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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO SECONDO
      • Scena sèttima - Il testamento del signor zio.
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Scena sèttima - Il testamento del signor zio.

 

Èccoci in uno di quelli antri di stregone incivilito dal sentor misto d'inchiostro, topo morto e tabacco, dove si pèrpetrano spesso, con ogni formalità voluta dalla legge, atti che sono reati, o in altre parole, impunemente si uccide perché le armi son di misura. Trè calotte con fiocco e con testa, trè penne, tutt'e trè d'oca, dòndolano e strìdono a un lungo scrittojo di cui sònosi fatta parte accessoria, mettendo in bella le birberìe del principale. E allorché i becchi delle trè penne picchièttano contemporaneamente nei loro negri abbeveratòi, sei occhiettucci danno uno sguardo di maliziosa miopìa a un personaggio, che dal far meno di essi ci si palesa per qualche cosa di più, il quale, dinanzi a uno specchio che gli ritorna una faccia imbellettata dove impiàntasi un naso che sembra affetto da satirìasi e contorno un nastro di barba dai riflessi dell'arcobaleno, ora si accòmoda un mazzo di rose allo sparato del gilè, ora con un pettinino chiama i capelli della nuca in soccorso della sincipitale calvizie, e si pavoneggia e molleggia sulle sue scarpe cricchianti, facendo spiccato contrasto a quell'altro uomo (o a meglio dire scorcio di uomo) dal viso giallo e grinzuto e dalli scarsi baffucci da nessuno unto ingrassati, che noi vediamo seduto in un àngolo dello studio, tìmido nella miseria, benché alla dolentìssima aria ed all'àbito nero si direbbe un erede.

Ma un erede, forse, non è. Il suo interno colore assomìgliasi troppo all'esterno. Inutilmente egli si ripetendo di èssere il solo nipote di quel monsignore Speranzi, del quale si leggerà il testamento,, i suòi capelli non ne divèntano meno grigi. Gnogno rinuncerebbe a dieci anni per avere già udito il cric dei cinque neri sigilli del largo piego, che — latente delittobiancheggia sul verde tappeto del tàvolo notarile, e per trovarsi di della temuta lettura e correre a casa e còrrer d'un fiato sino al quinto suo piano, gridando alla trèpida moglie che viènegli incontro con un bimbo sparuto «possiamo dargli dei fratellini.» Ma se la speranza saliva lentissimamente, qual colma secchia, nel cuore di lui,, giunta all'orlo, sfuggìvagli e ritonfava precipitosa. Egli guardava il suo àbito, che quantunque la mamma gli avesse, un tempo, cucito il più possìbile angusto, gli si facèa di giorno in giorno più còmodo; àbito, lògoro dal diserrarsi gomitoni la strada, che parèa volesse tornare in matassa e rammentàvagli continuamente «io non vesto ragioni»; ei si guardava le scarpe, ùnica parte che in lui sorridesse, scarpe alle quali si sarèbber potuto tagliare le unghie e cui serviva da ciabattino l'inchiostro, e la pietà ch'ei di sé stesso provava, sembràvagli, quasi, pietà dello zio; ma sì tosto il pensiero che tale zio, in vita, non gli era mai stato clemente nemmeno di una agugliata di filo per rattopparsi, soffocava in bocciuolo l'allarga-polmone sospiro e gli riempiva col sangue delle ferite dell'ànima le mille righe del viso. Eppure, per quanto cupa una vita, rado è che non abbia due luminosi momenti, come appunto succede nel matrimonio, cioè l'entrata e l'uscita. Era difatti incredìbile, che un sacerdote morente potesse rammentare con astio qualcuno, fosse pure un nipote. Gnogno ne era il solo continuatore del nome e delle sembianze; di più, era pòvero, càrico di famiglia... e la secchia della speranza rigalleggiàvagli in cuore. Ma e allora, ¿perché lo zio non avèalo mai, quand'anche non ajutato a portare la soma della miseria, almeno incuorato con qualche «arrì» di promessa? ¡O prete, troppo servo di Dio per avanzarti mai tempo di servire agli uòmini, al tuo funerale non lagrimàvano che le candele! E invano, il nipote, cercava di rattenere la fuggèvole speme, invocando il ricordo dell'ora suprema del suo pòvero babbo, quando il canònico si era seduto la prima volta, al fraterno giaciglio, ed era parso commosso. ¡In verità, una bella commozione! ché, intanto, la vèdova madre di Gnogno avèa dovuto impegnare gli ùltimi ori al cognato, perché costùi sepelisse il fratello per carità; mentre poi la sua giòvane moglie, alla quale lo zio mostrava sul primo una spece di benevolenza, dàndole spesso della biancherìa... a stirare, dichiarava al marito che in casa di monsignore, sola, non avrebbe messo più piede. il terrìbile zio era uomo da perdonare a chi egli avesse oltraggiato. ¡Parentela, amicizia, pietà! vacui nomi: tutto cadeva dinanzi al suo Dio, al suo ventre e ad una servaccia formicolante di vènere guasta, sboccata come un boccal di taverna, sola persona ch'egli potesse soffrire, perché da tutti abborrita.

Ma ecco... uno scampanellìo improvviso.

Il dottore Tobìa Migliacca precìpita all'uscio e scompare. Tanta la pressa, che, rasentando il nipote Speranzi, lo ha urtato gli ha chiesto perdono.

E la porta si riapre. I trè pagnottisti si àlzano, la penna d'oca all'orecchio, i pugni allo scrittojo, inchinàndosi rispettosi. Entra Innocentina Succhia, la serva, appoggiata sdolcinatamente al braccio del galante notajo, tutta piume e bindelli, tutta puzze e colori, in una toletta che avrebbe spaventato una vacca, con li orecchini della mamma di Gnogno e una miniatura del morto sul petto, e, quel ch'è peggio, una grinta di oltraggioso trionfo. Giammài la malvagità era apparsa con una più sincera espressione.

Parèa peraltro che dalla faccia di lei il dottore Migliacca, forse perché abituato alla propria, non risentisse troppo disgusto. Il rùvido sacco non i marenghi men mòrbidi. Il notajo condusse elegantemente la serva a un poltronone, dov'ella si accomodò, distendèndosi intorno le ampie balzane, e insinuolle sotto le piote lo sgabelletto e le offerse il mazzo di rose, dicendo «bellìssima e preziosìssima padrona mia... Donna Innocenza...»

Al che, lusingata, la serva cercò di produrre il suo più grazioso sorriso, ma, come la immonda bocca le si contrasse oltre il decente, dovette affrettarsi a dissimularne la oscèdine, applicàndovi il mànico del suo ombrellino scolpito a testa di pàssero.

¡Pòvero Gnogno! Dio faccia ch'io sbagli — ma il tuo àbito lìso t'ha a rimanere — ¡chissà ancora per quanto! — l'àbito della domènica.


 




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