INTERMEZZO SECONDO
¡Buona notte a' mièi spettatori! èccoli addormentati. Felici
loro e felice mè. Se il sonno è, come uom dice, il più bel dono del cielo, sarà
l'arte migliore quella che meglio il concilia. Tratteniàmoli dunque in questa
beata disposizione, e però, orchestra, mèttiti la sordina. ¡Guài se si
svègliano! Han per costume fischiare tutto ciò che non hanno capito.
Ma anche l'orchestra è nel medèsimo stato del pùbblico ¡Addìo
allora alla terza ouverture! La rimpiazzerà un frontispizio.
¿Or chi me lo fà? Qual'è quel pittore, che sappia vedere oltre
quel che si vede e distenda, non solo colori, ma idèe sopra una tela? Torna, o
mano pensosa di Guglielmo Hògarth, che, dipingendo letteratura e insegnando
agli artisti ad èssere nella nazionale lor storia contemporanei e nella loro
arte individui, la Pittura rialzasti dalla tappezzerìa alla filosofia,, torna, e ritogli i tuòi traditi pennelli a questi
riempi-cornici, a questi
scombìcchera-insegne, insegne senza negozio, di cui non sà,
la più parte, esprìmer neanche la propria ignoranza, ma solo imitare l'altrùi.
Quanto mi occorre, è un disegno che rappresenti l'inverno
dell'età femminile. In quest'ùltimo atto, il cèrcine di Eva muta di colpo in
iscuffia. Per una donna, mezza età non esiste; da giovinezza a vecchiaja, salta
la donna, non passa. E quì amerèi, o pittore, che in nove parti tu dividessi il
mio foglio, cioè in una grande nel mezzo, circolare o quadrata, con quattro
pìccole ovali sui lati e quattro rotonde sugli àngoli, riunite fra loro e
insieme divise da un intreccio di roba nel dominante motivo, come ad esempio,
rami essiccati e scope di strega, ossa spolpate e sacchi di crusca, pani
malcotti e dentiere, conocchie e arcolài, biscottini e castagne, libri di messa
e di càbala, berretti frigi, bas-bleu, aquasantini,
bottiglie, gazzette e seggette, e più che altro, tricorni. Poiché al soldato
millantatore, quì trovi sostituito il prete che tace (il prete, che ben si
direbbe la pattumiera dei resti della beltà) mentre al teatro già subentra la
chiesa, al giornale di mode il polìtico, al ricamo la calza, alle essenze di
Flora la foglia governativa.
Nel sommo dunque del frontispizio, potresti raffigurarmi un
ventaglio di carte da giuoco, con pochi cuori e moltìssime picche, sotto cui
risplendesse la cinquina delle «ante», cioè del 40, 50, 60, 70 ed 80, e nei due
oo superiori, ai lati della cinquina — a sinistra, una soffitta con una scarna
e guercia figura d'ispiritata, che in mezzo a lucertoni impagliati, a bocce col
diavoletto e a sgnavolanti micini, tutta cenciosa, prevede scettri e milioni
sulla mano polputa di una contadinoccia che a bocca aperta l'ascolta — a
dritta, una sala dove parecchie damazze hanno riunito, all'ingiro di quella
domèstica luna che è la lucerna col globo, i lunghi lor nasi a fiutare i
peccati del pròssimo, mentre, nel fondo, trè Reverendi giòcano, facendo necci,
al puntiglioso tarocco e pìvola un quarto in una poltrona al camino. Così, nei
due altri circoletti inferiori, a questi corrispondenti, desidererèi due
scenari di strada. In uno, l'alba. Due guardie di polizìa sorrèggono per le
ascelle una vecchia plebèa dal grugno alcoolizzato, raccolta dinanzi ad uno
spaccio di branda. Costèi ha ubbriacata la sua miseria. ¿A chi non farebbe ella
orrore, se non facesse pietà? E, nella scena a riscontro, una carrozza coperta,
dal cui sportello si mostra l'angoloso profilo di un'antica matrona, che dà una
intralciata d'òrdini a un servo. Piove intanto a dirotto e il rèfolo impetuoso
squassa e rinversa i paraqua dei passeggeri. Ma il pòvero servo, che è vecchio,
che è calvo, stà sempre lì allo sportello col suo cilindro giù. E sulla porta,
ove il cocchio è fermato, si legge: «Congregazione di Carità...» Beninteso,
pittore, che io non ti voglio con ciò imbrigliare la fantasìa. ¡Dio guardi! Fà
pur macchiette, fà pur scene a tua posta. Macchiette, ad esempio, di sentinelle
d'amore che ci pedìnan tossendo, o di calottiane straccione accosciate sui
marciapiedi, pizzicottando noleggiate creature cui il freddo intirizzisce il
lamento; accademie di sfilosofesse, chili di giubilate, congiure di
spoliticanti (poiché, non rado, le donne, quando non pòssono più cospirar
contro l'uomo, cospìrano contro lo Stato), veglie di giocatrici, stregazzi,
scuole infine di schifose megere, che ammaèstrano i bimbi a trovar le pezzuole
nelle tasche altrui e le bimbe a vèndere quanto non possèggono ancora.
Tuttavìa, io mi ti dirèi assài grato, o pittore, se dopo di avere sfogata la
tua imaginazione nei circoletti sugli àngoli, tu riempissi, secondo la mia, i
due laterali e ovali scomparti, dov'io bramerèi di vedere l'interno di una
corte d'Assise e quel di una chiesa. E, in questo, disegnerài un folto di
vecchie, che la monòtona voce di un frate predicatore ha tutte addormentate,
fuorché le priore della dottrina che si divèrtono a bacchettare una fila di
comunicande sullo sdrùcciolo anch'esse del sonno, e la seggiolaja rimuginante
la sua grembialata di rame; nell'altro, un'udienza, in cui la vendicatrice ira
che fu chiamata Giustizia condanna allegramente alla forca una dozzina di
pòveri pazzi, detti dal còdice rei, a tutto sollievo delle spettatrici
attempate, che, oh quì sono ben sveglie e si sùccian le dita e scialìvano di
voluttà.
Senonché, mio pittore, per giudicare davvero chi sei, ti si
aspetta alla scena del centro. Quanto hai tu fatto sin quì, non è che sua pura
cornice.
¡Cento anni! oh
sospirata età da chi pure ti teme! Ve' la marchesa, nel suo seggiolone dallo
stile fuor di commercio, fattasi un corpo con esso, e nel suo antico velluto ora
raso, nero altrevolte, or rossiccio; vèdila sola, nel mezzo della generale
ruina. Càmpos ubi Troja fùit ci si può scrìvere intorno. Tutto, in quello
stanzone, è tarlato, crepo, ammuffito. Vajolosa e scrostata è la vôlta, e della
dipìntavi estate (ironicamente a fresco) non avanzò che la falce: tappezzerìa e
panneggiamenti sono sbiaditi e stracciati; le dorature appannate, i mòbili
cascherecci. ¡Guai a sturbarne la pòlvere, ùltimo loro cemento! ¡guai affidàrsi
alle sedie, pena il sedersi per terra! Nè più si scopa il tappeto, per la paura
di scoparlo via insieme; mentre il soffietto soffia in faccia a chi l'usa ed il
cordone del campanello resta in mano a chi 'l tira. Pare insomma che con un
buffo debba andar tutto a rifascio, come un mastello cui sìeno levati i cerchi;
e però si fà bene a tenere ermeticamente chiuse le imposte dai vetri
iridescenti, per quanto ciò sia troppo propizio alla puzza di selvatichino
ovvero tanfo antiquario, e troppo poco a quel vaso di semprevivi... ¿Ma che
dico? Que' semprevivi sono già morti da un pezzo, ed è morto anche il ragno che
li velava dell'or polverosa sua bava. ¿Che mai può vivere quì? Da anni, pur
l'orologio vi tace; anzi, ha perduta la freccia, come le chìcchere il mànico, i
seggioloni le rotelette e lo specchio il mercurio. Non s'ode se non il
cricchiare del tarlo che si fà strada alla fame; non s'ode se non lo strìder
de' topi, che spadronèggiano di sù e di giù e pàssano dentro e fuor dalle
tràppole.
E la secolare marchesa, tra le ruine, par la ruina maggiore.
Quelle quattro pareti arièggian la cassa del cadàvere suo. Da ciò che ella è,
non è possibile immaginare qual fosse; il di lei stesso ritratto da sposa
ingiallì, accarpionò, invecchiò secolèi. Le ossa le vògliono come uscir dalla
pelle, pergamena matura pel grand'archivio del camposanto; i suòi capelli non
sono più nemmen bianchi; càddero i denti, sparìrono le sopraciglia. Di là di
quel muro, bùlica intanto un mondo con una testa affatto nuova; gli è
tutt'altro il governo; cangiàrono lingua e moneta; cangiàrono fogge e costumi;
cangiò perfin la morale. Nè il calendario le annunzia altre feste, nè primavere
il termòmetro. Non vive più alcuno che avrebbe il dovere di piàngerla, non vive
manco un erede al quale ella almeno possa asciugare gli occhi. Sopra gli amici
di lei, sopra i figli, cresce altìssima l'erba, anzi nei figli il becchino ha
già seppellito i nipoti. Solo le indifferenti figure di un mèdico e di
un'infermiera le appàjono di quando in quando; quello, a fare le mostre di
rimirarle la lingua e tasteggiarle il polso, tanto per allungarsi la nota,
sempre all'erta pel saldo; questa, o a darle un crollo rabbioso, o a sbraitarle
una ingiuria. Ma, per la marchesa, tant'è. Cose e persone le si muòvono intorno
come in un sogno. Abbandonata da tutti, lo è anche da sé medèsima. La già
sàtura spugna della memoria le si và cancellando, e con essa la dolce
meditazione dei goduti peccati che è certo quale compenso ai non godìbili più.
Mentre il cristallo non sà prestarle più occhi, non c'è tabacco che valga a
rititillarle le nari; ogni vivanda le torna uguale al palato, ogni suono
all'udito; se scoppia il fùlmine stesso sulla sua casa, ella apre
machinalmente, muta qual pesce, la bocca, per augurargli «salute.» Eppure, in
cotesta sconfitta d'ogni spirto vitale, in cotesta agonìa, in cotesto sepolcro,
trèmola ancora il riflesso di un sentimento, l'eco di un desiderio, l'ombra di
una soddisfazione, che è a un tempo e tocco e sapore ed odore; rièrgesi a volte
la larva di quella maga verghetta, che, a lei fanciulla piena di sonno e
stupore apparendo, squarciàvale il velo d'ogni mistero e dicèa: «ecco la vita.»
Gli è allora, che la intorpidita pupilla riaquista un transitorio brillìo e la
libìdine le rielettrizza le fibre, gli è allora che le sue mani aggrinzate...
E, ciac, un'altra ànima peccatora piomba e si frange, qual
uovo, nel tegamino di Sàtana pel quotidiano suo asciòlvere. Il che tu puòi, o
pittore, segnar nell'ìnfimo campo del frontispizio, sciorinàndovi quindi
all'intorno una processione a spirale — di servitori in livrèa colle accese
candele e con le làgrime agli occhi... pel fumo — di chierichetti
spìzzola-cera — di carrozzoni vuoti — di cotte e di stole —
di stendardi e di croci — di bianco-vestite Stelline, la
carta in mano del tono, lentamente incedendo e cantando.
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