INTERMEZZO PRIMO
Orchestrina, a noi. È ora di riattaccare. La leggera emozione
par data giù. S'intende, che non parliamo dei palchi — quell'Olimpo a mezz'aria
in cui la urbanità sostituisce la cordialità, abitato da èsseri, i quali vanno
a teatro per fare non da spettante ma da spettàcolo, nè si sènton commossi che
quando la privilegiata lor crìtica dice loro che sono — parliamo della borghese
platèa e del plebèo loggione, giudizioso complesso di scriteriate individualità
— donde il fischio e l'applàuso — che fanno, e nel mondo di carne e nel mondo
di cartapesta, il solo Pùbblico vero. La emozione pare dunque ceduta, e con
essa, ogni ombra d'insegnamento. I femminili tomài comìnciano a ritentare le
maschili suole, i cannocchiali son ritornati ai loro eròtici furti. E già le gobbette
scòprono dapertutto nuove storture, le sciamannate, in ogni dove, delitti di
lesa-toilette. E quì una moglie, dando del gòmito in un
vicin suo assài brutto (è il suo bello) gli mostra con un ghignuzzo il marito,
un fior di uomo, il quale, fiduciosamente, pesa i pomi del sonno sull'altra
spalla di lei, lì un giovinotto in prima erba bisbiglia grate insolenze ad una
donna già in fieno, che arrossa, non di pudore; mentre, più in là, due altre
sorelle in Gesù, due ìntime amiche s'incènsano vicendevolmente, a turìbolo
pieno, con il fumo di penne. Di occhi rossi, non se ne trova che quattro... ¡O
ragazzone, che avete voluto contare i becchi del lampadario! E se bianchéggian
pezzuole, non una oltrepassa il naso; e se una grave matrona si asciuga col
mìgnolo un lagrimino, è ciò piuttosto l'effetto di quella verdìssima limonèa da
lei posata, a metà, sul vassojo del caffettiere. Perché, veramente, il teatro è
uno specchio in cui ciascuno non scorge che il volto altrùi.
Ma, adesso, che si dovrebbe avere veduto come vìvesi in casa,
¿dite, non c'è da scusare chi ne stà affatto alla larga o ne esce il più
possìbile spesso?... Anzi, usciàmone insieme.
Già i gassajoli dièdero il colpo della luminosa lor lancia a
tutti i lampioni: splèndono le botteghe. Non havvi porta che non partorisca il
suo uomo, non soglia su cui non dòndoli il suo. Sbotta la gente dai ristoranti,
pùllula dalle chiese, come formiche da una cariosa ceppaja. È il quarto d'ora
del dopopranzo, allorché il cibo, cui si pensò tutto il giorno, comincia a
pensare per noi, e diffondendo per la rete venosa un sangue più pingue, più
caldo e aoppiato dal caffè e dal vino, ci adagia l'intelligenza in quel lieve
ebetismo che è il morale benèssere. Tutti allora s'è ricchi, tutti s'ha in prospettiva
una eredità, o per lo meno, un terno. Il liceista, venendo dal pacchio
domenicale del canònico-zio, cammina fiero, la sua
sbrindolina a braccetto, e di un'aria conquistatora, dimanda, con quasi una
lira in borsello, il prezzo dell'orologio aspettato dalla sua àurea catena
odorante l'ottone o della camicia che gli manca al colletto; mentre il
portabigoncia, pinzo di merluzzo e polenta, il mostaccio lavato da un midollo
d'anguria, più non ricorda l'indolenzito dell'òmero e fabbrica già per suo
conto. E a tutti, in questi sessanta minuti, pòsson piacere due cose, che, se
si cìtano a stòmaco vuoto, è solo per berteggiarle; parlo di due strette
parenti, Poesìa e Bontà. Ché è l'ora, in cui una birba, pur non compiendo una
buona azione, saprebbe almeno pensarla; e potrebbe un astuto rimanere aggirato,
se il suo possibile ingannatore non si trovasse nel suo idèntico caso; l'ora,
quando un mercante è capace perfino di non fare un affare, e Arpagone, nel
prodigarsi una ciliegia allo spìrito, non se ne salva il noccioletto in
taschino. Noi per le strade si giràndola allora, scopo la strada, scambiàndoci
scappellate, strette di mano, sorrisi, con una prodigalità, una espansione, un
affetto, che, poco prima, ricorderebbe di Giuda; e ci si scorda di tenere su il
broncio col tale o tal'altro, e sopraccòlgonci, a volte, stranìssime simpatie
per sconosciute persone, càusa forse la fetta che il macellajo ha diviso, quel
dì, dal medèsimo bue, fra esse e noi.
Ma, oh quanto roseo di facce! Sbòcciano le ragazze, come i
pensieri, ad un tratto, per pol, come quelli, sparire, soppiantate da nuove.
Sono stormi di gonne, è un passerìo di voci. Cucitore, guantaje, crestaine,
sartine, tòrnano dai lavoratòi, tutto punte le dita, e affollàndosi con gli
occhi vogliosi alle sfolgoreggianti mostre del lusso (le mille porte al
bordello) dove la intatta nevata del camiciajo e la cascata dai caldi riflessi
del tappezziere si altèrnano con le gabbiate-di-cappellini
della modista o con le ajuole di nastri e merletti (i cenci dei ricchi) o con i
monti di guanti (la lor pelle fina) — dove, ai variopinti sapori del
confettiere, che vanno al palato men per la bocca che per la pupilla e
sciòlgonsi in una fragranza, succede la gioventù imboccettata e la beltà inscatolata
del profumiere, irradiante una ebbrezza di odori, ed alla grande oziosità del
quadrajo la pìccola del chincagliere, inutilerìa sott'ogni più indispensàbile
forma... — ¡pòvere tose! — estasiate alla fàcile letteratura, a ùnica popolare,
delle pùbbliche carte, dal bello stile del 500 e dal migliore del 1000, o
rapite nella boreale aurora del giojelliere, dimènticano l'oro fumante della
polenta, che a casa le aspetta con la sbadigliosa mammina, e ascòltano con
sempre crescente clemenza il ronzìo dei calabroni che loro aleggiano intorno,
finché, staccàtesi a forza, quasi rompèssero un laccio, dalla dùplice insidia,
si riconfòndon col bujo. Ma nel bujo le insegue, idèa fissa, il tentatore
baluccichìo e lor la polenta fà groppo e il pagliariccio dà spine.
Altre invece, vanno ora a bottega. Sono le nottoline, le belle
affamate, le maritate col pùbblico — ami vestiti da donna — che ci rasèntano
leste, frusciando sericamente le loro tele incartate e lucicàndoci in viso i
loro specchietti da lòdole e spargendo dalle zafferanee capigliature un sentore
di cipria, quasi fuggenti per non èsser fuggite; sono le càndide giovinette dal
cappellino alla calabrese e dalla scusa di uno spartito sobbraccio, che ci
vèngono incontro come in cerca d'aìta, giovinette fioccate in città per
istudiarci anche la mùsica; sono le miserìssime bimbe, cui fu negata
l'infanzia, e le orrìbili vecchie dalla lingua infame, che ci tèngono dietro
insistenti, chiedendo la carità, offrendo di avvelenarci.
E intanto, la teatral bergamina si riunisce ai suòi chiusi.
Illùminansi i camerini, gusci di altrettante celebrità. La istriona allo
specchio si rimposticcia il cuore serale e si «fà il volto», la virtuosa
(perocché in medio stat vìrtus) scioglie, in attesa «di superare sé stessa» a
tutto entusiasmo della sorda mammana, il canarino della celeste trachèa; mentre
la trinciasalti, come una mosca che si soffreghi i pie' inzaccherati, riavvìa,
a tutto profitto della lievemente arrabbiata cagnetta, la polposa loquela delle
sue gambe, oppure, mezzo vestita da Dea e sdrajata su 'n canapè dalle molle
rotte, si spassa a grattarsi un prurito che possiede zampini. Poiché, di là del
telone, quella belva feroce, che è «il rispettàbile e colto» ancor non da segno
col trepicchio e col fischio della sua graziosa presenza. Quantunque la
piccionaja sia già tutto teste, e sbrìscino nella platèa, ad ogni momento, di
quelle brave persone, che a bene godere il proprio denaro non vòglion pèrder
neppure la noja del divertimento, l'ombra intimidisce i rumori, ombra assài grata
ai servottài del loggione, che stanno insegnando come si alzi il sipario e
balli la marionetta, a voi, Colombine, maliziosamente crèdule.
Il che, tutto insieme, è un brulichìo, una nebbia, dove
l'incenso sembra fumar da una pipa, da una caffettiera il tabacco, da un
incensiere il caffè; dove, nel solenne bordone dell'òrgano galoppa
sguajatamente lo strillo dell'organetto, e sul rombo della campana, punteggiato
dal tonfo del tamburone, si eleva il ricamato affanno del piano, interrotto quà
e là dallo stappo delle gazose, dal fischio de' razzi e dal ruotolìo dei
brummi, tintinnanti nei vetri — tutto un grigio, diciamo, di rumori e di odori,
nel quale inutilmente si perde il vagito che esala dalle latrine e l'afror di
carbone della tradita mansarda, e di cui gli ùltimi echi, sfiorando la
prigioniera, aggrappata alle sbarre e smaniosa pur del ceffo aguzzino, vanno a
morire, evocatori di non pentiti desìi, in quella lunga corsìa, divo Rocho
dicata, dove — in tanti lettini, tutti, fuorché nel nùmero, eguali; dai tanti
consìmili visi, o a meglio dire, ricordi di viso — chiùdonsi tante storie di
gioja che ne fanno una sola di pianto.
Ma, ¡ecché! delle storie con il singhiozzo, ne abbiamo già
pieni i cassetti, ed anche le scàtole. ¡Bando ai gufi! ¡Altra mùsica e orchestra!
¡A mè i giovanotti che vìvono all'avventata, facendo l'amore sui pianeròttoli!
¡a mè i prudentìssimi vecchi, che han sempre fatto lo zio e i verginoni senza
rammàrico, e i «non indegni di aver perduto la prima!...»
Or, ¿chi mi dona una rossa matita? ¿Tu, Cletto mio?... oh
grazie.
E la rompo.
Mezza è per tè, criti-cuccio, cui ogni
spropòsito nostro è seme di mille tuòi — tu, giùdice inquisitore, che non
annasti che il male, per poi, se nol trovi, invèntarlo. O letterario fuco, ¡gioisci!
Hai quì casi di maggiore scomùnica, eresìe da tanaglia e da rogo. Troverài idèe
nuove, ché tali almeno parranno alla tua squisita ignoranza, troverài gagliardi
sapori, che a tè, assuefatto alle più scempie pappine, abbaglieranno il palato.
Ma, ¿che vuòi? A gusti scaltriti (e io sol cucino per essi) non può l'ingenuo
manzo piacere se non a forza di salsa. Anzi; anche il sale è talvolta lor
dolce, e però ci vuol pepe. ¡Viva il pepe che salva i panni dal tarlo — ed i
libri!
E così, l'altra mezza è per tè, autorità filològica, la quale,
a nome di quella Crusca che in Lombardìa si stima assài ne' clisteri, spaventi
col tuo «non si può» le idèe de' scolarucci che fanno il comporre. Ma non le
nostre, bada. Noi, la lingua che Natura ci ha dato, noi la vogliamo vibrare
come meglio ci sembra. Stolti voi che credete, coi dizionari e le scuole,
d'immobilizzarla, quando il pensiero, suo sangue, nè le manette nè il boja non
arrestàrono mai, nè Cristo nè il Diàvolo.
|