Dirèi «è l'època delle màschere» ma, ciò potendo significar
tutto l'anno, dico piuttosto «è l'època in cui le maschere càdono.»
Nel così-detto tempio dell'Arte, dove
echeggiàrono appena le melodìe di Rossini e Bellini, nòbile cibo d'amore, si
terranno 'stanotte gli Stati Generali di tutte le alte e basse puttane della
città. «La è la risorsa della pòvera impresa» dicono i calvi abbonati
nell'indossar la marsina e intascando un pajo di guanti da un dito. E
veramente, la bottega del Diàvolo ha sempre fatto più affari di quella di Dio.
Chi non mi crede, entri. Entrate anche voi dalle belle ideone sulla maschile
generosità e sulla femminil gentilezza, tutte idèe che figùran sì bene nella
nìtida stampa di una raccolta di versi. Basta un veglione a restituire il
criterio, smarrito in un anno di studio.
Entrate. Non vi ributti, se assuefatti agli ambienti senza
risparmio delle montagne e dei laghi, quest'aria pregna di pòlvere e odorante
la buccia d'arancio, l'ammonìaca e il gas; questo tanfo di letamajo rimuginato.
Senza colore or si suona una polca e poche coppie giritondèggiano fiaccamente,
quasi ballàssero a nolo. La maggior parte — maschi che in nera assisa da ballo
si piglierèbbero per camerieri se avèssero un viso un po' più da signore; o
fèmmine con quel tanto di copertura che è sufficiente a tenere in crèdito il
nudo — passèggiano di su e di giù, gareggiando di scipitezza, in un prolungato
sbadiglio, in un'agonìa a suono di banda. E le dame nei palchi, gelate le
spalle pel vicino marito, già sospìran dicendo: «è un veglione che non si fà.»
Non disperiamo però. La pistola della follìa si stà caricando:
l'orgia è nel perìodo d'assorbimento. Per molti la cena è ancor dubbia, e chi
conosce la pesca sà che l'amo e le reti si gèttano in silenzio.
Approfittiamo piuttosto del momento di calma per sondar le
nostre aque. Teniamo dietro, ad esempio, a quel grosso fattore dalla faccia
vinosa ed allocca, sceso appena in città coll'ùltimo sacco di grano, il quale
procede trionfante a braccetto di due mascherine alla dèbardeur, l'una in
azzurro e l'altra in scarlatto. In queste, i caratterìstici segni di tutte.
Ambedùe, palle di gomma, che bàlzano di pugno in pugno; venditrici, ambedùe, di
merce che rimane lor sempre. Ma se la prima è di quelle che mai non pèrdon la
testa per farla pèrdere completamente altrùi, la seconda è dell'altre che
incomìnciano a pèrderla loro. Nell'una il peccato è càlcolo, nell'altra natura.
Quella in azzurro, la Sciana, dalla voce mielosa e dalla pupilla monacalmente
sorniona, guarda prima il denaro, poi la mano che l'offre, bilancia l'oro e la
carne, mettendo prezzo perfino alla concessione pudica del bacio e aggio al
silenzio, e succhia come un sifone fino all'ùltima stilla, e nel «sommo di
Afròdite» può sempre distìnguere, se la camicia dell'avventore è di olandetta o
battista, nè manca, quando ciò valga la pena, di scompagnargli i bottoni;
l'altra invece, che è detta la Firisella, dagli occhi pazzi e verdògnoli e
dalla voce aspreggiante, per il più bello lascia spesso il più ricco, non conta
i baci, dà più di quanto le è cêrco, e, se dopo imborsella, non domanda mai
prima, anzi talvolta, venuta per la mercede, se la scordò. Con l'una insomma
non si fanno che affari, con l'altra si può far anche all'amore; pur, se la
prima consentirebbe, basta ci guadagnasse, perfino a durarti fedele, non
potrebbe ciò l'altra a niun patto. E inoltre, la Firisella ha generato alla
fame nuovi èsseri, mentre la Sciana li ha tacitamente soppressi; con la natural
conclusione, che se a quella il peccato stà accelerando l'ospedale o la
càrcere, al contrario la Sciana, convertendo manmano questo peccato in tanta
rèndita pubblica, si mette in disparte — a maggior gloria della giustizia
divina — un còmodo ravvedimento inaffiato a Bordeaux e nutrito a fagiani.
Ingiuriàtemi pure, teòlogi; la Verità mi difende. Quanto
importa alla beatitùdine provvisoria del buon campagnuolo, è ch'ei non scerne
nelle due donne se non le polpe e i sorrisi, e quanto importa alla loro, è che
s'avvìano a cena.
E lì, il teatro a poco a poco si sfolla e il lampadario rimane
a illuminare sé stesso.
Ma la cena è scroccata. La variopinta turba rinsàccasi
fracassosamente nell'amplìssima sala. Si rinfòllano i palchi e stuona la banda
con più accanimento di prima. Fùrono a eccitar l'appetito con cibi che lo
farèbber fuggire, se fosse; fùrono a conquistar l'allegrìa, mercè una bevanda,
che dello Champagne non possiede che il prezzo. Il teatro sembra un ardente
colossale punch. Sparge a nembi Cupido le avvelenate sue frecce e il pòlline
aleggia della tisi e del tifo. Vedi donne seminude e briache dar la scalata ai
palchetti, gridando da ossesse; vedi gruppi di gente, o piuttosto di otri di
vino, saltacchiare ad urtoni, credendo forse ballare, illusi di divertirsi. «La
festa si mette bene» sorrìdon dai palchi le dame e carèzzan con l'occhio gli
scàndali della platèa; poi, esclamando «¡che porcherìa!» con una smorfia di
compiacenza adoràbile, scompàiono a riparare il pudore tra le adùltere ombre dei
camerini. ¡O speziali, pestate, spalmate, mescete! ¡Fondete, armajoli,
affilate!
Non si òdono più se non grida. Ùrlasi, quasi il teatro
bruciasse. Ma, quantunque di spìrito se ne sia molto ingojato, non ne brilla
una goccia.
Ed ecco una donna, mezzo svestita in scarlatto, piantarsi sul
parapetto di un palco nella linea ondeggiante di Hògarth, e protendendo la mano
alla folla, con una voce che tutte sorpassa strillare: «¡onorèvoli!»
Un fischio universale.
Il pùbblico non vuol saperne di onore. E allora:
«Tutti vigliacchi!» sbràita il dèbardeur, correggèndosi; e fà
l'atto ribaldo che immortalò la Spartana.
«¡Viva la Firisella!» applàude la folla.
E il tumulto si eleva. Chi ha la testa un po' a casa, ve la
conduca del tutto. È doppia pazzìa, credete, starsi da savio fra i pazzi. A che
ci val la giusta ora, dove quella di tutti è sbagliata?
Nè c'è più lingua che obedisca a cocchiere. L'allegrìa si fà
litigiosa. Uno se la piglia con l'altro del malèssere proprio; scàmbiansi
ingiurie e indirizzi, suonano schiaffi e copponi. Senonché l'uva, già premuta
dal piede, vèndicasene sottraèndolo. Vinti e vincenti, questurini e briffalde,
tòmbolano a catafascio e una volta sul suolo divèntano suolo; quanto ancor
pòssono fanno, cioè s'addormèntano. E allora le oneste signore de' palchi, cui
nulla più avanza a vedere, riavvòlgonsi nei loro scialli, dicendo: «fu il
miglior dei veglioni.»
¿Ma e chi mai, di tutti coloro che uscìvano dal teatro pieni
di pellicce e di lue, si accorse, sotto l'atrìo di strada, di una cenciosa
tosetta con un bàmbolo in braccio e un ragazzino per mano, bubbolanti pel
freddo e frignanti per fame? — ¿e chi mai, se si accorse, non rispose un
insulto alla pòvera bimba, che singhiozzando chiedèa: «c'è la mia mamma là
dentro? Mia mamma è la Firisella.»
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