ATTO SECONDO
Se ad uno di que' rarìssimi giovanottini, sulle cui guance la
foglia di rosa ancor non cedette a quella di nicoziana, miracolosamente passati
intatti fra le bambinaje, le maestrine ed i preti, si domandasse, additando una
processione di gente che pare nudrita a lucerte e pende più al verde che al
giallo, màssime nelle tasche, e trae fin dalle calcagna i sospiri e ti risponde
una cosa per l'altra, o cose che nessuno capisce, compresa lei, si domandasse,
dico «¿or che vedi?» certo risponderebbe «ammalati.» E noi, battèndogli
amichevolmente la spalla, «bravo tè» gli diremmo «hai trucciato, perocché sono
innamorati.» Ma allora il giovanottino, il quale, proprietario di una completa
poètica profumerìa, ha letto che amore è «il sole dell'ànima» (vero, perché dal
sole vien l'ombra), che senza mùsica e amore la vita non sarebbe che una lenta
agonìa, e sìmili quiproquò, ci mostrerebbe impersuaso la sorridente fila de'
suòi bianchìssimi denti, amàndole senza la buccia, e tirerebbe innanzi,
platonicamente incicciando, a confidare alla luna i suòi fastidi col burro. Nè,
noi, tolga Dio, ci ostineremmo a guastargli l'innocentìssimo divertimento.
L'uomo è nato all'inganno. Chi non imbroglia neppure il suo ìntimo amico,
bisogna bene che azzitti la naturale necessità, imbrogliando almanco sé stesso.
Tuttavìa — fra noi, che mastichiamo da un pezzo coi denti del
giudizio (¡pòveri denti! già la carie vi mina) — quella folla dalla tinta pantrito
e dalle fiacche morelle alle occhiaje, è proprio d'innamorati. ¡O amore,
tossicoso miele! ¡o amore, inevitàbil castigo! ¿chi mai non reca qualche
sfregio di tè, fosse pure il nessuno, che è di tutti il più ingrato? ¿chi può
vantarsi fuor da' tuòi colpi, finché di nulla più possa, finché non lo vesta
l'abete?... ¡O amore, fonte di maggiore rovina che non la fame e la peste, tu
che le sei, non di rado, ambedùe!
Ed ecco, nella interminàbil sequela delle vìttime tue, un
giòvane. A lui, bello, ricco, d'ingegno, tutto sorrideva all'intorno. Non un
cuor gli era viêto, non una strada chiusa, ed egli poteva, per la preferita,
procèdere velocemente, ché possedeva carrozza, toccando la meta, tanto per il
demèrito, quanto, il che è più difficile assài, per il mèrito. Eppure, il suo
volto è giallo come una foglia a novembre, è vizzo come un borsello a Natale;
eppure, a paragone dell'ànimo suo, il nero è un allegro colore. ¿Che ha mai? Il
mèdico, che lo tastò e sperò e bussò, ci assicura ch'ei suona campaninamente
bene. Ma il scientìfico occhio non gli è giunto al cervello, dove l'imàgine di
una donna gli asciuga, insaziàbile spugna, ogni men vile pensiero, di una donna
di cui il giòvane spàsima la limòsina solo di un guardo, senza osar di
cercarla. Ché, amore, il quale dà spesso impudenza, quì ha tolto il coraggio.
Lo specchio rende al giòvane brutta la bellezza di lui, nè intorpidito
l'ingegno è lì a confortarlo con rammentargli che egli sempre conserva quella
seconda beltà, che per le donne è la prima, la numeràbil beltà; dell'ingegno
anzi di un tempo egli più non si sente se non quel barlume, che fàccialo
avvisto come l'ingegno sia ito. E, sfiduciato completamente, fugge gli amici il
cui sorriso lo offende, fugge l'umano consorzio di cui sospetta ogni occhiata;
fugge, alla fine, con un'oncia di piombo, l'insopportàbile sé — ¡a ventitrè
anni, pensate!
Poi, ecco un uomo di mezza età. Era la gioja delle brigate, il
piatto migliore di un pranzo. Tanto tondo di corpo, quanto acuto d'ingegno,
tenèa (caso non troppo frequente) il satìrico umore in perfetta bilancia colla
bontà. Scarso a fortuna — ed anche quel poco gli costava moltìssimo — gliene
avanzava pur sempre per farsi un piacere, facendone altrui. La sua cassa a
risparmi, dicèa egli, èrano le saccocce de' suòi amici, donde traeva per
interesse, di poter guardare, senza rimorso il passato, e senza paura il
futuro. Tanto che, allegramente, egli metteva già il piede fuor dell'ùltima
soglia di gioventù, quando, nel vòlgersi indietro a serrare la porta, cadde in
due occhi, tùrgidi di desiderio, che parèvano dirgli «aspetta». ¡Pòvero Meo,
sei fritto! ¡Addìo, balda scapigliatura, addìo lùcide bicchierate e dormite
profonde! L'appetito scomparso, sostituito al sognetto il sonetto, le vesti gli
fanno sacca, la zecca dello spìrito suo più non conia epigrammi, sibbene
epitafi. Il buon uomo è diventato irascìbile, è diventato intrattàbile,
veramente «moroso.» È allora che il suo capo d'uffizio comincia a lagnarsi
della peggiorata calligrafìa di lui e de' protocolli macchiati, e gli domanda
con meraviglia, perché per Agosto copii Agostina, e per quanto a, guantaja.
Perché il capo d'uffizio ancor non l'ha visto in una certa bottega di mode, ad
un banco e dinanzi una sninfia di tosa, rosso come un papàvero, tutto sudato
pel batticuore dello sforzarsi un pajo di guanti del sette su de' manoni del
nove; nè sà che il nostro uccel di San Luca si vìrgola il pasto per inviare
alla sua insìpida bella cartocci di parlanti confetti, mandorlati di
millefiori, rosoli di lungo amore, cioccolata con la cannella, e altrettali
commestìbili dichiarazioni. Nel che, a onore del vero, il galantuomo pigliava
la rettìssima via, entrando le idèe meglio assài per la bocca che non per gli
occhi e le orecchie. Ma, se più retta la via, non era quella del buon mercato.
A poco a poco, le camerette di lui si sgòmbrano di mobiglia. ¿Che mai più
orrendo d'amore senza quattrini? Bentosto, il tabarro gli si consuma in
ventaglio. Infatti, con il caldo d'amore, era l'uno di troppo, e l'altro di
manco. Bentosto il suo fido orologio gli s'è fermato per sempre. ¿Dove il tempo
è perduto, a che un orologio?
E, per ùltimo, un vecchio. Quì usurpo alla patologia. Costùi,
al polo antàrtico delle passioni, trovàvasi appunto in quella temperatura
indispensàbile alla conservazione di un morto. Egli spirava la ragnosa maestà
di una centenaria bottiglia, parèa il granajo dell'esperienza, e venìvano tutti
a picchiare al suo uscio per domandargli pareri buoni, ch'egli accordava
liberalmente, non potendo più dare cattivi esempi. Ma, a un tratto, la sua
onesta canizie si abbuja nel più furfante dei neri; gli occhiali cèdono
all'occhialino, la tabacchiera alla spagnoletta, il suo
mangiagroppi-portiere al tailleur de Paris. Gettati via i
volumi dell'equànime scienza, noi lo vediamo, il majùscolo bimbo, ricompitar
febbrilmente l'ars amandi d'Ovidio, e l'art d'aimer di Bernard, o meditare il
Meibonio de usu flagròrum e la ricetta itifàllica di Arnaldo di Villanova; poi,
tutto azzimato e olezzante sì da sembrare un imbalsamato cadàvere, sedersi
sull'orlo de' tamboretti, lui malsicuro in una poltrona, girando caprinei
sguardi, spargendo, come egli crede, amorosi disastri. Ma il disastro è uno
solo, lui stesso. Già lo stramonio e la cànape hanno iniziato il loro tremendo
lavoro. Infuria l'estromanìa, il tètano eròtico. Agonizzante ei s'aggira, gli
occhi ebetiti, le labbra schiumose, barcollando sull'usta di un'inarrivàbile
donna, ch'ei bramerebbe inghiottire ne' suòi epilèttici amplessi...; O dottore!
cessa il bromuro e la cànfora. È tardi. Non giova più che lo schioppo.
Or, per chi vuole un contorno a questi trè assortiti salami,
ecco monti di suole inutilmente perdute e libri zeppi di pòlvere e calamài
assetati e lenzuola lògore dall'insonnia con schiene ancor più logorate, e patrimoni
in isfascio e laghi di làgrime con così fieri sospiri da cacciarli in burrasca.
Ché se tu ti disperi di non èssere amato, il vicin tuo fà ciò o per èsserne
troppo o non abbastanza, e se tale, tradito da una diavolessa, strilla come un
porcellino di latte, altri, cui tocca, piange di possedere un àngelo. Oh che
burletta l'amore! Per lui, un formaggiajo si accorge, dopo trent'anni, che c'è
la luna, e cercando una somma, trova la rima che un poeta ha smarrito nelle
idèntiche ortiche. Tizio và dalla magnetizzata con i capelli della sua baja;
torna Sempronio dal professore Mercuri senza i suòi propri. Quì un cuoco,
abbagliato dal «caro oggetto» che sarà, penso, una trecca intingente la
pettinina nell'aqua de' fagioletti, còmpera luccio per trota; là Automedonte,
alla vista delle adorate spadine, ribalta con i padroni. In questa, un pittore,
eternamente copiando l'ùnico muso di quella che «sola a lui pare donna»,
esaurisce sé in compagnìa della pazienza del pùbblico; e intanto che un
organista, pensando alla maestrina normale, bacia piangendo il consapèvol
barbone, la maestrina sovvenendo di lui pizzicotta stizzosa la sua dozzina di
scolarucci. E vi ha, chi, d'ingegno, inasinisce estasiato alle trullerìe che
vèngono da una seràfica bocca, oppure si ostina a lègger Petrarca e sonare
Chopin a chi non capisce se non Marchesini e Vernazzi; come vi ha, chi, nojato
alle pàgine le più rovaniane ossìa le più generose, brilla di gusto ai
solecismi di cuore, peggio che di sintassi, di uno di que' letterini, che,
incominciati offrendo un bacio, finìscono domandando un marengo. ¡Ma e poi!
¡che tragedia, l'amore! Trema, la prima volta, il gelato cassiere contando i
rotoletti dell'oro,, egli non scorge più cifre,
sibbene gale e sorrisi; nega l'amico il dovuto soccorso all'amico per
soddisfare ai capricci di una inimica; il padre stesso strappa i pendenti alla
figlia per appènderli a orecchie che danno ascolto a chiunque. ¿Che più?
Donizzetti muor scemo; smidollato Raffaello, e, giacché siam fra gli Dei,
Èrcole torce le lane di Omfale (la sua peggiore fatica) ed il medèsimo Giove,
dall'olìmpica calma, và in oca, và in bue...
Mira, o lettore, la scarna cùpida faccia di chi, da quelli
scacchi di ferro, vede passare lìbera e fiera la ganza nella pompa di un lusso
che il suo delitto le paga; odi, da quell'altra prigione cui fà da aguzzino la
Carità, i ruggiti di loro, che hanno per un chignon perduta la testa; sogna, a
sfondo, la negra purèa del milanese Tombone, dove tra fràcidi mazzi di fiori e
scocciate bottiglie, tra mànichi di pitale e pisciatura con li occhi, vanno
convolte le lìvide salme del tradimento, pasto alle cheppie e ai gazzettieri
cronisti.
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