ne ha di
bisogno... Ahimè! pei conforti, la terra è troppo vicina e troppo lontano il
cielo. Il Molto Reverendo e il Magnìfico avrèbbero meglio esitato le lor
mufferìe sulla càttedra e il pùlpito. In siffatti dolori non c'è che un
sollievo, il dolore. Ad ogni frasuccia elegante rispondeva uno strillo, ad ogni
religiosa promessa uno scoppio di pianto, finché la fanciulla — dallo spàsimo
vinta — svenne, cadendo in una bene imbottita poltrona.
¡Oh quanto allora mai bella in quell'abbandono, che il caso
faceva sì artìstico, sparse le nerìssime chiome, ceree le guance, le palpebre
velate, ammaccate dalle lunghe vigilie! Della bellezza è come della virtù;
nella fortuna, piace; nella sventura, innamora.
Ma, infine, mercè i sali del mèdico, e le palmatine (carità
pelosetta) del prete, o piuttosto, essendo trascorso il tempo indicato a un
deliquio, la fanciulla ritorna in sé stessa. Tòrnano insieme le addolorate
pezzuole agli occhi dei servi; tòrnano e mèdico e prete a ravviare i loro
consolatori motivi, fra cui la cameriera insinua il suo proprio, consigliando
la padroncina a succiarsi una coscia di pollo e a bere un dito di vino; dalle
dalle, tutti, ad una, ne dìcono tante che la fanciulla si persuade ad alzarsi e
a ritirarsi nella sua càmera. Il che ella fà, sostando a ogni passo, sospirando
sospiri che parèan vedersi, ponendo infine la mano sulla spagnoletta
dell'uscio, tragicamente.
Ed ecco la nostra Colomba, nella càmera sua — sola. Ella
stessa, incontrando lo specchio, dovette stupire all'affanno che trasparìvale
in viso. Ma or puòi sfogarlo senza ritegno, o Colomba, senza incòmodi
testimoni, che ad occhi asciutti ti misùrin le làgrime. Ella siede a scrittojo,
elegge un fogliuzzo dalla nera orlatura, intinge nel calamajo la penna; quindi,
in un bel caràttere inglese:
«Mio diletto biondone;
auf! finalmente...»
Trema la mano di lei — per la gioja.
Febo intanto, il bracco del generale, stava accucciato alla
soglia dell'estinto padrone, molli le orecchie, melancònico il muso tra le
zampacce. E, presso il muso, una scodella di zuppa, intatta.
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