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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO SECONDO
      • Scena ottava - Tana di lupa.
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Scena ottava - Tana di lupa.

 

Quella notte, i finestroni ogivali della torre maestra di Rocca Adelardi splendèvano. L'attardato villano, che vi passava rasente colla paura alla strozza, batteva via lesto, facèndosi il segno di croce.

Ché, sulla torre e i suòi lumi giràvano le dicerìe più turchine. Anzitutto, la apparteneva alla duchessa di Stabia, quell'Elda, che con un altro cognome ma colla stessa mortezza di viso e li stessi occhi grigìssimi e morsicanti e le tùmide labbra e il seno profondo, abbiamo incontrato più volte. Anche la moneta di lei avèa potuto trovare chi dàvale il conio per còrrere liberamente, a ciò avèa concorso una zecca ma due, perché la nostra fanciulla, maritàtasi già per isvista, come sappiamo, a un fiore di uomo e di pòvero, se n'era tosto, con una querela di solenne impotenza, sbrigata, per dar l'ùltimo crollo ad un vecchio, cârco di colpe e milioni e per rimanere di questi, in un medèsimo tempo, sposa, vèdova, erede. Fu allora come lo scoppio di una polveriera. Sfolgorante di gioventù e di bellezza, con un diàvolo di lussuria per capello, col patrocinio di un nome illustrìssimo e una ricchezza che ogni virtù poteva comprare e scusare ogni vizio, Elda, sfondato il cerchio di carta dei pregiudizi, si credè tutto permesso. ella era di quelle delicatine che intrattèngono amanti, come l'analfabeta terrebbe biblioteche, per pura ostentazione, o di quell'altre, che pur leggèndone qualche pàgina, fanno ciò con riguardi e col batticuore, tìmide sfacciatelle dai baci a mezza bocca e dagli abbracci flosci, e neanche di quelle che si fan strapregare per quanto hanno ùzzolo, o pìgliano sempre non dando mai, o vògliono (che è peggio ancora) passare per peccatrici senz'èsserlo. Elda invece lo era franchissimamente, in piena buona fede, nella maggiore estensione del tèrmine. Tenèa fame di uomo, come altri di cibo. Al solo odore di maschio entrava in furore come una gatta ai profumi. Aborrìa qualunque rettòrica lungherìa, qualunque circonlocuzione pudica, qualunque vergogna, eccetto quella di castità; diciàmolo anzi, èrale odioso una sola spece di amore, l'amor senza scàndalo. Chi non mi crede, s'informi. Ci ha pochi di mia conoscenza che non le àbbiano dato, almeno una volta, del , tanto che Elda, narrando i densi amori di lei, dicèa: «la tale università, il reggimento talaltro.» Uno, che avesse varcato le soglie della sua casa, dovèa èssere a tutto disposto. O si fosse sgrossati con il falcetto o raffinati col temperino; si fosse o marci come selvàtici o acerbi quài cetrioli, ella dava a chiunque ospitalità e da tutte le parti. Preferiva, peraltro, la cipolla al tartufo; cioè le garbava l'amore che odorasse un pochetto di lavandino o di stalla; e però i suòi domèstici èrano gente atticciata, dal collo toroso e dalle spalle quadre; non persone, stature; che ella solo ingaggiavanuova Marulla — dopo di averli ben soppesati; poi, se la notte, nel riveder la coscienza, la si trovava, con istupore, colpèvole di nessuna colpa, e, incominciata a inquietarsi della anormale sua castità (poiché Natura, disse la fìsica antica, abhòrret a vacuo) finiva col spaventàrsene e accendèvasele il sanguemandava tosto in scuderìa o in cucina pel primo che capitasse o lavapiatti o scozzone, salvo a cacciarlo, sui due piedi, dal tàlamo e di palazzo, se il pòvero stipendiato vicemarito, nel contentarla, dimenticava di chiamarla «eccellenza.» — Delle sue pazze, delle sue cupe avventure ne ribòccan le terre. Elda, come la lupa di Ezechìel divaricàvit tìbias suas sub omni àrbore. E noi udimmo di bagni di vino del Reno in cui s'immergeva in presenza dell'amoroso suo esèrcito e di pose a modella, nuda su neri lini, in mezzo a un cerchio di artisti moltiplicanti nelle tele e nei marmi le frìniche forme e la lascivia di lei; e udimmo di quando, introdòttasi negli alberghi qual cameriera per le nuove sposine, ne corrompeva i mariti, o in panni maschili (che le si facèvano stupendamente) scalava, nell'ora in cui la polizìa dorme e i ladri son svêgli, le finestruole e la santità dei seminaristi o sforzava i bordelli, dove la notte prima, sotto un nome lupario, vi avèa allargato le ingorde coscie, spadaccinando colle pattuglie o schiaffeggiando e uccidendo in duello chi osava mancarle mai di rispetto col rispettarla; udimmo infine di idilli sulle montagne, alternante adulteri fra i pastori e il lor gregge, e di orge in riva ad un lago, nelle quali si baccheggiava in cristalline oscenità e si tentava, fin col sapore dei cibi (in fogge da disgraziarne Giulio Romano e Pietro Aretino) che anche il palato partecipasse ai peccati degli occhi, orge che finìvano poi in un manìaco tumulto, scagliàndosi tutto dalle terrazze nel lago, e vasellame ed arredi, senza che la principesca prodigalità del conte di Angera fosse quì accolta e salvata dalle reti sparagne del Borromèo mercante. Ma un ducale armellino può celare ogni infamia; ma la medèsima perversità è spesso, in una gran dama, la principale attrattiva; ma la canaglia in frustagno, ammessa a visitare le sale insudiciate dalla canaglia in velluto,, allo Champagne riveduto sugli ori, all'infranto Murano, al lacerato Arras, colta da meraviglia, tacitamente adorava.

Senonché, tratto tratto, nel bujo della libìdine di Elda s'intrometteva qualche lampo di amore. Èrano, questi, ripiani dov'ella riagglomerava le forze a salire. ¡Guài allora a colùi sul quale il suo occhio avesse imperioso insistito, mentre il pallore di lei facèvasi cadavèrico e la espressione più ancor sinistra del sòlito! Per quell'infelice non era più scampo. Elda non conosceva barriere. Pur si trattasse di scompigliare la pace di cento famiglie, di rovinarle, annientarle, ella correva a colùi, lo circondava e avvolgèa ne' lussureggianti suòi fianchi, nelle sue spire da serpentessa, nell'assorbente suo àlito, finché, abbacinato, ubbriaco, il coniglio precipitàvale in bocca. E fra le sue molte passioni, cìtano quella per una celebrità della gola, per un Gennaro Stornelli detto «il divino usignuolo,» la cui voluttuosìssima voce invadeva le ànime e al quale Elda avèa, dal proprio palchetto, gettato entusiasta le rose e i giojelli del capo, i braccialetti, il ventaglio, il borsello, e dietro le quinte, sé stessa. Per sua sventura, Gennaro le resisteva. ¡Aquavite sul fuoco! ¡carne salata alla sete!... Elda non gli diede più tregua; lo inseguì supplicante con la spada sguainata, perseguitollo della incessabile smania fin nelle Amèriche, si cangiò da duchessa in corista, riuscì a scritturarsi con lui, a cantare con lui, a farsi, abbracciàndolo scandalosamente in pieno teatro, cacciare seco dai palchi. Il tenore fu vinto. La duchessa non lo abbandonò più, lo rimorchiò trionfante in Europa, si dedicò tutta — ella cui fino il pasto affamava, dieci Pròcoli imperatori avrèbber saziata — al di lui ùnico amore. ¡O deprecàbile fedeltà! ¡o malaugurata fortuna! ¡o vulvea rabbia! ¡o cantàridi! Ei ben presto cadeva, senza voce e midolle, fra le incontentàbili braccia.

Qual pianto, quale disperazione accompagnasse la fine immatura del «divino usignuolo» è più fàcile a dire che a crèdersi. La morte in Grecia di Adone fu a paragone una festa. Elda coniò il suo furioso dolore in ogni metallo, lo scolpì, lo stampò, lo dipinse; lo affisse su tutti i muri, lo trascinò per tutte le vie della città, fra l'àrder fumoso dei ceri e l'imperversare delle campane, fra il pèndere a bruno delle bandiere e il tuonar del cannone, rullando cupi i tamburi, stridendo le trombe e miagolando le vèrgini — in un funerale lungo parecchie miglia, di cui prima parte era lei, asiaticamente sdrajata nel suo carrozzone di pompa, in gran toletta di lutto, e con al fianco un cicisbèo di consolazione, negro.

E, dopo due dal mortorio, così contàvano i vìllici di Rocca Adelardi, era venuta alla Rocca una squadra di apparatori con candelabri ed addobbi e tanta gramaglia da tappezzarne, entro e fuori, la chiesa della parrocchia. Le vuote occhiaje della torre maestra avèano allora riavuto le loro pupille di vetro. E, di una settimana, una notte, appariva un'ampia berlina a quattro neri cavalli coi postiglioni abbrunati, donde scendèa Sua Eccellenza di Stabia insieme a una bara e a un certo uomo grigio pien di mistero, cui il signor farmacista si ricordava di avere altre volte fornita la stoppa da imbalsamare il mastino del feld-maresciallo Radetsky.

D'allora a noi, cinque anni. E tutti e cinque, a 10 di ottobre, anniversario del lutto, la duchessa di Stabia ricompariva alla Rocca, a cavallo, al galoppo, spaventando di mezzo la strada ànitre e bimbi — tra i riverenti cappelli e gli occhi sbircianti paurosi l'annuvolato suo voltoseguita a non breve distanza da un sempre nuovo staffiere, ma sempre (osservàvano le forosette) bene condizionato.

Quella notte, i finestroni ogivali della torre maestra s'illuminàvano.

E la mattina seguente, Elda sedeva a far colazione faccia faccia collo staffiere, che il giorno prima l'avèa servita rispettosamente a pranzo. La duchessa parèa già consolata. Brillàvale fornicazione lo sguardo, e sghignazzando della capreggiante sua voce, versava con mano incitatrice da bere al commensale di lei. Ma il commensale tremava nel porsi alle labbra il bicchiere. Due lìvidi segni di accusa gli sottolineàvano gli occhi.


 




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