«Tòllite jùgum mèum sùper vos, et inveniètis rèquiem animàbus
vèstris; jùgum ènim mèum suave est et ònus mèum leve... Queste sono le dolci
parole colle quali Gesù, redentore e maestro, chiama ed invita le ànime tutte a
quel riposo, a quella pace, che non può dare la lusinghièvol miseria del
mondo...»
Ed ecco un gran coro dal cupo intavolato di quercia, sculto
baroccamente a frutta e a puttini, col suo leggìo nel mezzo dell'aperto messale
a miniature e pendagli, e in ogni stallo la sua monacuccia in sòggolo e
salterio, immota e compunta, sul malincònico pallor della quale trèmola a
tratti l'illuminello del sole, fàttosi violaceo o aranciato nelle vetrerie
istoriate; ed ecco, al posto d'onore, Sua Beatitùdine la badessa, dal rubicondo
faccione e dalle socchiuse palpebre vèdove di sopraciglia, affondata nella
propria pinguèdine e nei purpurei cuscini di un seggiolone che a pena la cape,
ambo le mani sui due pomati bracciuoli, in dito il topazio, la croce d'oro sul
petto, e ritta, al fianco di lei, la verga abaziale dall'uncino in semenza.
Attraverso il rameggio dell'inferriata, posta fra il coro e l'altare, balùccica
intanto, nel chiarore de' ceri e ne' riflessi de' papi d'argento, l'àurea
teletta e la mitra gemmata del Patriarca che ufficia. Sua Eminenza intuona in
falsetto, il «Veni Creàtor» cui le voci flautate e oscillanti delle sorelle
rispòndono il «mèntes tuòrum» facendo loro bordone dalla chiesa anteriore la
poderosa profonda gola dei frati. A nubi, entra l'incenso nel coro; l'òrgano
mugge, romba, e completa l'ebbrezza di quelle isolate dal mondo, sulle cui
testoline piove a distesa, di là della volta, lo scampanìo, e che, lo sguardo
nel cielo (il ciel della cùpola) già si sèntono assunte in una tiepolesca
gloria, fra le nùvole a gnocchi e il color polentina, in mezzo agli scorci dei
fratacchiotti dalle còmode tònache e lo svolazzante drappeggio delle Sibille e
i maestosi barboni de' Vangelisti e le guancette con l'ali e i piccioni ed il
resto della celestial pollerìa.
Ma il Coro par cancellarsi, mentre si allunga e si inquadra e
gli stalli di ròvere chiùdonsi come a credenza. Travi con gli scomparti a
rosoni sostituìscon le vôlte, le cui pitture si stèndono sulle pareti — tutti
soggetti ad un tempo, di cucina e di chiesa — e dalle travi vien giù, per
catene, un gran cuore di rame coronato di spine, che è un lampadario dai cento
lucìgnoli. Un caminone si disegna nel fondo, un monumento a tabernàcoli e guglie,, e sotto, da un'ìntegra quercia fra due colossi di
alari, vampeggia una lieta dalle scoppiettanti faville. È questa l'ora del
chilo e della mormorazione. La «rosa dei venti» della badessa non fe' che
cangiare poltrona. Sola, nella sua lardosa maestà, su 'n soppedaneo alto trè
palmi da terra, rossa come un midollone d'anguria, lùcida come se verniciata,
con li occhiali sul fronte, le nari zeppe a rapè e le manone intrecciate sulla
tùmida pancia, la badessa non dà, quanto a vita, altro segno che digestivi
sospiri. Ma, in attesa che Sua Beatitùdine torni a qualcuno de' suòi cinque
sensi, vedi, intorno alla tàvola che stà lunghìssima in mezzo, panche di suore,
quà affaccendate a far mazzolini d'erba amarella e di fiori di bùlgaro, a
cucire cuffiette pel bimbo della Madonna o strangolini pel chiericuccio nipote;
là a ricamare paesaggi di margheritine o a stratagliare e arricciare le
invoglie pei manuscristi, oppure menando la fòrbice nella inèdita gloria di
cartapècora antica dannata alle compostiere; mentre Tarlesca, la sciamannata
serva di tutte, dalla lingua incessante e dalle braccia a pèntola, passa
dall'una all'altra a raccògliere la tiritera delle commissioni inùtili.
Alcune, peraltro, si guàrdano bene fin dal peccato di
lavorare. Strèttesi insieme in un capannello di trèspoli, si accontèntano
invece, con gli occhi bassi e il rosario fra i diti, di calunniare le assenti.
Ben si sarèbbero accomodate al camino, ma è posto preso oggisera. Perocché,
sotto la cappa altìssima e fuliginosa, trovi riunite le novizie e le anziane,
queste a far tièpido un sangue che più non viene alla pelle neppure coi
vescicanti; quelle a dissimulare il troppo caldo di uno che le persegue
d'impertinenti rossori. E le vecchie, su 'n lato, salivando castagne,
borbòttano dei fieri stìmoli della carne coi relativi rimedi, e delle tràppole
che i maliziosi demonii, loro apparendo nelle figure più grottescamente
impudiche, àrmano intorno alla loro verginità, e borbòttano di certe grige
notizie che una di loro ha saputo sbirciare nella I. R. Gazzetta di un sol mese
prima, come cioè sia imminente l'arrivo di quella furia francese, scarmigliata
e sbracata, che smòccola teste e pòpola il mondo di ex, che s'ubbriaca col vin
della messa e spalma il cacio sull'ostie, abbattendo i conventi con le lor
stesse campane fuse in cannoni, Dio confiscando, violando gli hàrem di
Cristo... — mentre, sul lato opposto, le giovinette educande cinguèttano di men
lusinghieri perigli, favoleggiando paure e spaurèndosi nell'inventarle,, ora, di streghe e di ossesse, ora di ànime del
Purgatorio che ritornàrono al sole per esìgervi i requie, o d'aqua santa che ha
scottato le dita di un peccatore inconfesso, o di Sàtana apparso a quella
imprudente, che avèagli scritto, per ischerzo, una lèttera. E Ricciarda dal celestìssimo
sguardo confida alle amiche, con un tremolìo di voce, di averlo veduto lei, il
Maligno, una volta alla grata del parlatorio e un'altra al graticcio del
confessionale, che «si sarebbe» — dice — «in buona coscienza potuto pigliare
per un galantuomo», aggiungendo come talora la notte, nelle trasparenze del
sonno, una mano, aspra quale il zigrino, le frisasse la guancia (che era polve
di piuma di cigno) o le stirasse il cirro riottoso che pendèvale in fronte o le
aggroppisse i capelli, perfino osando (quì sosta) di palleggiarle le rotondità
più gelose. Sul che, la bionda Orsolina dal colmo seno cela arrossendo la
faccia contro la spalla di Edvige, la maritina di lei, la quale, beccando via
il dire a Ricciarda, prende a narrare della fragranza miracolosa che emana
l'arca della lor Protettrice, una fragranza di mela cotogna, e del giglio
(altro letale presagio) trovato sulla coral manganella di... e lì addita a una
suora. È suor Clara, la sempre estàtica suora, dal volto che è un barlume di
perla, dalla persona che è nebbia. Clara è in piedi, poggiata ad una finestra.
Tien la pupilla, cupidamente, nella bujìssima notte esteriore, dove la màgica
lampa del suo acceso cervello dardeggia una processione di forme; tiene la
palma dietro l'orecchio, quasi a raccògliere gli echi di una lontana armonìa —
la più soave di tutte — la libertà.
Ma la lingua di bronzo del campanile annunzia l'ora della
quotidiana morte. La badessa estràe a fatica il suo mappamondo dal seggiolone
che vorrebbe seguirla, e, suffulta alla spalla della Madre Priora, và greve
greve alla porta. Tutte si sono alzate, hanno ciascuna ripreso il suo lucernino
di ferro e se l'accèndono l'una all'altra. Passa la bisbigliante frotta delle
fiammelle per una fuga di pòrtici, illuminando, a intervalli, scrostate e
nitrose pitture di Santi, lì per cadere nelle repubblicane cartucce, e impàvide
colonnine sotto la soma degli archi e baratri di scale ertìssime e sotterranee;
poi, le fiammelle sparpàgliansi pel labirinto de' corritòi, una quì pare
affogarsi, là un'altra, e si ode il cricchìo e il catenaccìo degli usci e si
ode il tintinno del mazzo di chiavi della Madre Guardiana che ronda.
E tutto è bujo e silenzio. Comincia il rosicchiare de' topi e
lo sgretolìo de' tarli. Rìschiansi i topi a far capolino dai loro pertugi;
sdrùcciolano fuori, e galoppan sù e giù, scambiàndosi le visitine notturne. Ce
n'è una sorta di spaventosa grossezza, si dirèbbero gatti; si dirèbbero frati.
E havvi celle che si socchiùdono tacitamente e li accòlgono.
Ecco le stanze della badessa. «Sìleat tumùltum càrnis» la
soglia dice alle suola. Dentro, illuminazione. Il letto è pêsto, sconvolto. Al
sòlito luogo, il sòlito aquasantino colla sòlita palma, il cilicio, una sferza
stimolatrice e la imàgine bruna di Quella che ad aver fama di vèrgine dove'
partorire. Finalmente donna Radegonda par desta. È in camicia. Si stacca da un
armadiuccio a muro, i cui battenti di altare, or sbarrati, làscian vedere un
grottino, donde esce un freschetto che sà di formaggio; e tornata, leccàndosi i
baffi, a un tavolino pien di bottiglie dal collo argentato, tra ova sode,
tartufi e caviale, la fà finita con uno Spìrito Santo rimasto a mezzo presso
un'altra posata. Poiché un commensale ci fu, uno almeno; basta guardare al
cordone di San Francesco, dimenticato sul letto. Ma la badessa non ne par
troppo edificata. Trae dal canterano un registro e si mette, con devozione, a
sfogliarlo. In ogni pàgina non v'ha che una linea, una cifra, una data.
Brìllano a qualcheduna gli occhiuzzi di lei, neri pomelli di spillo, si
riassopìscono ad altre. Carteggia fogli e carteggia, arriva infine a uno vuoto.
S'arresta allora; bevucchia un dito di alchèrmes, bàgnasi al labbro una ottusa
matita, indi segna, con un sospiro, un tiretto, una data ed un 2, aggiungendo
(dopo di avere sguardato alla pàgina retro) la somma totale di «once nostrane
40,300» pari a braccia... sì e sì, che fanno miglia... tant'altre. ¿Or dite
voi, che sapete di astrometrìa — di quì al Paradiso, quanta ancor strada ci ha?
Sembra, del rimanente, che in tutto il chiostro regni perpetua
l'estate. Il diabòlico stormo dei pruriginosi ricordi, delle caldane, delle
oppressure, gira a far scempio delle recluse; e quei pòveri alati custodi, ve
l'assicuro, hanno un bel fare a difèndere il vas spirituale, la janua coeli, la
mystica rosa, contro le seduzioni e gli ardiri dei mille amanti d'ogni stoffa e
misura che vèngon sù dai bauli e dai cassettoni o nàscono cinque ogni mano.
Orsolina ed Edvige, in un ùnico letto, troppo angusto per una, stanno, mezzo
scoperte, allacciate in un polposìssimo abbraccio. Amore, sovrano de' sogni,
lìbrasi lieve su loro, ed esse, pur nel dormire, si scàmbiano colombinamente
baci e tùbano di voluttà. Ricciarda invece, che non possiede una Edvige, s'è
addormentata abbracciata a un guanciale, bagnàndolo delle sue làgrime. Un'altra
ancora, in un quasi-sonnambulismo, scìvola scalza e
discinta in un remoto oratorio e là si prostra sul freddo marmo, dinanzi a un
crocifisso di sculto legno e dipinto. Il chiaro di luna, inondando il suo
volto, par che illùmini neve. Clara fervorosamente prega, calda la mente delle
seràfiche istericità di santa Teresa e delle sue proprie e la si fisa intensa
nel Cristo, si esalta, trasfigùrasi in lui. Non più ella sente il bruciore
delle percosse, ond'ella martoriò le proterve sue carni, non più il gelo dei
lini che la si presse bagnati sull'incendio del seno e che or le si stàccano
àridi; non la si accorge neppure dello scattar di una bòtola e di un
avvicinàntesi anèlito. Clara è rapita nelle membra formose del Salvatore e
gemendo ne conta le piaghe, le lividure, gli allentàtisi mùscoli. A poco a
poco, un divino sbigottimento la stringe; pàlpitale il cuore, come al beato
Filippo, a scoppiarle. L'allucinazione è completa. La pupilla del Cristo si è
inumidita, e l'amoroso suo fàscino posa, insiste su lei, sèmbrano anzi le
piaghe fumare, sembra la vita riguizzar sotto pelle, mentre le pàllide labbra
si ricòlman di sangue e tra le labbra già s'intravede con il candore dei denti,
la più desiata parola. E Gesù protende le braccia. Il pannolino si erge. Clara
cade in deliquio.
Quando rinsensa, è nella sua cella, sul letto. Può ancora il
volto di lei rassomigliarsi alla neve, ma a neve con l'impronta del piede. Le
si apportò un canestrino di cibi, ebbe nàusee; le offèrsero sperditrici misture,, indignata le rifiutò. Ma la celletta si disadorna.
Scompàjono i pochi amici di Clara... la baciatìssima imàgine della sua Santa,
il Gesù-bimbo di cera, i secchi suòi mazzolini — fiori di primavere
che non torneranno mai più, inutilmente adaquati dalla rugiada del pianto — la
catinella stessa di latta, che ella gioiva di tenere sì tersa... per
ispecchiàrvisi. E la celletta s'è dal di fuori barrata. Clara non può veder che
da lungi i favoriti luoghi del suo vaneggiare... e quel cortiletto profondo,
dai glàuco-oliva riflessi, dove piange la luna con sì
amorosa tristezza e cresce l'erba, infalciata, attorno un pozzo col
secchiolino, inghirlandato di èllera... e quel camposanto in pien sole,
ingarbugliamento di croci e di rose come la vita, in cui fra la turba dal color
schiamazzante donde il sonno si stilla e il nereggiar delle more che sànguinano
zùcchero e il biancheggìo dei gelsomini acutamente odorosi, è un continuo annaspare
di cavolaje e libèllule, spilli e cènere alata, è un fèrvere dagli avelli
d'àurei sciami di api, è un baciottarsi, in mezzo ai cespugli, di pàsseri. ¡O
poveretta! spranghe di ferro già ti contèndon la fuga, e le spranghe,
inspessando, sono fatte una grata, contro di cui gli augellini, ûsi d'accòrrere
alla tua diàfana palma brizzolata di pane, picchièttano invano i beccucci.
S'affonda intanto la cella — ah, non più cella! càrcere — e si trasforma in un
sotterraneo. Ùmido è l'àere, sepolcrale. Tutti l'hanno fuggita, la prigioniera,
fuorché le fiale omicide; lo stesso divino suo sposo tornò quell'Orrendo che
àbita eccelso in silenzio. Se le lasciàrono un dèbole lume, non tanto a
conforto, quanto per non risparmiarle la vista delle pietre tombali effigiate a
badesse, rìgide al muro, l'ìnfule in capo, la verga al fianco; e degli
ossicini, che spùntano il màcero suolo — pìccoli troppo, per avere del mondo,
pure il latte, gustato. E il ventre intumidisce viepiù. Fiochissimamente le
bàttono i polsi, bàttono dentro ad armille, ahi non nuziali! e vi si
arrugginìscono insieme. ¡O Dio suo, guarda! Ecco un ragno che tesse nella
ciòtola vuota; ecco l'ala pelosa di un pipistrello, che dà nel dubbio
lucìgnolo. Clara giace aggruppata sopra un mucchio di paglia, infracidendo con
essa... S'assiepa notte su tutto.
Ma, di lì a poco, un barlume. Odesi il suono del mattutino e
una fresc'àura ci accarezza i capelli. Già la nebbia si solve, e nel freddo
chiarore dell'alba appàjono le merlate muraglie di un monastero col campanil di
una chiesa diffondente su di esse la feconda sua ombra. Intorno intorno,
campagne che si dirèbbero un cimitero, tanto sono deserte, con tuguri di creta
in sfacelo, con piante o marce o essiccate, con pozze di fràcida aqua, e... Oh
t'arresta! Nel verde cupo dell'erba, che suda fame e terzane, spicca
bianchìssimo — fra un bulicar di formiche — il nudo corpo di un bimbo, appena
nato, appena morto.
E l'albore ingiallisce e scatta il sole scintille dalle
vetrate del monastero. Si fà sì viva la luce, che gli occhi non pônno durarci
più aperti e che i mièi... io li apro.
Tròvomi a letto, in pien giorno.
Fugò la luce monasteri e conventi.
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