Quella notte, i finestroni ogivali della torre maestra di
Rocca Adelardi splendèvano. L'attardato villano, che vi passava rasente colla
paura alla strozza, batteva via lesto, facèndosi il segno di croce.
Ché, sulla torre e i suòi lumi giràvano le dicerìe più
turchine. Anzitutto, la apparteneva alla duchessa di Stabia, quell'Elda, che
con un altro cognome ma colla stessa mortezza di viso e li stessi occhi
grigìssimi e morsicanti e le tùmide labbra e il seno profondo, abbiamo
incontrato più volte. Anche la moneta di lei avèa potuto trovare chi dàvale il
conio per còrrere liberamente, nè a ciò avèa concorso una zecca ma due, perché
la nostra fanciulla, maritàtasi già per isvista, come sappiamo, a un fiore di
uomo e di pòvero, se n'era tosto, con una querela di solenne impotenza,
sbrigata, per dar l'ùltimo crollo ad un vecchio, cârco di colpe e milioni e per
rimanere di questi, in un medèsimo tempo, sposa, vèdova, erede. Fu allora come
lo scoppio di una polveriera. Sfolgorante di gioventù e di bellezza, con un
diàvolo di lussuria per capello, col patrocinio di un nome illustrìssimo e una
ricchezza che ogni virtù poteva comprare e scusare ogni vizio, Elda, sfondato
il cerchio di carta dei pregiudizi, si credè tutto permesso. Nè ella era di
quelle delicatine che intrattèngono amanti, come l'analfabeta terrebbe
biblioteche, per pura ostentazione, o di quell'altre, che pur leggèndone
qualche pàgina, fanno ciò con riguardi e col batticuore, tìmide sfacciatelle
dai baci a mezza bocca e dagli abbracci flosci, e neanche di quelle che si fan
strapregare per quanto hanno ùzzolo, o pìgliano sempre non dando mai, o
vògliono (che è peggio ancora) passare per peccatrici senz'èsserlo. Elda invece
lo era franchissimamente, in piena buona fede, nella maggiore estensione del
tèrmine. Tenèa fame di uomo, come altri di cibo. Al solo odore di maschio
entrava in furore come una gatta ai profumi. Aborrìa qualunque rettòrica
lungherìa, qualunque circonlocuzione pudica, qualunque vergogna, eccetto quella
di castità; diciàmolo anzi, èrale odioso una sola spece di amore, l'amor senza
scàndalo. Chi non mi crede, s'informi. Ci ha pochi di mia conoscenza che non le
àbbiano dato, almeno una volta, del tù, tanto che Elda, narrando i densi amori
di lei, dicèa: «la tale università, il reggimento talaltro.» Uno, che avesse
varcato le soglie della sua casa, dovèa èssere a tutto disposto. O si fosse
sgrossati con il falcetto o raffinati col temperino; si fosse o marci come
selvàtici o acerbi quài cetrioli, ella dava a chiunque ospitalità e da tutte le
parti. Preferiva, peraltro, la cipolla al tartufo; cioè le garbava l'amore che
odorasse un pochetto di lavandino o di stalla; e però i suòi domèstici èrano
gente atticciata, dal collo toroso e dalle spalle quadre; non persone, stature;
che ella solo ingaggiava — nuova Marulla — dopo di averli ben soppesati; poi,
se la notte, nel riveder la coscienza, la si trovava, con istupore, colpèvole
di nessuna colpa, e, incominciata a inquietarsi della anormale sua castità
(poiché Natura, disse la fìsica antica, abhòrret a vacuo) finiva col
spaventàrsene e accendèvasele il sangue — mandava tosto in scuderìa o in cucina
pel primo che capitasse o lavapiatti o scozzone, salvo a cacciarlo, lì sui due
piedi, dal tàlamo e di palazzo, se il pòvero stipendiato vicemarito, nel
contentarla, dimenticava di chiamarla «eccellenza.» — Delle sue pazze, delle
sue cupe avventure ne ribòccan le terre. Elda, come la lupa di Ezechìel
divaricàvit tìbias suas sub omni àrbore. E noi udimmo di bagni di vino del Reno
in cui s'immergeva in presenza dell'amoroso suo esèrcito e di pose a modella,
nuda su neri lini, in mezzo a un cerchio di artisti moltiplicanti nelle tele e
nei marmi le frìniche forme e la lascivia di lei; e udimmo di quando,
introdòttasi negli alberghi qual cameriera per le nuove sposine, ne corrompeva
i mariti, o in panni maschili (che le si facèvano stupendamente) scalava,
nell'ora in cui la polizìa dorme e i ladri son svêgli, le finestruole e la
santità dei seminaristi o sforzava i bordelli, dove la notte prima, sotto un
nome lupario, vi avèa allargato le ingorde coscie, spadaccinando colle pattuglie
o schiaffeggiando e uccidendo in duello chi osava mancarle mai di rispetto col
rispettarla; udimmo infine di idilli sulle montagne, alternante adulteri fra i
pastori e il lor gregge, e di orge in riva ad un lago, nelle quali si
baccheggiava in cristalline oscenità e si tentava, fin col sapore dei cibi (in
fogge da disgraziarne Giulio Romano e Pietro Aretino) che anche il palato
partecipasse ai peccati degli occhi, orge che finìvano poi in un manìaco
tumulto, scagliàndosi tutto dalle terrazze nel lago, e vasellame ed arredi,
senza che la principesca prodigalità del conte di Angera fosse quì accolta e
salvata dalle reti sparagne del Borromèo mercante. Ma un ducale armellino può
celare ogni infamia; ma la medèsima perversità è spesso, in una gran dama, la
principale attrattiva; ma la canaglia in frustagno, ammessa a visitare le sale
insudiciate dalla canaglia in velluto,, allo Champagne riveduto sugli
ori, all'infranto Murano, al lacerato Arras, colta da meraviglia, tacitamente
adorava.
Senonché, tratto tratto, nel bujo della libìdine di Elda
s'intrometteva qualche lampo di amore. Èrano, questi, ripiani dov'ella
riagglomerava le forze a salire. ¡Guài allora a colùi sul quale il suo occhio
avesse imperioso insistito, mentre il pallore di lei facèvasi cadavèrico e la
espressione più ancor sinistra del sòlito! Per quell'infelice non era più
scampo. Elda non conosceva barriere. Pur si trattasse di scompigliare la pace
di cento famiglie, di rovinarle, annientarle, ella correva a colùi, lo
circondava e avvolgèa ne' lussureggianti suòi fianchi, nelle sue spire da
serpentessa, nell'assorbente suo àlito, finché, abbacinato, ubbriaco, il
coniglio precipitàvale in bocca. E fra le sue molte passioni, cìtano quella per
una celebrità della gola, per un Gennaro Stornelli detto «il divino usignuolo,»
la cui voluttuosìssima voce invadeva le ànime e al quale Elda avèa, dal proprio
palchetto, gettato entusiasta le rose e i giojelli del capo, i braccialetti, il
ventaglio, il borsello, e dietro le quinte, sé stessa. Per sua sventura,
Gennaro le resisteva. ¡Aquavite sul fuoco! ¡carne salata alla sete!... Elda non
gli diede più tregua; lo inseguì supplicante con la spada sguainata,
perseguitollo della incessabile smania fin nelle Amèriche, si cangiò da
duchessa in corista, riuscì a scritturarsi con lui, a cantare con lui, a farsi,
abbracciàndolo scandalosamente in pieno teatro, cacciare seco dai palchi. Il
tenore fu vinto. La duchessa non lo abbandonò più, lo rimorchiò trionfante in
Europa, si dedicò tutta — ella cui fino il pasto affamava, nè dieci Pròcoli
imperatori avrèbber saziata — al di lui ùnico amore. ¡O deprecàbile fedeltà! ¡o
malaugurata fortuna! ¡o vulvea rabbia! ¡o cantàridi! Ei ben presto cadeva,
senza voce e midolle, fra le incontentàbili braccia.
Qual pianto, quale disperazione accompagnasse la fine immatura
del «divino usignuolo» è più fàcile a dire che a crèdersi. La morte in Grecia
di Adone fu a paragone una festa. Elda coniò il suo furioso dolore in ogni
metallo, lo scolpì, lo stampò, lo dipinse; lo affisse su tutti i muri, lo
trascinò per tutte le vie della città, fra l'àrder fumoso dei ceri e
l'imperversare delle campane, fra il pèndere a bruno delle bandiere e il tuonar
del cannone, rullando cupi i tamburi, stridendo le trombe e miagolando le
vèrgini — in un funerale lungo parecchie miglia, di cui prima parte era lei,
asiaticamente sdrajata nel suo carrozzone di pompa, in gran toletta di lutto, e
con al fianco un cicisbèo di consolazione, negro.
E, dopo due dì dal mortorio, così contàvano i vìllici di Rocca
Adelardi, era venuta alla Rocca una squadra di apparatori con candelabri ed
addobbi e tanta gramaglia da tappezzarne, entro e fuori, la chiesa della
parrocchia. Le vuote occhiaje della torre maestra avèano allora riavuto le loro
pupille di vetro. E, di lì una settimana, una notte, appariva un'ampia berlina
a quattro neri cavalli coi postiglioni abbrunati, donde scendèa Sua Eccellenza
di Stabia insieme a una bara e a un certo uomo grigio pien di mistero, cui il
signor farmacista si ricordava di avere altre volte fornita la stoppa da
imbalsamare il mastino del feld-maresciallo Radetsky.
D'allora a noi, cinque anni. E tutti e cinque, a dì 10 di
ottobre, anniversario del lutto, la duchessa di Stabia ricompariva alla Rocca,
a cavallo, al galoppo, spaventando di mezzo la strada ànitre e bimbi — tra i
riverenti cappelli e gli occhi sbircianti paurosi l'annuvolato suo volto —
seguita a non breve distanza da un sempre nuovo staffiere, ma sempre
(osservàvano le forosette) bene condizionato.
Quella notte, i finestroni ogivali della torre maestra
s'illuminàvano.
E la mattina seguente, Elda sedeva a far colazione faccia
faccia collo staffiere, che il giorno prima l'avèa servita rispettosamente a
pranzo. La duchessa parèa già consolata. Brillàvale fornicazione lo sguardo, e
sghignazzando della capreggiante sua voce, versava con mano incitatrice da bere
al commensale di lei. Ma il commensale tremava nel porsi alle labbra il
bicchiere. Due lìvidi segni di accusa gli sottolineàvano gli occhi.
|