Il viso di Nino Fiore era in piena illuminazione. Ne' suoi
occhi ridenti si raddoppiava la stella di gasse, che nell'alto brillava; sulle
rosse sue guance, sulla punta del naso, nell'eburneo sorriso dei denti,
dardeggiàvano i lampi degli argentati e dei vetri, ond'era sparsa la tàvola,
benché il vero olio a tutta questa illuminazione gliel avesse fornito piuttosto
una fila di nere bottiglie, cinque come i birilli, e a bocca aperta come i
cadàveri. «¡O amico!» egli esclamò, porgèndomi di sopra la tàvola ambedùe le
mani, calde di onestà e di Barolo, «è il primo pranzo, in un anno, che m'abbia
fatto buon sangue. Mi par tornare, ti giuro, dalla Brianza.»
¿Eccome no? Non era lì a funestarlo con la velenosa sua ombra
quel manzanillo ambulante di Gea. Perocché Nino, fruga e rifruga, dopo quattro
amorose che non lo amàvano niente, ne avèa, per sua maggiore disgrazia, trovato
una quinta innamoratìssima. Una Gea, dico, gentile come il ginepro e i ricci
delle castagne, la quale, gelosa perfin degli amori ch'egli già avèa obliati,
sforzàvagli le serrature dello scrittojo e gli dissuggellava le lèttere, lo
spiava alla rima degli usci e lo braccava travestita in istrada; una Gea, che,
rotolata qual pomo della discordia tra i suòi amici e lui, non perché la
volèssero tutti, ma perché ella non volèa nessuno, gli proibiva, fuori,
l'altrùi compagnìa, toglièvagli in casa la propria, circondàvalo insomma di
quella permanente ostilità in cui ogni donna fedele non manca di tenere il suo
uomo. Nè crediate che l'uomo facesse quì almeno le mostre di èssere tale. Egli
si contentava, agli assalti della lingua di lei, di serrarsi le porte della
cittadella del capo, le rasciugava, quando poteva, le làgrime con qualche
taglio di veste, e, rispetto agli sgraffi, ci provvedeva con del taffetà. Poi
dicèa agli amici, tanto per iscusarsi «non nego, ella ha difettacci... ma, se
non altro, io posso infine gloriarmi che una donna mi ama. Ciò, per mè, non è
poco. E, del resto, vuòi l'abitùdine, la quale m'ha fatto di Gea un
indispensàbile incòmodo, vuòi la ragione dei dèbiti
così-detti d'onore, che òbbligano appunto per la mancanza
dell'òbbligo...» «Spòsala allora del tutto,» interrompevamo noi, «e
lìberatene.»
Comunque; pare che Nino avrebbe anche potuto far senza per
tutta la vita di un sìmile basto, per quanto imbottito d'amore, se il solo
deporlo qualch'ora, gli dava tanta allegrìa. E davvero, quella marinata di
scuola gli avèa rifatto l'umore. Nino dimenticava il morello de' pizzicotti e
si sentiva rimessi i tacchi nella sua stima, quantunque vantasse ciò a
mezzavoce e fra due tìmide occhiate.
Io intanto gli riempìi il bicchiere. Die' il vino un
risettuccio modesto, poi tornò serio; di quel serio, peraltro, ch'è f'atto di
giocondità, non di broncio.
«Oh come stò bene!» ripetè Nino con un sospiro di
soddisfacimento, brindeggiàndomi insieme dagli occhi e dal càlice. «¡Vèngano
ora tutte le Gee del mondo...! ¡Le sfido!»
¡Non l'avessi mai detto! Nel largo spiazzo dell'osterìa dove
noi sedevamo, si udì il ruotolìo di una carrozza a gran corsa. Ahimè! Pace non
venne mai così in fretta.
Ed ecco aprirsi con violenza lo sportello del brougham. Il
viso di Nino ridiventò opaco; la mano di lui ridepose il bicchiere.
Era lei. Stralunata, spettinata, col cappellino che le cadeva
da un lato e lo scialle dall'altro, non la mostrava da capo a piedi, nella sua
alta figura arsa di rabbia, un indizio che amore vi avesse, non dico già preso
stanza, ma fatto mai sosta. Per mè, anche a serva, le avrèi risposto un bel no.
«Ah, ècchete, brutto porco!» ella gridò, correndo a noi e
indicando con il ventaglio il mio pòvero amico, che invano cercava di
rannicchiare la confusione dietro una lunga bottiglia di Reno, come la gru
della fàvola; «¿è cquesto l'affare de promura? ¿è cquesta l'oretta e po' so' de
ritorno?» e dindonava la testa. «Ah, tu credevi de falla alla Gea? ¿de
scirpaije li sordi e annàtene 'n punta de piede, senza ch'er core me facessi la
spia? ¡Ppe santa Pizzuteta! ¡T'ensegnarò io a stane allegro ffora de ccasa!»
Nino fe', a lei, un supplichévole gesto che domandava perdono,
e un altro a mè che domandava soccorso; per cui: «Se c'è colpa, o signora,»
intervenni, «è mia tutta. Chi l'ha invitato sono io...»
«¿Vvoi? ¿chi ssete vvoi? ¿forzi quarcuno de quelli
sciampagnoni amichi sui che lo pòrtono via da lavorà, e je fanno sfruscià li
sartarelli in scarrozzate e bottije, come ssi llui fussi un Roscirde? ¡er
pòvero paino!... ¿Invità, dite vvoi?... ¡Accidenti alli vostri inviti!» e
agguantato, di colpo, due capi della tovaglia, strappò giù tutto, e vetri e
terraglie, aggiungendo superbamente, «so' rromana de Rroma, io!»
«¡Non fate scàndali!» esclamài, rattenendo, se non altro, la
tàvola.
«¡Li scànnoli li ffate vvoi!» ripetè l'infuriata. «¡Me furmini
Ddio ssi tutt 'sta roba nu' annava a finì in quarche ventraccia da cquattro
bajocchi!... ¡Badate be'! buggiaroni, che ssi ciò la corona, ciò anche er
cortello.»
«Oh tacete!» feci.
«¿Tacene io? er siggnor Iddìo 'un cià ddata la lingua pe' stà
zitti. Voijo parlà, strillà, finche ce perdo er fiato, voijo che tutto er monno
conoschi cquante profidie ha ignottite 'sta ciurcinata da cquer traditore
giudìo... Sì, dico a tè, sor Nino Fiore, che scrivi la llitteratura; a tè, che
ddopo d'avemme fatto pperde una profossione,» (¿che professione? pensài) «in
dove ce sarèi arriuscita una siconna Maribranne, perché ciavèo una vosce... 'un
fò pe' dì... una vosce,»e strillava da seggiolaja, «de sirafino; e ddopo
d'avemme arruvinata e fatto lassà i più bell'òmmini sposarecci de Rroma, assai
meijo spalluti e cquadrinosi de tè, come discèa la bonànima de mi madre, ¡ecco
cquane! me butti ner monezzaro, me butti, come li cocci d'un orinale. ¡E
managgia ssan Mucchione 'un ciò mai messo niente, io, ne li capelli a' sto
vassallo cane. Lo dichi llui, si j'avanza un po' de vverità in cquer coraccio
suo... ¡Parla, infame! ¿'un sso sempre stata una donna onorata, io?»
Nino alzò gli occhi verso la stella del gasse, come a dire:
¡pur troppo!
«Ebbè, in compenzo...» e lì parèa che la voce di Gea si
avvicinasse ai confini del tènero ed anche dell'ùmido; quando, mutato tuono di
botto «¡Su, mascarzone!» sclamò, afferrando per un braccio il mio amico. «¡Alò,
monta in botte!» e, tiràndoselo dietro, ché il vino di lui s'era vôlto in
tant'aqua, cacciollo nella carrozza e gli siedette alle coste.
Partìrono a precipizio.
Quanto a mè, rimanevo intontito come chi uscisse da una
batterìa di cannoni in salva o da un gioco di campane in volata. Senonché,
un'altra nota, meno sonora ma non men disgustosa, venne a ridarmi a' miei
cinque sensi — una nota, che un cameriere mi offriva sul più bel piatto
dell'osterìa (e intanto e' sorrideva, il furfante), scritta fittìssima, ma più
da vetrajo che da oste, e in cui, sull'imo della prima facciata, vedèvasi
calligraficamente un «di grazia, volti.»
Voltài.
Ci lìberi Iddìo da una fèmmina nostra — ed anche da una...
altrùi.
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