Èccoci in uno di quelli antri di stregone incivilito dal
sentor misto d'inchiostro, topo morto e tabacco, dove si pèrpetrano spesso, con
ogni formalità voluta dalla legge, atti che sono reati, o in altre parole,
impunemente si uccide perché le armi son di misura. Trè calotte con fiocco e
con testa, trè penne, tutt'e trè d'oca, dòndolano e strìdono a un lungo
scrittojo di cui sònosi fatta parte accessoria, mettendo in bella le birberìe
del principale. E allorché i becchi delle trè penne picchièttano
contemporaneamente nei loro negri abbeveratòi, sei occhiettucci danno uno
sguardo di maliziosa miopìa a un personaggio, che dal far meno di essi ci si
palesa per qualche cosa di più, il quale, dinanzi a uno specchio che gli
ritorna una faccia imbellettata dove impiàntasi un naso che sembra affetto da
satirìasi e fà contorno un nastro di barba dai riflessi dell'arcobaleno, ora si
accòmoda un mazzo di rose allo sparato del gilè, ora con un pettinino chiama i
capelli della nuca in soccorso della sincipitale calvizie, e si pavoneggia e
molleggia sulle sue scarpe cricchianti, facendo spiccato contrasto a
quell'altro uomo (o a meglio dire scorcio di uomo) dal viso giallo e grinzuto e
dalli scarsi baffucci da nessuno unto ingrassati, che noi vediamo seduto in un
àngolo dello studio, tìmido nella miseria, benché alla dolentìssima aria ed
all'àbito nero si direbbe un erede.
Ma un erede, forse, non è. Il suo interno colore assomìgliasi
troppo all'esterno. Inutilmente egli si và ripetendo di èssere il solo nipote
di quel monsignore Speranzi, del quale si leggerà il testamento,, i suòi capelli non ne divèntano meno grigi. Gnogno
rinuncerebbe a dieci anni per avere già udito il cric dei cinque neri sigilli
del largo piego, che — latente delitto — biancheggia sul verde tappeto del
tàvolo notarile, e per trovarsi di là della temuta lettura e correre a casa e còrrer
d'un fiato sino al quinto suo piano, gridando alla trèpida moglie che viènegli
incontro con un bimbo sparuto «possiamo dargli dei fratellini.» Ma se la
speranza saliva lentissimamente, qual colma secchia, nel cuore di lui,, giunta all'orlo, sfuggìvagli e ritonfava precipitosa.
Egli guardava il suo àbito, che quantunque la mamma gli avesse, un tempo,
cucito il più possìbile angusto, gli si facèa di giorno in giorno più còmodo;
àbito, lògoro dal diserrarsi gomitoni la strada, che parèa volesse tornare in matassa
e rammentàvagli continuamente «io non vesto ragioni»; ei si guardava le scarpe,
ùnica parte che in lui sorridesse, scarpe alle quali si sarèbber potuto
tagliare le unghie e cui serviva da ciabattino l'inchiostro, e la pietà ch'ei
di sé stesso provava, sembràvagli, quasi, pietà dello zio; ma sì tosto il
pensiero che tale zio, in vita, non gli era mai stato clemente nemmeno di una
agugliata di filo per rattopparsi, soffocava in bocciuolo
l'allarga-polmone sospiro e gli riempiva col sangue delle
ferite dell'ànima le mille righe del viso. Eppure, per quanto cupa una vita,
rado è che non abbia due luminosi momenti, come appunto succede nel matrimonio,
cioè l'entrata e l'uscita. Era difatti incredìbile, che un sacerdote morente
potesse rammentare con astio qualcuno, fosse pure un nipote. Gnogno ne era il
solo continuatore del nome e delle sembianze; di più, era pòvero, càrico di
famiglia... e la secchia della speranza rigalleggiàvagli in cuore. Ma e allora,
¿perché lo zio non avèalo mai, quand'anche non ajutato a portare la soma della
miseria, almeno incuorato con qualche «arrì» di promessa? ¡O prete, troppo
servo di Dio per avanzarti mai tempo di servire agli uòmini, al tuo funerale
non lagrimàvano che le candele! E invano, il nipote, cercava di rattenere la
fuggèvole speme, invocando il ricordo dell'ora suprema del suo pòvero babbo,
quando il canònico si era seduto la prima volta, al fraterno giaciglio, ed era
parso commosso. ¡In verità, una bella commozione! ché, intanto, la vèdova madre
di Gnogno avèa dovuto impegnare gli ùltimi ori al cognato, perché costùi
sepelisse il fratello per carità; mentre poi la sua giòvane moglie, alla quale
lo zio mostrava sul primo una spece di benevolenza, dàndole spesso della
biancherìa... a stirare, dichiarava al marito che in casa di monsignore, sola,
non avrebbe messo più piede. Nè il terrìbile zio era uomo da perdonare a chi
egli avesse oltraggiato. ¡Parentela, amicizia, pietà! vacui nomi: tutto cadeva
dinanzi al suo Dio, al suo ventre e ad una servaccia formicolante di vènere
guasta, sboccata come un boccal di taverna, sola persona ch'egli potesse
soffrire, perché da tutti abborrita.
Ma ecco... uno scampanellìo improvviso.
Il dottore Tobìa Migliacca precìpita all'uscio e scompare.
Tanta la pressa, che, rasentando il nipote Speranzi, lo ha urtato nè gli ha
chiesto perdono.
E la porta si riapre. I trè pagnottisti si àlzano, la penna
d'oca all'orecchio, i pugni allo scrittojo, inchinàndosi rispettosi. Entra
Innocentina Succhia, la serva, appoggiata sdolcinatamente al braccio del
galante notajo, tutta piume e bindelli, tutta puzze e colori, in una toletta
che avrebbe spaventato una vacca, con li orecchini della mamma di Gnogno e una
miniatura del morto sul petto, e, quel ch'è peggio, una grinta di oltraggioso
trionfo. Giammài la malvagità era apparsa con una più sincera espressione.
Parèa peraltro che dalla faccia di lei il dottore Migliacca,
forse perché abituato alla propria, non risentisse troppo disgusto. Il rùvido
sacco non fà i marenghi men mòrbidi. Il notajo condusse elegantemente la serva
a un poltronone, dov'ella si accomodò, distendèndosi intorno le ampie balzane,
e insinuolle sotto le piote lo sgabelletto e le offerse il mazzo di rose,
dicendo «bellìssima e preziosìssima padrona mia... Donna Innocenza...»
Al che, lusingata, la serva cercò di produrre il suo più
grazioso sorriso, ma, come la immonda bocca le si contrasse oltre il decente,
dovette affrettarsi a dissimularne la oscèdine, applicàndovi il mànico del suo
ombrellino scolpito a testa di pàssero.
¡Pòvero Gnogno! Dio faccia ch'io sbagli — ma il tuo àbito lìso
t'ha a rimanere — ¡chissà ancora per quanto! — l'àbito della domènica.
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