C'era una volta un signor Zèfiro Virgoletti. Egli era un omino
di quelli, tutto elasticità e tutto pepe, nati a confòndere il fìsico assioma che
«dal nulla vien nulla», di quelli, che, cominciata la loro carriera
arrampicàndosi dietro i calessi, rièscono a terminarla sdrajàtivi entro
comodamente. E in verità, Virgoletti possedèa con abbondanza gl'indispensàbili
requisiti per fare una principale figura nel mondo — doppio pel sullo stòmaco e
doppio bronzo sul viso. E già avèa, a quell'ora, esercitato ogni sorta di
«mestieri leggeri», dal giornalista al cantante, dal vendilùcido al candidato
polìtico,, avèa
già fatto il maestro di quanto non conosceva neppure di vista e l'inventore
d'ogni introvàbile cosa, fatto l'autore di òpere in mente Dei e il presidente
di Società non ancor concepite, fatto il dottore della magnetizzata e
l'emigrato e il ferito «per la patria contrada», e così avèa, per lire cinquanta,
giurato in Lutero affine di rigiurare per cinquantuna nel papa; scritto quindi
di ascètica e negoziato di bambagina; cucito libri pel popolino sul
modello-Cantù e offèrtogli insieme quel terno che per lui
non sortiva; barato poi, composto bàlsami e aque per ogni classe di gonzi,
cavato un dente per l'altro,, compilando progetti a estinzione
dei pùbblici dèbiti (e ciò mentr'era, per i privati, in catorbia) e fondando
accademie di letterari e scientìfici scrocchi o banche predestinate a
fallimenti lucrosi. ¡Ma ecché! La stella della disdetta brillàvagli immota sul
capo. Vane le trappolerìe, vana la parlantina, la sfrontatezza, la
insufficienza (che è tutto dire), egli, sul buono d'ogni intrapresa, si addava
di trarre il fil senza groppo, di sparar senza palla, per cui raggiunti i
trent'anni e sol trovàndosi in costa un appetito da eròe, avèa finalmente
compreso che una fortuna, se non la scopriva già bell'e fatta, per conto suo
non ne farebbe mai più.
E così c'era una volta — appunto la volta del signor
Virgoletti — una donna sul fiore della vecchiaja, che si chiamava la signora
Savina Brembati. Vegetava costèi in Lomellina, tra i suòi fumìferi letamài, le
sue stalle di vacche, le sue formaggerìe, inconscia siccome un pòlipo, vèrgine
come... — non ci ha paragone. Ella era una montagna di grascia; un puddingo di
butiro e di manzo, e, perché zoppa un tantino, godèa del sopranome di
«diligenza Franchetti senza una ruota.» Sulle poppe di lei si sarebbero
accomodati agiatamente due gatti; per abbracciarla del tutto bisognava èssere
in due. ¡Buona poi, vi sò dire! Stava in mezzo a cinquemila pèrtiche di marcita
tutte sue e si contentava. Nelle dòdici ore che la dormiva giù e nelle dòdici
dormite sù, non un pensiero in jattura del pròssimo. Anzi, la tenerella usciva
dalla cucina ogniqualvolta vi si sgozzava un pollastro, raccomandando però di
non buttarne via il sangue, e se vedèa un ragno, ¡Dio guardi toccarlo! ¡pòvera
bestia! — chiamava tosto la serva con la ciabatta. E mensilmente faceva la sua
carità della «svànzica» nella cassetta del sagrestano, e quando sentiva che
qualche colono era caduto ammalato, recàvasi personalmente a vedere... se ciò
fosse vero, purché egli stesse a terreno, ché la di lei carità non saliva le
scale. Russava poi la santa sua messa ogni domènica, mangiando devotamente a
Natale il panettone, ostie a Pasqua e ova sode, rèquiem ai Morti e tempia,
rosario a Ognissanti e castagne, e digiunando nelle feste di magro gàmberi e
trote. Intorno a lei tutto ingrassava. Era lardo che respiràvano i pori. Fanny,
la sua cagnina di grembo, dovèa spellarsi, camminando, la pancia. Capponi, oche
e tacchini, buòi, giovenche e majali, parèano, per la pinguèdine, bestie non
mai vedute,, facèano quasi, più che appetito,
paura. D'amore, già, non si parla. Troppa ciccia ovattava quel cuore per èssere
leso da un dardo; ¡eppòi l'amore è sì incòmodo! «Chi men ride, men piange,»
dicèa lei. Ùnico vuoto che la signora Savina sentisse, era quello del ventre,, zêppo il ventre, non pensava che al letto, ma non al
letto di chi non vuol riposare, a un letto invece tutto mollezze, senza rimorsi
e prurito, senza desìi, senza sogni, tranne qualcuno di lotto. Infatti il lotto
era la sola emozione che la signora Savina si permettesse settimanalmente. E
ben lo sanno que' trè galabroni impuntigliàtisi a fare la corte alla sua uva e
a disputarsi quelle cinquemila pèrtiche di cuore, al primo de' quali, cioè il
dottore Semenza, un terrìbil barbone dalla voce in falsetto, ella fe' dire che
la smettesse con le serenate, perché la notte fu fatta, non per sonar ma
dormire, minacciàndolo, se seguitava, di rinfrescargli la testa con qualche
cosa di meno innocente dell'aqua, mentre al secondo, che era il maestro
Giglioli dalla schiena a D e dalle gambucce a X, osservò sur il muso, che lei
non amava un bel niente quella poètica confidenza di dar del «tù» nei sonetti,
e che del resto non si credesse di giulebbarla con que' nomi di Ninfa, di
Madonna e di Àngelo, finché tenesse nella fascietta un àgnus di religione e una
stadera in casa; e, quanto al terzo aspirante, sotto le verdi sembianze del
patentato avvelenator del villaggio, il quale filava l'amore col viso di chi
subisce un clistero e sospirava com'un'armònica frusta dalla minestra al caffè,
non volle averlo più a pranzo, dicendo che le impauriva la fame.
Ebbene — signori mièi — fu proprio in giro di cotesta
fortezza, a quanto sembrava imprendìbile, che il signor Virgoletti, grattàtosi
le sette volte il suo inventivo cotogno, aperse le parallele e le artiglierìe
puntò.
Era la primavera. ¿Vorreste una descrizione? Ne ho mille.
Costa poco grandeggiar dell'altrùi... Ver nòvum: ver jam canòrum; vere nàtus
est òrbis — vere concòrdant amòres; vere nùbunt àlites... — (e, seguitando, il
mio nuovo lunario:) «consolàtevi, sentinelle e innamorati, i quali fate la
guardia a voi stessi, consumando stolidamente le suola sotto griglie che non si
vògliono o sotto inferriate che non si pòssono aprire,, il tempo dei raffreddori è passato; e consolàtevi,
avari, che passò insieme il perìcolo di sciupar la pezzuola. Consolàtevi,
vecchi, ché la scappaste pur bella; e voi, pavoncelle, ché potete di nuovo
andar passeggiando le vostre penne alla moda. Consolàtevi, bimbi, le maggiostre
rossèggiano, mentre per voi, bambinaje, rinverdìscon le allèe cogli annessi
sergenti. E consolàtevi, osti fuori di porta, ricàcciano il capo aspàragi ed
avventori. Consolàtevi, àsini di quattro piedi e di due, il mese della Madonna
già prude; consolàtevi, tarme, si ripòngono i panni. ¡Piangete invece,
spazzacamini, sostrài, pellicciài, farmacòpole! ¡Lottajoli, piangete! ché,
quanto più corte le notti, tanto meno ci ha sogni.»
Era, dunque, del giorno annuale la primavera e del giornaliero
anno l'estate (àlias, il mezzodì). La nostra rispettàbile dama scendeva
machinosamente dal suo piano terreno e a traverso il giardino — un giardino,
non dalle poètiche ajuole di fiori, ma tutto prose a legumi — incedèa, seguita
dalla fedele Fanny, un po' tentennando, verso il cancello. Ché il cuoco quella
stessa mattina nel pettinarla (stòmaco e testa in casa Brembati èrano in mano
del cuoco) avèale raccontato di uno strambo di uno che si vedèa da due o trè dì
al cancello, ammirando per ore quel fico venuto appena d'Amèrica e benché la
curiosità (questa maschile virtù e femminile vizio) non parlasse tropp'alto
nella signora Savina, purtuttavìa, siccome stavolta il soddisfacimento di essa
coincideva con la quotidiana sua passeggiatella, la nostra signora la udiva e
dàvale ascolto.
Difatti, di là del cancello e appoggiato alla griglia, stava lo
sconosciuto. Era un ometto tutto vestito di nero e dalla fisionomìa di sorcio
da moscajola.
Il quale, come scorse la dama, toccossi rispettosamente il
cappello, e la dama, bene educata anche lei, gli rese con un cenno di capo il
saluto.
«Oh che pianta! oh che pianta!» esclamava l'ometto. «Scusi,
madama... ¿La è forse una fìcus Linnei grattabolenta?»
«¿Gratta...?» dimandò con un sorriso intrigato la signora
Savina. «Sarà benìssimo. Ma se il signore,» aggiunse, scorgendo che Virgoletti
volèa come schizzare i suòi curiosi occhiettini sul fico, «desiderasse di
osservarla un po' meglio...» ed aperse il cancello.
¡Quanta compitezza! Virgoletti si confuse in ringraziamenti,
si dilombò in riverenze, si sbracciò in scappellate. Volèa anzi tenere basso il
cappello, ma la signora non lo permise. Fàttosi poi alla pianta, vi si
accosciò. Un padre al non sperato ritorno dell'ùnico figlio non si sarebbe
condotto altrimenti. Palpàvane il fusto quasiché non credesse ai propri occhi,
dicèale frasi di tenerezza, la contemplava estasiato, tanto estasiato che la
signora Savina dovette più di una volta e di due ripètergli: «¿è forse il
signore un botànico?»
«Un po'...» Virgoletti rispose; e lì, togliendo gl'incastri
alla torrenziale sua lingua, la fe' saputa com'ella possedesse un esemplare di
fico, che nelle grandi collezioni di Parigi e di Londra era chiamato
«rarìssimo» e sulla propagazione di cui in aperto terreno pendèvano ancora
indiavolate questioni e si èrano posti de' grossìssimi premi; come, peraltro,
il suo frutto non lusingasse troppo il palato, salvo a innestarlo con una
cert'altra preziosa qualità, che sapeva lui, suo segreto, ma ch'egli avrebbe
ben volentieri mostrata a una sì bella, a una così nòbile dama.
Alla quale profferta, incartata in un complimento, la signora
Savina non potè trattenere un sorriso di riconoscente accettazione; e, ¡tracch!
il signor Virgoletti ci ribadì la promessa di soddisfar la promessa al domani.
Cinque-e-cinque-dieci, lasciàronsi simpatizzando.
E il giorno dopo arrivò e con esso l'innesto del signor
Virgoletti. La signora Brembati porse lei stessa le bende per la lattea ferita
e colle fòrbici che le pendèvano dalla cintura tagliò il superfluo spago del
cappio. L'operazione riuscì a meraviglia. Zèfiro e la margotta annestàronsi
perfettamente.
Allora la dama, per dimostrargli in qualche maniera la
gratitùdine sua, lo invitò nel «di lei pòvero nido.» ¿Come mai dir di no alla
cortesìa in persona? Per cui si pòsero insieme in cammino e la gentile
elefantessa, sempre seguita dall'adiposa Fanny, condusse il nostro cecino a
vedere i suòi «augelletti» (intendi la pollerìa) ch'ella ingrassava al
filantròpico scopo che ingrassàssero lei, e le sue «scuderìe», splèndida
occhiata di mammose giovenche e di cornutìssimi buòi, con la vicina formaggerìa
dai càndidi laghi di latte, fresco tanto da èssere ancora caldo, e dalle pietre
mugnaje di cacio, pezzi da cento lire lievitati in commestìbile forma; poi,
rasentando un ruscello, le cui rive èran tela e la spuma sapone, e passando
framezzo a formidàbili torri di legna (nè ci volèa meno per cuòcer tutto quel
riso che la incessante pila brillava) lo condusse a veder le sue «grotte», che
avèano per stalattiti salami e per stalagmiti bottiglie, con uno sfondo di
botti di cui nessuna rimbombava al nocchino, e i suòi «boschi» biancheggianti e
ferventi di que' preziosi operài — operài ad un tempo e materia — che càngiano
foglie in seta quali artisti di genio. Non solo. Ella lo volle in sua casa,
donde il fràgile lusso di noi cittadini non avèa ancora bandita la campagnuola
massiccia comodità, anzi lo ammise ne' penetrali più sacri, cioè nella stessa
sua càmera dal verginale lettone matrimoniale, una càmera in cui si ammiràvano,
non scatoloni di vesti ma di semenze e seccumi, non tavolette di pèttini ma di
cioccolata, non vasi di fiori o manteca ma di rosmarino e mostarda,, e nel cucinone dal molto affumicato camino e dalle
pareti di rame, lusso colà non ozioso, non sottointendèndogli manco la relativa
morale (morale fatta più chiara dalla doppia misura del seggio) consistente in
quel luogo, trionfatore del mèdico, che fu chiamato per eccellenza «il còmodo»
dall'èssere forse solitamente l'incomodìssimo.
E quì volontieri ripeteremmo le esclamazioni entusiaste del
signor Virgoletti al màgico svilupparsi di cotante bellezze, ma il compositore
ci avverte che in tipografia non sono punti ammirativi bastanti. Diremo solo,
che le figliàvano come cìmici e con esse aumentava nella signora Savina il
prurito di simpatìa per lui, tanto che quando si fu per lasciarsi (tossendo
bronzinamente in quel punto la campanella del pranzo) ella il pregò... di
restare.
Dal quale pranzo data la nuova vita per tutti e due.
Virgoletti trovàvasi infine a suo posto. Capo primo; vuòi la speciale
conformazione, vuòi la non flòrida borsa, Virgoletti vivèa in un perpetuo
appetito, il che, se non è la migliore delle commendatizie per noi che bruciamo
più legna a stirare che a cuòcere e che, contenti del fumo come gli Iddìi
dell'Olimpo, spendiamo pel cuoco quanto dovrèbbesi in cibo, mangiando in gran
porcellana porzioncine minùscole e bevendo in magnìfici vetri pèssimo vino,
quasi che fosse il bicchiere e non il vino da bersi,,
se, dico, cotesta qualità di una bocca alta di cielo non è troppo benvisa a noi
dall'ambiziosa miseria, è la più accetta, è la carìssima invece ai nostri
fratelli rurali, ùnici eredi della paterna ampia ospitalità. Capo secondo;
senza contare l'inalteràbile e inesaurìbile buon umore, porta maestra nelle
case de' ricchi, Zèfiro possedèa, anzi era un manuale di cognizioni per ogni
sorta di pranzo: ad esempio, un pollo ei lo sapeva trinciare tenèndolo infisso
sul forchettone e sollevato dal tondo, sapeva condir l'insalata in maniera da
soddisfare a dieci diversi palati, stappava in un colpo le più ostinate
bottiglie, riempiendo con mille giochetti l'aspettazione fra l'una e l'altra
portata ossìa traendo inaspettati partiti dagli stecchi, dai piatti, dalle
posate... e vievìa. ¡Or voi pensate alla nostra agucchiella che non avèa mai
visto altrettanto! Raggiava il suo onesto faccione, le tremolava la
pappagorgia, e il rìdere, lagrimàndole a tratti, la obbligava a posar la
forchetta per asciugarsi gli occhi col tovagliolo, mentre la serva, ad
aquetarle il singhiozzo, le tambussava la schiena. Zèfiro poi dal buon successo
eccitato, ingollava bocconi strangolatòi, raddoppiava le giullerìe, sentìvasi
insieme, la sedia, fàrsigli sotto di minuto in minuto più sua.
In poche parole, da quel desinare il signorino è di casa. Egli
vi entra ogni mattina per dare un'occhiata alla stampa (rappresentata dal
Sècolo) e alla margotta di fico che si abbàrbica con lui e non ne esce se non
in là nella sera, dopo di avere perduto una dozzina di soldi giocando all'oca
con la signora. Oltre il farle allegrìa, il signor Virgoletti rendèvale mille
servizi; le regolava le pèndole, tenèale viva la poca corrispondenza, recàvale
il sottopiede e sprimacciava il cuscino, leggèale il «Walter Scott» in modo
d'addormentarla coll'insensìbile degradar della voce, velando quindi
tacitamente la finestra o la làmpada e acchiappando le mosche e i farfalloni
importuni. Nè alcuno meglio di lui accendeva e manteneva con tutta economìa il
fuoco, nessuno affrittellava più elegantemente le uova e le frullava con
maggior brìo la rossumatina. Egli era un diàvolo nell'inseguire un debitore
moroso, finché costùi, qual la gazzella il muschiato testìcolo, non gli
gettasse la borsa, ed era un dio per ritrovare le più raffinate golosità o
poltronerìe. Insomma il signor Virgoletti le divenne il factòtum, il cane
barbino. ¡Guài se mancàvale un giorno! mandava in cerca di lui per tutto il
villaggio, per tutto il paese; sbuffava finché non gliel'avèsser condotto. Ché
un incòmodo stesso — abitùdine fatta — diventa un bisogno.
Ma nel sentimento di assuefazione, a stilla a stilla se ne
insinuava un secondo alquanto meno simmètrico. Vènus, quae vènit ad omnia, s'è
ricordata della signora Savina. Quel cuore che parèa bruciato e gelato da un
pezzo, conflagra, ¡e che fiamme! quella dolciaccia che già sorbiva dormitone da
rè (ahi! la falsa metàfora) incomincia a sentir tutto stecchi la piuma del
letto, incomincia ad alzarsi e a scènder nell'orto all'ora della rugiada, lei
che a quella scendèvaci del sudore, a fare mazzi di fiori, lei che sol ne facèa
d'aspàragi, a sospirare — la mano sull'amorosa spia del cuore — or guardando il
cancello, ora l'orme degli scarponi di Zèfiro, per poi, quando questi riappare,
affacciàrsegli incontro, sventolicchiando il moccichino, o, incomodando i suòi
cento chili di polpa, sbassarsi a raccôrre una viola. ¡Pòvera spigolina! la si
struggèa come butiro al fornello, mentre sembrava che la ciccia di lei
trasmigrasse all'amato. E tu càntami, Musa, gl'idìllici giorni in cui si
perdèvano assieme fra l'erboline e i fagioli a caccia delle farfalle o
passeggiàvano a braccio nell'ombre della lunghìssima topia, spicciolàndone
l'uva; e mi canta le sere, trasvolate al camino, come due tòrtori, con
Virgoletti mezzo perduto nelle balzane della fattora e leggente con li occhi
che fiutàvan cipolle i fatti vari del Sècolo, oppure in giardino su quel bubone
di terra, quel sìntomo di montagna, già letamajo spento, fra il gracidar delle
rane e l'infinito odore di sterco che l'universo fuma, tàcita lei qual
testùggine, contemplando il lunone d'agosto o le lùcciole del firmamento, lui
fiso agli occhi di lei (dico que' delle orecchie, due
senza-pari brillanti) e mormoràndole a tratti «¡o Savina, o
Savina, intorno a voi tutto ama!»
Finalmente, adaqua l'uno, adaqua l'altra, la pianta del loro
amore cacciò fuori un bocciuolo. Già la nostra fattora trovava nel suo bel
Zefiretto un po' troppa modestia — una virtù che in simigliante partita è più
lodata che amata. Ma il fico, come il bìblico pomo, risolse gli avvenimenti. Un
anno s'era intessuto su lui e il primo suo frutto, in maturanza completa,
pendèa qual làgrima lì per staccarsi dal ciglio. ¿Che attèndere più? Novella
Eva, la signora Savina protese con un legger tremolìo la mano, lo dispiccò e lo
divise con il pròssimo Adamo. Tutti e due lo assaporàrono silenziosamente,
deliziosamente; tutti e due si occhieggiàrono il «sì.»
Senonché, nel programma di quel giorno solenne, stava prima
una scorpacciata di gala. E se questo è «l'adagio» del duettino a suon di
forchette e di piatti e a stappar di bottiglie,,
quanto «all'allegro», sia che Adamo ne avesse litreggiato un po' più, sia che
avesse ingojato troppi tartufi e troppo formaggio di grana... ¡Via, bimbi!...
un organetto sonava in cortile... la servitù scodellava in tinello... ambedùe
sullo stesso divano... fatto stà...
Fatto stà, che chi rompe paga. La signora Savina Brembati, da
quell'onestìssima donna che era, volle una riparazione e il signor Zèfiro
Virgoletti, un galantomone anche lui, non si sentì di negàrgliela; pianse ma la
sposò.
E quì finirebbe il racconto; ma, giacché, per contentare i
lettori, bisogna che un pòvero scribaccino accompagni i suòi personaggi — uno
almeno — fino al luogo comune (cioè il camposanto) e giacché io, in propòsito,
tengo col pùbblico colpe su colpe di rientrata curiosità, aggiungerò che, oggi
a' dì 20 ottobre del 1876, Zèfiro Virgoletti ha messo trè cose:
1° ha messo pancia,
2° ha messo carrozza,
3° ha messo la moglie sotterra.
¡Oh marito infelice! erèdita 100.000 di
rèddito, ¡eppur trova forza di vìvere!
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