¡Mortaretti, sparate! ¡dindonate, campane! ¡sù, in coro, oche,
merli, gabbiani, inneggiate! Il barone Caprara, nella acerba età di sessanta, è
babbo, il che talora succede, ma e' se ne tiene, il che non succede sì spesso.
È babbo di una bamberòttola, rossa come uno scojàttolo, sana come un acciarino
bresciano, che è settimestre eppur si direbbe di dieci, e a lui s'assomiglia
come un còlibri a un rospo, quantunque i servi e gli amici, facendo ressa al
neonato, o piuttosto alla balia, tròvingli tutti gli stessi occhi del putativo,
il medèsimo naso, la eguale espressione (oh! questo sì, ché l'espressione era
zero) e soggiunge un maligno — perché pelati ambidùe — «la idèntica
capigliatura.» Sul che il barone, estasiato, un po' mira la bimba, un po' sé
nello specchio, ed a ciascun complimento, quasiché gli toccasse, s'inchina tra
il riconoscente e il borioso. L'idèa di aversi aquistato un erede, cioè un
èssere che possa alternarsi a sua moglie nelle funzioni di quotidiano bojetto e
gli debba augurare tègoli in capo a ogni passo, gli fà sembrar tanta piuma ogni
passata durezza e gli fà insieme squadrare il futuro con sembiante di sfida.
«Venite pure, aquazzoni,» par dica, «ho l'ombrella.»
Non và taciuto peraltro, che Eugenia non è più quella di
prima, o almeno sembra, con lui. Gli strapazzi iniquamente cercati durante la
gravidanza, e da essi il laboriosìssimo parto, sono pagati, soldi e denari, con
una di quelle malattìe violente, che dìconsi di caràttere. Prostrata dal male,
la baronessa diventa zùcchero e miele. S'accòrgono allora gli amici nuovi che
il vento s'è vôlto, e sfùmano bellamente innanzi agli antichi, che ricàcciano
in fuori i cornetti. Eugenia non soffre al suo letto se non il marito,, anche un marito, tra i purganti e i clisteri, lo si può
sopportare; essa non vuole che lui a rispianarle i lenzuoli, a ministrarle le
medicine, ad appressarle e la coppa da bere e quella che beve. Ed egli, il buon
uomo, che non osa staccarsi da lei, se non per sguardare alla succhiante
puttina, veglia dì e notte al suo fianco e si sente inumidire le ciglia ad ogni
mìnima frase d'Eugenia che arieggi la tenerezza.
«¡Vedi!» gli fanno gli amici in trionfo «¿vedi se non avevamo
ragione? La pecorella è tornata...» «Tornata sì... per morire,» singhiozza il
barone, e lì sommove tutta la mèdica Facoltà, incomodando la Scienza fin da
Parigi e da Londra, poi, quando scorge la Scienza, nell'intascarsi que'
rotoletti che non pèsano mai abbastanza, scuòtere il capo, mette il sequestro
su tutte le preci della città, solleticando, con àurei cuori e gemmati diademi,
la femminile ambizione d'ogni più miracolosa Madonna, e adulando, a furia di
tabacco celeste, ogni canonizzato naso.
Ma, per disgrazia, Dio gli fà la grazia. Un giorno, dalle
pàllide labbra d'Eugenia, scoppia all'indirizzo di lui una ingiuria. Fu il
primo sìntomo della di lei guarigione. Quel dì, Eugenia mangiò d'appetito una
quaglia.
E quì le ricette cedendo ai ménus, con il fastidio pei fàrmachi
Eugenia risente anche quello per il marito. Ella vuol già le sue facce. E già,
sotto il fiuto dell'infermiere barone, pàssano i sòliti vigliettini, troppo
fragranti per sapergli di buono e ricomìnciano le adùltere sciàbole ad
ammaccargli gli intavolati. Ecco la Moda fà il suo trionfale reingresso sulla
rivinta Natura. Più il male si và allontanando, e più riavvicìnansi i ticchi, i
capricci, le stramberìe, finché Eugenia si trova perfettamente restituita nella
salute e nella condotta di prima.
Senonché, stavolta, il barone vede i propri malanni col
cannocchiale invertito, ché, a temperargli il dolore, è lì il frutto dell'amor
della moglie. Oh minuti di ore, trascorsi a pavoneggiarsi nella sua bimba
appiccicata alle gonfie saldìssime poppe della nutrice che le prèmono in sù il
nasettino o a dondolarla nella sèrica culla, canterellando in una voce stonata
la ninna-nanna! oh strilli sì soavemente sgarbati! oh
paradisìaci effluvi! oh insudiciatine gentili, tutta roba d'àngiolo!
E la bambina cresce prosperosìssima, come ogni cosa che
provien dal peccato, dando di sé le più liete promesse, nella smania, ad
esempio, di mostrar le gambucce, mentre il barone ha l'ineffàbile gioja di
udire da quèi labbruzzi, sui quali un bacio ancor pena a star tutto, la loro
prima bugìa: pappà. Anche la baronessa sembra volerle un ben matto. È la
piccina un pretesto per mèttere in luce la grande; è il piattello, dirèi, che
domanda e raccoglie l'elogio per la mammina. Lola è disputata fra i due
innamorati parenti, i quali, come se i vizi che Dio le prodigò, non fòsser
bastanti ad infiorarle la vita, spineggiàndola altrùi, garèggiano
nell'assuefàrgliene nuovi. Nè la rossigna par di capocchio intelletto: ella ha
ben presto intuito il valore e l'impiego delle sue gattesche strofinatine,
delle sue smorfie e stizzucce, de' suòi piantuccetti; poi, diventata la
confidente del borbottare paterno in odio di donna Eugenia, e della pasquinesca
imaginazione di mamma a spese di don Ferdinando, si fà, tra l'uno e l'altra, la
spia delle continue vicendèvoli offese (aggiunti, si intende, i propri
interessi in calunnia) e lucra sul dùplice tradimento una doppia mercede.
Ma, a un tratto, altra scena. Alle espansioni d'amore, agli
entusiasmi materni, subèntrano iròniche sostenutezze, mute disapprovazioni,
pèrdi sottintesi. ¿Che è ciò? È che dov'era una bimba stà una fanciulla, è che
donna Eugenia non può vedere più in lei una popa da vestire e svestire (ché,
quanto a figlia, non ne avèa mai visto) sibbene una donna, e quel ch'è più, una
donna rivale. Infatti, gli smaliziati occhi di Lola càcciano già nel suo parco.
Lola è stanca di lègger l'amore, e di sentimento ne ha appreso a memoria
abbastanza; è stanca di aspettar l'amoroso dal buco della serratura o dalla
cappa del caminetto; tanto più che s'è accorta, come i canarini di mamma,
ragliando, guàrdino meno a occidente che non ad oriente. E invano, la baronessa
si tien dalla sua, privilegiata alleanza, quell'arte che rende stàbile il
desiderio con il continuo variar d'apparenza all'oggetto desiderando, la Moda.
Con gioventù, la toeletta migliore è freschezza; solo ornamento, il nessuno.
¿Or voi credereste, voi sùdici colori, messi insieme in bottega, di vìncere
quelli che improvvisa Natura? ¿or voi osereste, voi cristallini cocciuzzi dall'imprestato
fulgore, compèter con gemme la cui luce è sguardo? E allora, la baronessa,
impotente a superar la rivale, cerca di allontanàrsela, e come le sfugge di
maritarla alla podagra di un vecchio, ché il terror del chirurgo ne azzitta
nella fanciulla per qualche minuto il bisogno, colta da sùbiti scrùpoli, le
riaccorcia le gonne (illudèndosi quasi di accorciarle anche gli anni) e le nega
i teatri e le nega i passeggi, arrivando perfino a mutarle il chiassoso
appartamentino dai petulanti balconi, più che casa strada, in una tàcita fila
di stanze verso un cortile dalla inviolàbil gramigna. ¡Ma e sì! le manette non
fanno che rattizzare la smania per la libertà. Nè Lola è di quelle aquose
ragazze, nate al martirio, che si consùman tacendo e sèggono in questa vita,
secondo il divino inglese,
«come Pazienza sopra un
monumento
sorridendo al Dolor...»
Lola non è rossa per nulla. Dunque, liti su liti tra le due
donne da svergognare la più smarronata treccaja; dunque, tempeste, che vanno
poi sempre a sfogarsi, annodate, sull'ùnico capo di don Ferdinando, tanto di
fìsica ignaro da sostenerci le parti del parafùlmine. E i dispetti chiàman le
offese, le offese le rappresaglie; vievìa, il diàpason dell'odio si eleva nella
proporzione del cubo, finché, un dì, la mammina, in un ìmpeto di gelosìa,
appoggia una solenne guanciata alla figlia, e la figlia, con meditata vendetta,
ruba, fuggendo, il viceconsorte alla madre.
Così è, amici. E giacché la fanciulla ha ora pigliato sì bene
la sdrucciolina, non sciuperemo, a seguirla, altro inchiostro. Ben s'indovina,
senza troppa magìa, in su qual libro anderà Lola a finire.
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