Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Carlo Dossi
La desinenza in A

IntraText CT - Lettura del testo

  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO SECONDO
      • Scena dècima - In monastero.
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

Scena dècima - In monastero.

 

«Tòllite jùgum mèum sùper vos, et inveniètis rèquiem animàbus vèstris; jùgum ènim mèum suave est et ònus mèum leve... Queste sono le dolci parole colle quali Gesù, redentore e maestro, chiama ed invita le ànime tutte a quel riposo, a quella pace, che non può dare la lusinghièvol miseria del mondo...»

Ed ecco un gran coro dal cupo intavolato di quercia, sculto baroccamente a frutta e a puttini, col suo leggìo nel mezzo dell'aperto messale a miniature e pendagli, e in ogni stallo la sua monacuccia in sòggolo e salterio, immota e compunta, sul malincònico pallor della quale trèmola a tratti l'illuminello del sole, fàttosi violaceo o aranciato nelle vetrerie istoriate; ed ecco, al posto d'onore, Sua Beatitùdine la badessa, dal rubicondo faccione e dalle socchiuse palpebre vèdove di sopraciglia, affondata nella propria pinguèdine e nei purpurei cuscini di un seggiolone che a pena la cape, ambo le mani sui due pomati bracciuoli, in dito il topazio, la croce d'oro sul petto, e ritta, al fianco di lei, la verga abaziale dall'uncino in semenza. Attraverso il rameggio dell'inferriata, posta fra il coro e l'altare, balùccica intanto, nel chiarore de' ceri e ne' riflessi de' papi d'argento, l'àurea teletta e la mitra gemmata del Patriarca che ufficia. Sua Eminenza intuona in falsetto, il «Veni Creàtor» cui le voci flautate e oscillanti delle sorelle rispòndono il «mèntes tuòrum» facendo loro bordone dalla chiesa anteriore la poderosa profonda gola dei frati. A nubi, entra l'incenso nel coro; l'òrgano mugge, romba, e completa l'ebbrezza di quelle isolate dal mondo, sulle cui testoline piove a distesa, di della volta, lo scampanìo, e che, lo sguardo nel cielo (il ciel della cùpola) già si sèntono assunte in una tiepolesca gloria, fra le nùvole a gnocchi e il color polentina, in mezzo agli scorci dei fratacchiotti dalle còmode tònache e lo svolazzante drappeggio delle Sibille e i maestosi barboni de' Vangelisti e le guancette con l'ali e i piccioni ed il resto della celestial pollerìa.

Ma il Coro par cancellarsi, mentre si allunga e si inquadra e gli stalli di ròvere chiùdonsi come a credenza. Travi con gli scomparti a rosoni sostituìscon le vôlte, le cui pitture si stèndono sulle pareti — tutti soggetti ad un tempo, di cucina e di chiesa — e dalle travi vien giù, per catene, un gran cuore di rame coronato di spine, che è un lampadario dai cento lucìgnoli. Un caminone si disegna nel fondo, un monumento a tabernàcoli e guglie,, e sotto, da un'ìntegra quercia fra due colossi di alari, vampeggia una lieta dalle scoppiettanti faville. È questa l'ora del chilo e della mormorazione. La «rosa dei venti» della badessa non fe' che cangiare poltrona. Sola, nella sua lardosa maestà, su 'n soppedaneo alto trè palmi da terra, rossa come un midollone d'anguria, lùcida come se verniciata, con li occhiali sul fronte, le nari zeppe a rapè e le manone intrecciate sulla tùmida pancia, la badessa non , quanto a vita, altro segno che digestivi sospiri. Ma, in attesa che Sua Beatitùdine torni a qualcuno de' suòi cinque sensi, vedi, intorno alla tàvola che stà lunghìssima in mezzo, panche di suore, quà affaccendate a far mazzolini d'erba amarella e di fiori di bùlgaro, a cucire cuffiette pel bimbo della Madonna o strangolini pel chiericuccio nipote; a ricamare paesaggi di margheritine o a stratagliare e arricciare le invoglie pei manuscristi, oppure menando la fòrbice nella inèdita gloria di cartapècora antica dannata alle compostiere; mentre Tarlesca, la sciamannata serva di tutte, dalla lingua incessante e dalle braccia a pèntola, passa dall'una all'altra a raccògliere la tiritera delle commissioni inùtili.

Alcune, peraltro, si guàrdano bene fin dal peccato di lavorare. Strèttesi insieme in un capannello di trèspoli, si accontèntano invece, con gli occhi bassi e il rosario fra i diti, di calunniare le assenti. Ben si sarèbbero accomodate al camino, ma è posto preso oggisera. Perocché, sotto la cappa altìssima e fuliginosa, trovi riunite le novizie e le anziane, queste a far tièpido un sangue che più non viene alla pelle neppure coi vescicanti; quelle a dissimulare il troppo caldo di uno che le persegue d'impertinenti rossori. E le vecchie, su 'n lato, salivando castagne, borbòttano dei fieri stìmoli della carne coi relativi rimedi, e delle tràppole che i maliziosi demonii, loro apparendo nelle figure più grottescamente impudiche, àrmano intorno alla loro verginità, e borbòttano di certe grige notizie che una di loro ha saputo sbirciare nella I. R. Gazzetta di un sol mese prima, come cioè sia imminente l'arrivo di quella furia francese, scarmigliata e sbracata, che smòccola teste e pòpola il mondo di ex, che s'ubbriaca col vin della messa e spalma il cacio sull'ostie, abbattendo i conventi con le lor stesse campane fuse in cannoni, Dio confiscando, violando gli hàrem di Cristo... — mentre, sul lato opposto, le giovinette educande cinguèttano di men lusinghieri perigli, favoleggiando paure e spaurèndosi nell'inventarle,, ora, di streghe e di ossesse, ora di ànime del Purgatorio che ritornàrono al sole per esìgervi i requie, o d'aqua santa che ha scottato le dita di un peccatore inconfesso, o di Sàtana apparso a quella imprudente, che avèagli scritto, per ischerzo, una lèttera. E Ricciarda dal celestìssimo sguardo confida alle amiche, con un tremolìo di voce, di averlo veduto lei, il Maligno, una volta alla grata del parlatorio e un'altra al graticcio del confessionale, che «si sarebbe» — dice — «in buona coscienza potuto pigliare per un galantuomo», aggiungendo come talora la notte, nelle trasparenze del sonno, una mano, aspra quale il zigrino, le frisasse la guancia (che era polve di piuma di cigno) o le stirasse il cirro riottoso che pendèvale in fronte o le aggroppisse i capelli, perfino osando (quì sosta) di palleggiarle le rotondità più gelose. Sul che, la bionda Orsolina dal colmo seno cela arrossendo la faccia contro la spalla di Edvige, la maritina di lei, la quale, beccando via il dire a Ricciarda, prende a narrare della fragranza miracolosa che emana l'arca della lor Protettrice, una fragranza di mela cotogna, e del giglio (altro letale presagio) trovato sulla coral manganella di... e addita a una suora. È suor Clara, la sempre estàtica suora, dal volto che è un barlume di perla, dalla persona che è nebbia. Clara è in piedi, poggiata ad una finestra. Tien la pupilla, cupidamente, nella bujìssima notte esteriore, dove la màgica lampa del suo acceso cervello dardeggia una processione di forme; tiene la palma dietro l'orecchio, quasi a raccògliere gli echi di una lontana armonìa — la più soave di tutte — la libertà.

Ma la lingua di bronzo del campanile annunzia l'ora della quotidiana morte. La badessa estràe a fatica il suo mappamondo dal seggiolone che vorrebbe seguirla, e, suffulta alla spalla della Madre Priora, greve greve alla porta. Tutte si sono alzate, hanno ciascuna ripreso il suo lucernino di ferro e se l'accèndono l'una all'altra. Passa la bisbigliante frotta delle fiammelle per una fuga di pòrtici, illuminando, a intervalli, scrostate e nitrose pitture di Santi, per cadere nelle repubblicane cartucce, e impàvide colonnine sotto la soma degli archi e baratri di scale ertìssime e sotterranee; poi, le fiammelle sparpàgliansi pel labirinto de' corritòi, una quì pare affogarsi, un'altra, e si ode il cricchìo e il catenaccìo degli usci e si ode il tintinno del mazzo di chiavi della Madre Guardiana che ronda.

E tutto è bujo e silenzio. Comincia il rosicchiare de' topi e lo sgretolìo de' tarli. Rìschiansi i topi a far capolino dai loro pertugi; sdrùcciolano fuori, e galoppan e giù, scambiàndosi le visitine notturne. Ce n'è una sorta di spaventosa grossezza, si dirèbbero gatti; si dirèbbero frati. E havvi celle che si socchiùdono tacitamente e li accòlgono.

Ecco le stanze della badessa. «Sìleat tumùltum càrnis» la soglia dice alle suola. Dentro, illuminazione. Il letto è pêsto, sconvolto. Al sòlito luogo, il sòlito aquasantino colla sòlita palma, il cilicio, una sferza stimolatrice e la imàgine bruna di Quella che ad aver fama di vèrgine dove' partorire. Finalmente donna Radegonda par desta. È in camicia. Si stacca da un armadiuccio a muro, i cui battenti di altare, or sbarrati, làscian vedere un grottino, donde esce un freschetto che di formaggio; e tornata, leccàndosi i baffi, a un tavolino pien di bottiglie dal collo argentato, tra ova sode, tartufi e caviale, la finita con uno Spìrito Santo rimasto a mezzo presso un'altra posata. Poiché un commensale ci fu, uno almeno; basta guardare al cordone di San Francesco, dimenticato sul letto. Ma la badessa non ne par troppo edificata. Trae dal canterano un registro e si mette, con devozione, a sfogliarlo. In ogni pàgina non v'ha che una linea, una cifra, una data. Brìllano a qualcheduna gli occhiuzzi di lei, neri pomelli di spillo, si riassopìscono ad altre. Carteggia fogli e carteggia, arriva infine a uno vuoto. S'arresta allora; bevucchia un dito di alchèrmes, bàgnasi al labbro una ottusa matita, indi segna, con un sospiro, un tiretto, una data ed un 2, aggiungendo (dopo di avere sguardato alla pàgina retro) la somma totale di «once nostrane 40,300» pari a braccia... sì e sì, che fanno miglia... tant'altre. ¿Or dite voi, che sapete di astrometrìa — di quì al Paradiso, quanta ancor strada ci ha?

Sembra, del rimanente, che in tutto il chiostro regni perpetua l'estate. Il diabòlico stormo dei pruriginosi ricordi, delle caldane, delle oppressure, gira a far scempio delle recluse; e quei pòveri alati custodi, ve l'assicuro, hanno un bel fare a difèndere il vas spirituale, la janua coeli, la mystica rosa, contro le seduzioni e gli ardiri dei mille amanti d'ogni stoffa e misura che vèngon dai bauli e dai cassettoni o nàscono cinque ogni mano. Orsolina ed Edvige, in un ùnico letto, troppo angusto per una, stanno, mezzo scoperte, allacciate in un polposìssimo abbraccio. Amore, sovrano de' sogni, lìbrasi lieve su loro, ed esse, pur nel dormire, si scàmbiano colombinamente baci e tùbano di voluttà. Ricciarda invece, che non possiede una Edvige, s'è addormentata abbracciata a un guanciale, bagnàndolo delle sue làgrime. Un'altra ancora, in un quasi-sonnambulismo, scìvola scalza e discinta in un remoto oratorio e si prostra sul freddo marmo, dinanzi a un crocifisso di sculto legno e dipinto. Il chiaro di luna, inondando il suo volto, par che illùmini neve. Clara fervorosamente prega, calda la mente delle seràfiche istericità di santa Teresa e delle sue proprie e la si fisa intensa nel Cristo, si esalta, trasfigùrasi in lui. Non più ella sente il bruciore delle percosse, ond'ella martoriò le proterve sue carni, non più il gelo dei lini che la si presse bagnati sull'incendio del seno e che or le si stàccano àridi; non la si accorge neppure dello scattar di una bòtola e di un avvicinàntesi anèlito. Clara è rapita nelle membra formose del Salvatore e gemendo ne conta le piaghe, le lividure, gli allentàtisi mùscoli. A poco a poco, un divino sbigottimento la stringe; pàlpitale il cuore, come al beato Filippo, a scoppiarle. L'allucinazione è completa. La pupilla del Cristo si è inumidita, e l'amoroso suo fàscino posa, insiste su lei, sèmbrano anzi le piaghe fumare, sembra la vita riguizzar sotto pelle, mentre le pàllide labbra si ricòlman di sangue e tra le labbra già s'intravede con il candore dei denti, la più desiata parola. E Gesù protende le braccia. Il pannolino si erge. Clara cade in deliquio.

Quando rinsensa, è nella sua cella, sul letto. Può ancora il volto di lei rassomigliarsi alla neve, ma a neve con l'impronta del piede. Le si apportò un canestrino di cibi, ebbe nàusee; le offèrsero sperditrici misture,, indignata le rifiutò. Ma la celletta si disadorna. Scompàjono i pochi amici di Clara... la baciatìssima imàgine della sua Santa, il Gesù-bimbo di cera, i secchi suòi mazzolinifiori di primavere che non torneranno mai più, inutilmente adaquati dalla rugiada del pianto — la catinella stessa di latta, che ella gioiva di teneretersa... per ispecchiàrvisi. E la celletta s'è dal di fuori barrata. Clara non può veder che da lungi i favoriti luoghi del suo vaneggiare... e quel cortiletto profondo, dai glàuco-oliva riflessi, dove piange la luna con sì amorosa tristezza e cresce l'erba, infalciata, attorno un pozzo col secchiolino, inghirlandato di èllera... e quel camposanto in pien sole, ingarbugliamento di croci e di rose come la vita, in cui fra la turba dal color schiamazzante donde il sonno si stilla e il nereggiar delle more che sànguinano zùcchero e il biancheggìo dei gelsomini acutamente odorosi, è un continuo annaspare di cavolaje e libèllule, spilli e cènere alata, è un fèrvere dagli avelli d'àurei sciami di api, è un baciottarsi, in mezzo ai cespugli, di pàsseri. ¡O poveretta! spranghe di ferro già ti contèndon la fuga, e le spranghe, inspessando, sono fatte una grata, contro di cui gli augellini, ûsi d'accòrrere alla tua diàfana palma brizzolata di pane, picchièttano invano i beccucci. S'affonda intanto la cella — ah, non più cella! càrcere — e si trasforma in un sotterraneo. Ùmido è l'àere, sepolcrale. Tutti l'hanno fuggita, la prigioniera, fuorché le fiale omicide; lo stesso divino suo sposo tornò quell'Orrendo che àbita eccelso in silenzio. Se le lasciàrono un dèbole lume, non tanto a conforto, quanto per non risparmiarle la vista delle pietre tombali effigiate a badesse, rìgide al muro, l'ìnfule in capo, la verga al fianco; e degli ossicini, che spùntano il màcero suolopìccoli troppo, per avere del mondo, pure il latte, gustato. E il ventre intumidisce viepiù. Fiochissimamente le bàttono i polsi, bàttono dentro ad armille, ahi non nuziali! e vi si arrugginìscono insieme. ¡O Dio suo, guarda! Ecco un ragno che tesse nella ciòtola vuota; ecco l'ala pelosa di un pipistrello, che nel dubbio lucìgnolo. Clara giace aggruppata sopra un mucchio di paglia, infracidendo con essa... S'assiepa notte su tutto.

Ma, di a poco, un barlume. Odesi il suono del mattutino e una fresc'àura ci accarezza i capelli. Già la nebbia si solve, e nel freddo chiarore dell'alba appàjono le merlate muraglie di un monastero col campanil di una chiesa diffondente su di esse la feconda sua ombra. Intorno intorno, campagne che si dirèbbero un cimitero, tanto sono deserte, con tuguri di creta in sfacelo, con piante o marce o essiccate, con pozze di fràcida aqua, e... Oh t'arresta! Nel verde cupo dell'erba, che suda fame e terzane, spicca bianchìssimo — fra un bulicar di formiche — il nudo corpo di un bimbo, appena nato, appena morto.

E l'albore ingiallisce e scatta il sole scintille dalle vetrate del monastero. Si viva la luce, che gli occhi non pônno durarci più aperti e che i mièi... io li apro.

Tròvomi a letto, in pien giorno.

Fugò la luce monasteri e conventi.


 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License