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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO SECONDO
      • Scena seconda - Quo mèntula mens.
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Scena seconda - Quo mèntula mens.

 

Ma quì, da tutti questi infelici, cui tocca, per giùngere al dolce gheriglio, mòrdere il mallo, o avanza, goduta la pesca, il nòcciolo amaroànime in pena, che pùrgansi pel Paradiso o lo pùrgano — mi si spicca d'incontro un giovinetto con la cravatta slacciata, e all'abbandona il cappello, gridando «¡io la sposo, io la sposo

Confesso; il mio primo pensiero fu di chiùdergli in mano uno scudo, e di dirgli «spendi questo piuttosto»; ma mi tenni. Quel giovinetto era fuor del comune. Niuna fanciulla più vereconda di Nino Fiore. A lui, oltre le simpatìe pel sereno suo volto dalla pelle di dìttamo e dalli occhioni cerulei, mi legàvano quelle pel suo rarìssimo ingegno, un ingegno cui non mancava, perché tale paresse, se non la mano di studio, quasi greggio diamante che attende la faccettatura. Senonché, sul più vivo delle speranze, era caduto il mio Nino nel letargo amoroso. Pazienza, per chi, già citrullo, incitrullisce del tutto, ma per chi, nato a superare l'ocèano, affoga nel secchiolino, ogni pazienza in furia. Principalmente, ché è della gente d'ingegno, come di certi bibliòfili, i quali, quanto più un libro è sprezzato, tanto più lo cèrcano e àmano, o come di certi mosconi, che, gira e rigira in un giardino di fiori, finìscono a posar sullo sterco. Nino difatti s'era pigliato di una cosa non uomo, e alto . Non un rapporto tra loro da quello all'infuori, che mancava a colèi quanto ad esso cresceva. ¿Ma come, dimando io, persuadere ad un ebbro la sobrietà? ¿come provare a un illuso che le bellezze ch'ei mira, novello Narciso, nella sorgente de' suoi desideri, non sono se non le proprie? ¿come infine distor l'assetato dalla tòrbida aqua presente con la promessa di un'altra, benché cristallina, lontana? ¡Ahimè! l'altrùi esperienza non serve; ciascuno deve procurarsi la sua, che poi non si trova di avere raccolta se non giusto nell'ora di doverla lasciare, non laureàndosi l'uomo nella scienza del vìvere, che quando già occorre (il che è forse tutt'uno) di sapere morire. E se è vero, che Nino veniva spesso da ad implorare consigli, egli in ciò seguitava il sòlito vezzo degli ammalati d'amore, i quali scòppiano tutti di confidarsi a chiunque, annojando il pròssimo loro come sé stessi. Desiderare, del resto, il parere degli altri, vuol sempre dire, desiderare di sentirsi riaffermati nel proprio, màssime errando. Non havvi impresa più temeraria del rèndere accetta la Verità che se quà e si sopporta è perché piglia in imprêsto gli àbiti della Bugìa.

Per cui, andato a cavare dal mio armadio di facce, quella di congratulazione:

«Bravo Ninodissi, serràndogli con espansione le mani, «¡ me ne rallegro tanto! ¡Vedi tu, che non ti sapevi dar pace, perché l'amore tardava! ¡ ci hai fatto quintina, e insieme tòmbola! Un giòvane, come , non può non avere incontrato un complemento condegno. Sarèi per giurare che in pìccolo è una perfezione, incominciando da quella mìnima delle doti, la dote...»

«No, no,» interrupp'egli con gàudio, «Gilda non tiene un quattrino. Io la scelsi col cuore, non colle dita. Volli lei per lei sola

«Sentimentiripresi, «che ti farèbbero meritèvole della medaglia al valore civile, principalmente in giornata, in cui «la Guida d'amore» è il catasto. Inoltre, non stai lontano dalla prudenza. Spesso ai mariti costa più la ricchezza che non la povertà delle mogli, mentre bàstano sempre pane e amore. E, se si vuole anche un po' di pietanza, è ben presto supplito con un po' più di lavoro. Tua madre stessa...»

«Mammanotò il giovinetto, mentre il rossore gli lampeggiava nel volto, quale oro su argento, «non ne nulla per ora. E il cuor mi fugge a parlàrgliene. La famiglia di Gilda è sì... sì...»

«¿Bassa, vorresti dire? ¿ecché importa? Nel sociale universo, come nel fìsico, non c'è l'alto il basso

«No, non è il basso che mi scoraggi. È il sùdicio, il sudiciume morale...»

«E io ti ripeto, ¿che importa? Ciascheduno, rotto il filo ombelicaie, a sé. Non v'ha terreno di vizio in cui non possa germogliare e dar fiore la pianta della virtù, che, come tutte le piante, succhia non rado ubertà dalla stessa immondezza. Ci sono corpi che pàssano illesi per qualunque contagio; ci sono ànimemusicalmente foggiate...»

«Gilda non tiene orecchiosospirò Nino.

«Terrà occhiosorrisi.

«Gilda è stonata anche in ciò.»

«Allora, o mi sbaglio o una più fina armonìa la rende ottusa per l'altre; la letteraria armonìa

«¡Nemmeno!» fe' il giovinetto sconsolatamente «Gilda non lèggere manco. Ella non è che natura, è un pòvero cinquefoglie

«¿Come?» gli ribattèi, «¿te ne duoli?... O amico, meglio così. Minore dottrina, minor vanità. A fare una buona nutrice e una buona massaja non occorre troppo alfabeto, ché, anzi, con i libri del giorno, l'alfabeto è un perìcolo. ¡Comunque! l'ingegno innato compensa sempre lo studio, che è l'ingegno d'aquisto. ¿Non ti par pena sciupata, lèggere in altri quanto in noi stà già scritto? E, appunto in ragione di questo suo stato di letteraria innocenza, cose la ti dirà la tua Gilda ingenuamente sublimi, e tu, con essa, fuor dal timore delle sonate a organetto, potrài sgropparti l'ànimo liberamente...»

«¡Mio Dio! no,» fece Nino, movendo con malinconìa la testa, «quanto al suo ingegno, ne ha, ma se tace: il mio, bisogna che glielo nasconda con ogni malizia, perché la mi tòlleri. E inutilmente cercài di prestàrgliene. L'asciuttezza di Gilda è quella, non della spugna, del sùghero...»

«Basta peraltroinsinuài, «per quel che deve servire, che la ragazza sia sana...»

Ma il giovinetto, traendo un lungo sospiro:

«¡Pòvera Gilda

«¿Che ha?»

«Ha le gonghegemette con un filo di voce.

Quì il volto mi si dipinse di un buon umore, di cui la metà non era proprio forzata:

«¡Evvivasclamài «tu se' nato vestito. Le ragazze infermicce sono pur le più buone, ché invece il diàvolo, per quanto si , non fu mai indisposto ¿Che è mai la perla? una malattia preziosa. Così, la più aerea soavità, la melancolìa più chiaro-di-luna, vèngono spesso da un crònico male, da una digestione cattiva. La tua fanciulla, son certo, è di que' bòzzoli da cui sfarfàllano gli àngioli...»

Nino non potè trattenere un ghignuzzo, e:

«Mira i segni dell'àngiolodisse mostràndomi le sue mani graffiate, «e questo ¿sai, per che cosa? perché la pregài dolcemente di èsser più amica alla casa

«¿E che?» ritors'io «¿ne vorresti una mònaca? ¡Tutti così, voi amanti, tutti tiranni! Lascia, lascia, mio Nino. Una bella ragazza non ha da covare la cènere; ha il sacrosanto dovere di andar dappertutto per mantenere la estètica. ¿Sarà bella, m'imàgino

Fiore mi guardò con sorpresa.

«Oh bellìssima!» fece.

«¿Un nasino, vero, tutto finezze

«Il naso è piuttosto ordinario; è schiacciato. Somiglia a quello di un pinch...»

«Indizio di onesta baldanza. ¿E una bocca, diremo, da baci

«Baci, ve ne stan forse un po' troppi.»

«¿E gli occhi... ampli... brillanti...?»

«No, piccini e nebbiati

«¿E i denti, càndidi, accolti

«A denti, non è molto felice. ¡Poverina! ¡sempre la benda alle guance...!»

«Guance, s'intende, dal tizianesco colore, mòrbide come la cipria... ¿Parlo giusto, o m'inganno

«¡Scusa! sono alquanto gialline. E per pelle... ¡Capirài! quando s'è avuto il vajolo...»

«¡Male col becco il vajolo!... ¿Del rimanente, una sveltezza di forme...?»

«Non dico di no... se è seduta

«¿Con una voluttà di manine...?»

«¡Ah! le ha goffe, ¿sai? ¡Patisce tanto i geloni

«¿E due mazzetti di piedi...?»

«No, non li dire mazzetti. Gilda possiede, è vero, il mio cuore, ma gli occhi, no. Io stesso, se non la amassi tanto, dovrèi chiamarli... chiamarli... (e con titubanza ) «cassette...»

«E, giacché l'ami, di' cassette di fiori. ¿Perché mi adocchiintento? ¿Dùbiti forse ch'io celii? No, amico. Tutto sommato, la tua futura metà può èssere ancora, come dicevi sul primo, bellìssima. Molte bellezze nàscono appunto da un complesso di errori; anzi, ti proverò qualche giorno, come la vera bruttezza stia solo nella perfetta beltà. In ogni modo, una donna, innamorando, abbellisce, più o meno, s'intende, a seconda della sua interna passione, come, in ragione del vino, si bello il bicchiere. ¡E Dio quanto ti amerà la tua Gilda, invidiatìssimo amico

Ma, ¿ecché? Nino, nelle pupille del quale già tremolavano i luciconi, a questo punto non tènnesi più e nelle braccia mi cadde, in una troscia di làgrime «¡Ecco, ecco,» singhiozzò egli, «la spina che stracciò tutto il mio cuore, ecco il martello che mi ha frantumato l'ingegno! ‹Gilda non mi ama›. Io bacio sempre i suoi labbri, mai i suòi baci; e se ella pur me ne dona — oh baci senza scoppio lingua! — è come li desse a suo padre, anzi a suo nonno. ¡E di non èsserle in mente che quando le sono negli occhi, di non farle se non da gratùito suggeritore per il suo pròssimo amore! ¡Gilda non mi ama, non mi ama

Taque, incontrando il mio sguardo, che dalla soja era balzato nell'ira. ¡In verità, non si poteva più fìngere!... e sotto il mio sguardo, Nino chinò vergognando il suo.

E già subentrava un imbarazzato silenzio, in cui rimordeva a dell'inganno, del disinganno a lui; quando:

«¿Concedi che si ragioni?» gli domandài.

Fiore acconsentì con il capo.

«Non è bellaseguìi, «non è ricca, ¡e ciò passi! ¡Non è neanche istruita; e passi! Non è sana, non buona... ¿Che è dunque?» (egli arrossò) «¿Vèrgine?... Non giurarlo. Ogni donna può attraversare la sua mezza dozzina di verginità. Pur, ¡foss'anche alla prima! ¿stìmami un poco, perduta la spirituale, quella del corpo? Ed ecco, contuttociò, tu ti ostini a fantasticare, che l'ànima tua, alla quale le carni rèndono, si direbbe, l'ufficio della lampa alla fiamma, sia proprio fatta per una, tutt'al più concessa alle carni, qual sale, perché non marcìscano; che, a la metà di una pera sia destinata ab aeterno, per completarsi, la metà di una rapa; e così vuòi da una cosa, buona, non dirò per un anno, non dirò per un mese, ma per una sol notte, farti la indivisìbil compagna per tutta la vita, ed accordando a' suòi vizi la firma dell'onesto tuo nome, ¡vuòi che la stessa tua madre acconsenta, anzi goda alla completa comune rovina!...»

Il giovinetto ebbe un singulto, e fe' per rispòndere:

«¡Attendi! Forse, che pensi, indovino. Pensi, che non si gioca impunemente all'amore e che una fanciulla non la s'inganna. Nulla di più galantuomo, e in ciò ti stringo la mano. Resta, peraltro, a vedere se quì si tradimento. ‹Gilda non mi ama› tu lo hai detto trè volte; dunque, se tu tradisci qualcuno, è... stesso. Ella non ti ama, eppure vuòi farla tua,, vuòi di una, la quale forse con altri sarebbe felice, farne, costretta teco, una infelicìssima. ¡Àurei sensi davvero! Mèditi, in conclusione, uno stupro

Nino mi occhieggiò con corruccio. Io soggiunsi:

«Perdona, se mai ti dico, in isbaglio, la verità, quindi ti offendo. Ma, quel vero che irrita, giova. L'ànima tua è forte. Essa non chiede, per sostenere il salutare martirio, tregue cloroformio.

«Ché se con altri avrèi già chiuso il registro, o non lo avrèi manco aperto, debbo con aggiustar le partite fino all'ùltimo spìcciolo. ¡Ànimo dunque e t'annoja! Metà dell'arte per camparla men male, stà nel sapersi annojare con leggiadrìa.

«Ho parlato all'amico; parlo ora al poeta. E a lui ricordo anzitutto, che tal dei romanzi, cui fine o la morte dei così detti eròi, o, quanto viene lo stesso, il lor matrimonio, tal'è di una artìstica vita. ¿ perché soffocar la certezza nella speranza? ¿distrùggere il frutto nel fiore? ¿Rèputi gloria il suicidio? Oggidì, bada, alla Tragedia si ride.

«Pazienza se si trattasse di una passione, diremmo, in carta sèmplice; meglio, di contrabbando; ancor meglio, con la cavata del tradimento. Passioni tali càcciano il sangue in subbuglio, fermèntano in genio l'ingegno; e, dal mosto tornato a posare, si spilla un vino coi baffi. Al contrario, non havvi acciajo d'artista, che non allenti in fer-dolce nella lunga lunghiera di un amor maritato, dove bisogna rimasticare la felicità che s'è appena smaltita, e Cupido, già insinuàtosi dalle fessure,, per non restar carcerato in un sepolcro di ciccia, bàttesela-vìa, intanto che può, dal portone. Poiché, a ordinare le idèe, che accòrrono tumultuarie alla chiamata dell'entusiasmo, può sì giovare la calma della stanchezza, non però della noja.

«Imaginiàmoci poi, quando, con lo sbadiglio di essa noja, si concerta anche quello dell'appetito, e la miseria si asside nel vacuo focolare. ¡Purtroppo! non è che una la testa. che stia sempre in cucina, non sarà mai in istudio. Ed ecco colùi, il quale rifiuterebbe per sé la più lucrosa indelicatezza, implorare per altri — i suòi figli — le men promettenti viltà; ecco il poeta, cui la medèsima fame conduceva alla Fama, pèrder pei nùmeri, il nùmero. ¡Buona notte al poeta! Se mai l'alloro entra ancora in sua casa, sarà, tutt'al più, per coronargli il tacchino.

«E davvero che l'Arte è come il Dio che passando di moda. Essa è gelosa dei cuori che le son dedicati, concèdesi tutta se non a chi a lei si tutto. Tra i quali devi èssere tu, perché puòi. Sei di que' pochi — làsciami dire — che giùngono al midol del pensiero; ti è un orologio il cervello, che segna i minuti secondi. Solo difetto, la tua stessa abbondanza, il tuo, dirèi, dorar l'oro. E la fiducia mi tiene che ti si serba alla gloria una sedia a braccioli, di cui già intaschi il biglietto (e se non l'usi, ¡tua colpa!) fiducia che in pure verrà, allorché in mezzo alla general sconoscenza, quasi travestito fra ignari vassalli, inorgoglierài nel segreto della tua propria grandezza, e che, invadendo poi tutti — come appena, invecchiando l'artista, abbia il tempo raggiovanìtene le òperemuterà il vile spregio in una più vil piaggerìa.

«Ti sia dunque famiglia, o mio Nino, quella che sola si addice al tuo nòbile ingegno, le cui imàgini scritte, quali i pinti ritratti degli avi, ti sorrìdon dai palchi di ogni gentil librerìa, loro carìssimo erede — e ti sìano figli i tuòi libri, che, come figli veraci, se ti daranno sul primo fastidi, compenserànnoti poi con centùplici gioje, ti nutriranno in vecchiaja, e non potendo più altro, protrarranno il tuo nome. Gente vi ha condannata a generare uòmini,, gente, idèe; ed una idèa può dire, come di sé Garibaldiequivalgo a un esèrcito.› O tu amorino piccino, che hai d'uopo di scaldaletto, sempre con l'occhio alla sola tua pèntola, ¿che mai mi diventi a confronto di quella carità universale per cui le geogràfiche carte non hanno colori, fogge la umanità; di quell'amore, che non si consuma nel seno infecondo o di Làura o di Crezia, ma, attraversando, inesaurìbile, sècoli e generazioni, conforta, consiglia cuori infiniti, rialza gli stanchi intelletti che nella terra precedèttero il corpo, o cambia in lacci di fiori le ferree catene che ne rattèngono il volo, sfoga nella dolcezza delle poètiche làgrime l'astioso pianto inturgidito nella nuda realtà, affetti, ingegno, a cui Natura non diede o tolse Fortuna, a Scienza i novìssimi semi e i frutti di lei a Ignoranza,, alla Miseria le feste della Ricchezza, e a costèi il goderle di quella; riunisce infine in un artìstico bacio tutte quelle ànime scompagnate, anelàntisi invano, dalla Sorte divise, dagli spazi, dai tempi!...»

Cessài. Camminammo in silenzio. Era Nino fieramente commosso. Nel volto di lui, come nella lìmpida aqua, leggèasi un battibecco tra i suòi nervi e i suòi mùscoli, entre son âme et son âne. Finalmente e' ristette, e baciàndomi in bocca, esclamò «tu m'hai sâlvo

Ma, ecco, una frotta di modistine, zampettando-via svelte coi lor scatoloni gravi di leggerezza. E una bionda, un po' scarsa di gambe, e tutto farina la testa (pani defraudati alla pancia) volge al mio amico un musetto, che parèa dovesse gnaulare, fisàndolo cisposamente. Nino un balzo. «¡Lei!» dice a ; scioglie dal mio il suo braccio e còrrele appresso, come pesce che abbocchi.


 




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