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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO SECONDO
      • Scena sesta - Una donna che ama.
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Scena sesta - Una donna che ama.

 

Il viso di Nino Fiore era in piena illuminazione. Ne' suoi occhi ridenti si raddoppiava la stella di gasse, che nell'alto brillava; sulle rosse sue guance, sulla punta del naso, nell'eburneo sorriso dei denti, dardeggiàvano i lampi degli argentati e dei vetri, ond'era sparsa la tàvola, benché il vero olio a tutta questa illuminazione gliel avesse fornito piuttosto una fila di nere bottiglie, cinque come i birilli, e a bocca aperta come i cadàveri. «¡O amico!» egli esclamò, porgèndomi di sopra la tàvola ambedùe le mani, calde di onestà e di Barolo, «è il primo pranzo, in un anno, che m'abbia fatto buon sangue. Mi par tornare, ti giuro, dalla Brianza

¿Eccome no? Non era a funestarlo con la velenosa sua ombra quel manzanillo ambulante di Gea. Perocché Nino, fruga e rifruga, dopo quattro amorose che non lo amàvano niente, ne avèa, per sua maggiore disgrazia, trovato una quinta innamoratìssima. Una Gea, dico, gentile come il ginepro e i ricci delle castagne, la quale, gelosa perfin degli amori ch'egli già avèa obliati, sforzàvagli le serrature dello scrittojo e gli dissuggellava le lèttere, lo spiava alla rima degli usci e lo braccava travestita in istrada; una Gea, che, rotolata qual pomo della discordia tra i suòi amici e lui, non perché la volèssero tutti, ma perché ella non volèa nessuno, gli proibiva, fuori, l'altrùi compagnìa, toglièvagli in casa la propria, circondàvalo insomma di quella permanente ostilità in cui ogni donna fedele non manca di tenere il suo uomo. crediate che l'uomo facesse quì almeno le mostre di èssere tale. Egli si contentava, agli assalti della lingua di lei, di serrarsi le porte della cittadella del capo, le rasciugava, quando poteva, le làgrime con qualche taglio di veste, e, rispetto agli sgraffi, ci provvedeva con del taffetà. Poi dicèa agli amici, tanto per iscusarsi «non nego, ella ha difettacci... ma, se non altro, io posso infine gloriarmi che una donna mi ama. Ciò, per , non è poco. E, del resto, vuòi l'abitùdine, la quale m'ha fatto di Gea un indispensàbile incòmodo, vuòi la ragione dei dèbiti così-detti d'onore, che òbbligano appunto per la mancanza dell'òbbligo...» «Spòsala allora del tutto,» interrompevamo noi, «e lìberatene

Comunque; pare che Nino avrebbe anche potuto far senza per tutta la vita di un sìmile basto, per quanto imbottito d'amore, se il solo deporlo qualch'ora, gli dava tanta allegrìa. E davvero, quella marinata di scuola gli avèa rifatto l'umore. Nino dimenticava il morello de' pizzicotti e si sentiva rimessi i tacchi nella sua stima, quantunque vantasse ciò a mezzavoce e fra due tìmide occhiate.

Io intanto gli riempìi il bicchiere. Die' il vino un risettuccio modesto, poi tornò serio; di quel serio, peraltro, ch'è f'atto di giocondità, non di broncio.

«Oh come stò beneripetè Nino con un sospiro di soddisfacimento, brindeggiàndomi insieme dagli occhi e dal càlice. «¡Vèngano ora tutte le Gee del mondo...! ¡Le sfido

¡Non l'avessi mai detto! Nel largo spiazzo dell'osterìa dove noi sedevamo, si udì il ruotolìo di una carrozza a gran corsa. Ahimè! Pace non venne mai così in fretta.

Ed ecco aprirsi con violenza lo sportello del brougham. Il viso di Nino ridiventò opaco; la mano di lui ridepose il bicchiere.

Era lei. Stralunata, spettinata, col cappellino che le cadeva da un lato e lo scialle dall'altro, non la mostrava da capo a piedi, nella sua alta figura arsa di rabbia, un indizio che amore vi avesse, non dico già preso stanza, ma fatto mai sosta. Per , anche a serva, le avrèi risposto un bel no.

«Ah, ècchete, brutto porco!» ella gridò, correndo a noi e indicando con il ventaglio il mio pòvero amico, che invano cercava di rannicchiare la confusione dietro una lunga bottiglia di Reno, come la gru della fàvola; «¿è cquesto l'affare de promura? ¿è cquesta l'oretta e po' so' de ritorno?» e dindonava la testa. «Ah, tu credevi de falla alla Gea? ¿de scirpaije li sordi e annàtene 'n punta de piede, senza ch'er core me facessi la spia? ¡Ppe santa Pizzuteta! ¡T'ensegnarò io a stane allegro ffora de ccasa

Nino fe', a lei, un supplichévole gesto che domandava perdono, e un altro a che domandava soccorso; per cui: «Se c'è colpa, o signoraintervenni, «è mia tutta. Chi l'ha invitato sono io...»

«¿Vvoi? ¿chi ssete vvoi? ¿forzi quarcuno de quelli sciampagnoni amichi sui che lo pòrtono via da lavorà, e je fanno sfruscià li sartarelli in scarrozzate e bottije, come ssi llui fussi un Roscirde? ¡er pòvero paino!... ¿Invità, dite vvoi?... ¡Accidenti alli vostri inviti!» e agguantato, di colpo, due capi della tovaglia, strappò giù tutto, e vetri e terraglie, aggiungendo superbamente, «so' rromana de Rroma, io!»

«¡Non fate scàndaliesclamài, rattenendo, se non altro, la tàvola.

«¡Li scànnoli li ffate vvoiripetè l'infuriata. «¡Me furmini Ddio ssi tutt 'sta roba nu' annava a finì in quarche ventraccia da cquattro bajocchi!... ¡Badate be'! buggiaroni, che ssi ciò la corona, ciò anche er cortello

«Oh tacetefeci.

«¿Tacene io? er siggnor Iddìo 'un cià ddata la lingua pe' stà zitti. Voijo parlà, strillà, finche ce perdo er fiato, voijo che tutto er monno conoschi cquante profidie ha ignottite 'sta ciurcinata da cquer traditore giudìo... Sì, dico a , sor Nino Fiore, che scrivi la llitteratura; a , che ddopo d'avemme fatto pperde una profossione,» (¿che professione? pensài) «in dove ce sarèi arriuscita una siconna Maribranne, perché ciavèo una vosce... 'un pe' ... una vosce,»e strillava da seggiolaja, «de sirafino; e ddopo d'avemme arruvinata e fatto lassà i più bell'òmmini sposarecci de Rroma, assai meijo spalluti e cquadrinosi de , come discèa la bonànima de mi madre, ¡ecco cquane! me butti ner monezzaro, me butti, come li cocci d'un orinale. ¡E managgia ssan Mucchione 'un ciò mai messo niente, io, ne li capelli a' sto vassallo cane. Lo dichi llui, si j'avanza un po' de vverità in cquer coraccio suo... ¡Parla, infame! ¿'un sso sempre stata una donna onorata, io?»

Nino alzò gli occhi verso la stella del gasse, come a dire: ¡pur troppo!

«Ebbè, in compenzo...» e parèa che la voce di Gea si avvicinasse ai confini del tènero ed anche dell'ùmido; quando, mutato tuono di botto «¡Su, mascarzonesclamò, afferrando per un braccio il mio amico. «¡Alò, monta in botte!» e, tiràndoselo dietro, ché il vino di lui s'era vôlto in tant'aqua, cacciollo nella carrozza e gli siedette alle coste.

Partìrono a precipizio.

Quanto a , rimanevo intontito come chi uscisse da una batterìa di cannoni in salva o da un gioco di campane in volata. Senonché, un'altra nota, meno sonora ma non men disgustosa, venne a ridarmi a' miei cinque sensi — una nota, che un cameriere mi offriva sul più bel piatto dell'osterìa (e intanto e' sorrideva, il furfante), scritta fittìssima, ma più da vetrajo che da oste, e in cui, sull'imo della prima facciata, vedèvasi calligraficamente un «di grazia, volti

Voltài.

Ci lìberi Iddìo da una fèmmina nostra — ed anche da una... altrùi.


 




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