Fortunatamente, quell'incessàbile forza (chi dice Caso, chi
Provvidenza, chi Dio degli ubbriachi) la quale — come un paziente maestro, che
corregge man mano gli errori de' suòi scolarucci — òbbliga il corso delle
sociali vicende pìccole e grandi, turbato dalla ragione dell'uomo, a ricomporsi
sempre pel meglio, fece anche quì, nel mìnimo caso di Nino, quanto nè la lògica
mia, nè la poesìa di lui avèan potuto. Nino cioè fu tradito! fu (sòlita storia
da Minosse ai dì nostri) posposto alle spalle facchine e alle occulte virtù di
un briccone; sul che osservo, non tanto ad esempio di chi potrebbe tradire (ché
gli esempi son fatti pel camino e i marroni) quanto a conforto di chi rimase
tradito, come l'amante nuovo sia spesso la miglior vendetta del vecchio. Del
rimanente, uso quì il verbo «tradire» che non dovrèi; e davvero, il mio amico
èrasi sbarazzato, senza rimètterci, di una falsa moneta, èrasi onoratamente
liberato da un dèbito vergognoso; par dunque che avrebbe dovuto sentire quel
refrigerio che un àsino prova quando gli si leva il basto o un suonatore
d'orchestra quando rinchiude il messale di un'òpera della giornata. Eppure no —
¡guardate riconoscenza al destino che spesso ci salva a nostro marcio dispetto!
— Nino si disperò, non da burla; per poco non s'ammalò, e lo si vide lumacar
per le strade, giallo di malinconìa, curvo di schiena e di sguardo, dialogando
tra le labbra e le dita, a mo' di un fittàbile in piazza. Seppi poi, che egli stava,
in que' dì, maturando un suicidio. Oh quante volte, dopo di avere con cinque
lugubri sigilli solennizzate le sue ùltime volontà (e non avèa a lasciare se
non una cosa, la mamma) appoggiossi alla fronte una pistola... vuota; oh quante
impugnò con precauzione quel rasojo, che non era mai stato capace, non dirò di
disfargli la barba, ma nemmeno di fàrgliela. E Nino si andò a specchiare in
tutti i pozzi del vicinato, pur ebbe tanto coraggio di non accòrrere
all'imàgine sua, accontentàndosi invece di tiràrsela a sé nella secchia, e Nino
sfogliò il dizionario chìmico-farmacèutico dove si parla di
veneficio (che è quanto dir tutto) dando peraltro un'occhiata anche al
poscritto dei contravveleni; Nino giunse perfino a notare ogni possìbile morte
in altrettante buschette, sortèndone una. Nulladimeno, siccome l'estratta gli
sembrò la men bella, gittò a monte le schede e si die' a meditare «quel
benèvolo modo e voluttuoso di pena — come dicèa l'umanitario suo professore di
diritto penale — in cui trionfa la corda.» Ed ecco Nino tentare la solidità
degli arpioni di casa ed allacciarvi già il cappio, quando, cricchiàtagli sotto
la sedia, scèsene prudentemente e decise (sopravenèndogli in quella il
carbonaro col sacco di negra morte commesso il dì prima) di morire — avèa
appena pranzato — di fame.
Ned io gli contraddissi, ¡chéh! ben in contrario applaudìi di
gran cuore alla sua econòmica risoluzione, che già durava, quand'egli me la
narrò, da ventiquattr'ore; me lo pigliài sottobraccio e tràttolo in un'osterìa
(imbruniva) gli presentài un buon bicchiere di rosso, dicendo, che ciò gli
avrebbe ravvivato le forze pel suo romano propòsito, poiché, del resto, egli si
era impegnato a finir dalla fame, non dalla sete. Nino fe' una boccuccia di
svogliatura, ma bebbe; anzi, ribevve, ché non s'accorse — tant'era assorto
nella cupa sua idèa e in una cesta di allegri panetti — del mio ricolmargli la
tazza. E allora io mi divertìi ad aggiùngere, che, trattàndosi di un suicidio
in cui almeno occorreva un lungo digiuno, egli avrebbe ben fatto a preparàrvisi
con una scorpacciata, per poterlo, il digiuno, durare sino alla fine. Ma nulla
rispose l'amico. La sensibilità del suo orecchio era tutta assorbita da quella
dell'occhio. Nino più non seguiva il mio dire, bensì la forchetta con cui
ragguazzavo e avviluppavo una montagna di maccheroni. E d'altronde — ripresi,
ingollàndone una forchettata, che Nino accompagnò d'un sospiro — un bocconcino
gli avrebbe non tanto attutita quanto aguzzata la fame, che appunto era quello che
si desiderava. Ma il suicida bevette in silenzio un terzo bicchiere... ¡Davvero
che il vino incominciava a pensare per lui e assài meglio! La sua mano che avèa
intanto appallottolato la mòllica di un mezzo pane, allungàvasi all'orlo della
mia vuota fondella, strofinàndovi-via un baffo d'intìngolo,
che poi recava sbadatamente alla bocca. E lì, il cameriere gli depose dinanzi,
forse in isbaglio, la tentazione di uno stufato, e il mio amico, in isbaglio
pur esso... ¡Alle corte! colùi che avèa fîsso di morirsi di fame, poco mancò
non crepasse d'indigestione.
Ma, quando l'indigestione, tiràndosi seco l'amore, passò dalle
budella di lui in quelle della città, l'organetto di Nino, benché in tono
diverso, riappiccò la sonata. Volata vìa la vespa, rimaneva lo sfrizzo. Avèa la
botta amorosa evocato alla pelle l'ammaccatura dell'odio. Nino si diede a
chiamare la mellonàggine sua, birbanterìa degli altri, come chi, tombolando,
incolpasse, non le sue proprie, ma le gambe del pròssimo, mettendo la ignorantìssima
infedeltà di una brindàccola sul conto di un sesso intero, anzi, di tutto il
gènere umano. Ottimo segno però, che, più l'odio si allarga, e men nuoce,
quando pur non approdi; com'è del solfòrico àcido, di cui il cucchiajo, che da
solo ti uccide, può in una secchia di aqua offrire ai pòveri infermi (stando
almeno ai rapporti delle amministrazioni pie) un'aggradèvole limonata. E a
questo gènere umano avrebbe fatto, il mio Nino, cose da rimandar Calìgola a
scuola, avesse solo potuto. Non potendo altro, lo privò della vista del suo
tòrbido volto, riparando a quel covo d'ogni ambizioso fallito, che è la
campagna. Poiché anche amore è ambizione.
Ed è dalla villa, che, dopo un buon mese, io ricevetti la
prima sua lèttera. Evidentemente il misàntropo volèa che gli uòmini si
occupàssero del suo non occuparsi di loro.
«Amico;» dicèa la lèttera «¡Vinta la malattìa! Ci lasciài
mezzo il cuore, ma l'altra metà è affatto guarita. Sol con uscire dall'infetta
atmosfera ritrovài la salute. Mano mano che mi allontanavo da quella volontaria
prigione che si disse città, da quella mora di pietre con cui lapidossi Natura
per erìgerle-sopra un monumentale ricordo, mano mano che un
àere meno denso di vizi entràvami nel polmone, mi si ossigenàvan le idèe, mi si
alleggerìvano; più l'orizzonte ingrandiva e più s'ingrandìvano. E la notte
scese; una notte tutto stelle e silenzi qual non avevo mai vista. ¿Infatti, chi
può col volto nel fango, comprèndere il cielo? Malinconicamente il misterioso
desìo dell'indefinito mi strinse. Dimenticài il terrestre sepolcro del corpo,
mi sollevài come fiamma, e per gli stellati ocèani, pei soli e le terre, per la
universa immensità navigando con Bruno, travidi la fonte dell'intellettuale
Amore e l'ànimo m'inorgoglì. ¡O amico! solo dove Natura riaquista il passo
sull'ingrata sua figlia, l'Arte; sol dove è dato scordarci, almeno per pochi
istanti, di quel tessuto di convenzioni, in cui ci siamo abbozzolati noi
stessi, che è reggia e càrcere insieme; solo fra i campi, dico, l'ànima può
ricongiùngersi, aquietàndosi, in Dio; mentre non è che in città, dove fanno da
stelle i becchi del gas e viene il cantar degli augelli dalle gabbie e le stie,
essendo ùnici prati i verdi tappeti del gioco e ùnici monti que' del pegno e
del fimo, dove regna pei cani la museruola e pei loro padroni la polizìa, dove
chiàmasi industria la truffa, urbani costumi i vizi e verità la menzogna più in
crèdito,, è solo — o amico — in città, che
un èssere ragionèvole possa scèndere al punto, di trovare la fine de' suòi
desideri, il suo complemento, il ben sommo... tra due coscie di donna.»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Ed ora ti stò scrivendo dalla biblioteca di mio zio curato.
Certo, ricorderài don Vittore, quel sgrossa-messe-e-ragazze,
col suo cappellone a pane di zùcchero, la cacciatora eterna e le ghette, sì da
sembrare, non un ministro di Dio, ma solamente un brigante. Bene, mio zio,
senza saperlo, possiede una librerìa capace d'imprestare l'ingegno a una tribù
di scrittori. Quando gli chiesi, se avesse qualche volume, fosse pur
scompagnato, egli mi porse una arrugginita chiavaccia, dicendo guarda. Mio
zio non ha di lucente se non la chiave della cantina. Quanto ai libri, non si
son salvi, che per amore della legatura. Don Vittore li ammontonò in un
camerone, dove metteva una volta la frutta a marcire, e là li tiene, come
terrebbe un castrato un gineceo. Ma a lui, per crèdersi dotto ed èssere tale
stimato, basta di avere, in casa la scienza, e fuori il più persuasivo dei
pugni.
«La qual librerìa fu messa insieme dal pàrroco predecessore
che la legò al presbitero. La sua particolarità e il suo pregio stanno nel
riunìrvisi quanti scrittori dìssero chiodi in femminile materia, dall'òpera la
più massiccia al più bizzarro pamphlet, e siccome la maggior parte ne disse,
così ne segue che la raccolta sia anche voluminosa. Perocché il vecchio curato,
che era di quelle letterarie tignuole quae lìttera vìvunt (cioè l'opposto del
nuovo) quantunque incapace di non èssere buono con tutti, preferiva, in teorìa,
di professare contro il sesso peggiore — forse amàndolo troppo — un odio da
vìncere quello di un Francescano ad un Domenicano, odio che la continua società
con idèe adulatrici alle proprie gli confortava, inspiràndogli inoltre quella
eloquenza dal strappa-pelle sarcasmo e dall'ingiuria
libidinosa, la quale chiamava la gente alle prèdiche sue da venti miglia
lontano e le affollava... di donne.
«E però cominciài, alzando le veneràbili legature, vere pietre
di tomba, con gran disturbo delle tarme e dei ragni, e rimovèndone di tanto in
tanto qualche topo crepato (altro effetto di scienza) a lèggere i mièi misògini
autori, a ridonarli, almeno per pochi giorni, alla vita. Ma contagioso è l'ingegno.
Tutte quelle ideone e ideuccie, succhiate da Giovenale e Lucrezio, da Pope e
Luciano, da Tertulliano e Grisòstomo e vievìa, si accoppiàvano fra di loro,
moltiplicàvansi nel mio cervello e lo affogàvan nel nùmero. ¿Come mai
liberàrmene? Fermài di sfogarle in un libro che, usufruendo il mio stato,
riuscisse per quel periglio domèstico che è l'altra nostra metà, altrettanta
pasta badese. E in verità, l'ira mia congiunta all'ira già in campo, non può
non formare un terrìbile esèrcito. Scoprirò scelleràggini che le medèsime ree
non sospèttano manco, troverò frasi e parole da incenerirle issofatto.
Scandolezzando, ¡meglio! avrò giustamente colpito.
«Attènditi a grandi cose.»
Ma io scossi con diffidenza la testa. Non facèvano le brice di
lui a' mièi polli. Quel suo non trovare nella provvidenziale malvagità di una
Gilda argomenti bastèvoli a rimèttersi in bìlico, quel suo accattare difese
dagli altri, e difese che per èssere troppe s'impedìvan tra loro, mostràvano
chiaramente che, o il vecchio amore gli si ostinava nel cuore o che egli avèa
già esposto l'«affìttasi» per uno nuovo. Ed io mi consolài, riflettendo:
Primo; che, per un verso o per l'altro, avremmo un libro di
Nino. Anche gli errori, principalmente del genio, son degni di rispettosìssimo
studio, nè la menzogna potè mai contenersi se non in un vaso di verità.
Secondo; che i fatti nàscono continuamente a confusione delle teorìe. Il nuovo
inquilino nell'amor del mio amico non avrebbe molto tardato, e chi ha
esperienza in propòsito, sà che da questo al centesimo corre assài meno
distanza che non dal primo al secondo.
Difatti, a complemento di questa mia ùltima consolazione,
benché, ¡ahimè! a totale sterminio dell'altra, nel tèrmine di una settimana,
lessi di lui ciò che segue:
«¡O amico!
«¡Nunc scìo quod sit àmor! Colèi che sempre mancàvami, ho
finalmente trovato. Il mio cuore è gonfio, ha bisogno di espàndersi, di cantare
il Tedèum.
«¿A che narrarti la noja della via percorsa? La presente
immensa felicità cancella ogni orma faticata a raggiùngerla. Basta tu sappia
che non son più da mio zio, in quella bassura di prosa, spessàndomi
l'intelligenza in una pingue cucina o imputridèndomela in un cimitero di libri,
ma sono sul cùlmine di una montagna — lìbero come un poeta — presso un cuore
che batte in consonanza del mio.
«È una pastora, è un fiore gagliardo dell'Alpi. Io, che provai
l'amore morboso, comprendo ora il salubre. ¡O voi, ai quali più aggrada il
sasso malsagomato del greggio, venite a veder Cherubina! Quì, nulla di quei
sentimenti nati gualciti, di quell'istinto di frode, di quella fecondità di
bugìe, donde sono impastate le vostre cittadinuzze; tutto è fresco e sincero,, sguardo, labbro e coscienza non disaccòrdansi mai. Quì
nulla di quell'ipòcrita castimonia che rende odiosa l'onestà, ma il fidente
abbandono delle purìssime. Questi sì che son baci, baci porpurei, che
schiòccano, che làsciano il succio. Cherubina è affatto ignorante di tutta la
chincaglierìa delle graziette, delle smorfiuzze, dei complimenti, o in altre
parole, del galatèo cittadinesco della lussuria; pur sà qualcosa di meglio
tacere. Eloquenza di lei, l'innocenza. A duemila metri sul mare,
difficilmente và il vizio; esso non và che dove arrìvan carrozze. E parebbe che
Dio le avesse dato la voce, come agli augelli, solamente pel canto. Io ne odo,
mentre ti scrivo, le note campanine e squillanti, che fanno concerto tra rupe e
rupe, chiare come i zampilli della sua alpe, allegre come l'ànimo suo. ¡O
amico! ecco l'amore dagli ampi polmoni, e dall'orizzonte senza confini, cui le
montagne son stanza, e il sole lucerna. Ecco l'idillio...»
E lì Nino, diffùsosi alquanto su esso «idillio» nel gènere
Fontenelle ossìa da parafuoco, benché avesse del resto, per contrafforte, una
soda maschiotta
«assài bruna, grassoccia e
morbidina
come una quaglia con attorno
il latte»
conchiudeva:
«Ho risoluto di nobilitare al giardino questo fiore di campo.»
(¡addìo idìllica semplicità!) «Voglio educar Cherubina, per poterla poi dire
mia tutta. Oggi stesso comincio. Allorché, guancia a guancia, sederemo al
tramonto, le svelerò, in presenza dei cieli, il mistero dell'alfabeto.»
Sin quì, Nino. Ed io rimasi colla curiosità di sapere come
andrebbe quella prima lezione «in presenza de' cieli» e propriamente fino a
qual lettera. Nè molto aspettài. Me lo disse, il dì dopo, il seguente
biglietto:
«Carìssimo;
«spedìscimi, ti scongiuro, un bàrattolo di stafisagria.»
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