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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO TERZO
      • Scena seconda - Incendio di legna vecchia.
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Scena seconda - Incendio di legna vecchia.

 

C'era una volta un signor Zèfiro Virgoletti. Egli era un omino di quelli, tutto elasticità e tutto pepe, nati a confòndere il fìsico assioma che «dal nulla vien nulla», di quelli, che, cominciata la loro carriera arrampicàndosi dietro i calessi, rièscono a terminarla sdrajàtivi entro comodamente. E in verità, Virgoletti possedèa con abbondanza gl'indispensàbili requisiti per fare una principale figura nel mondodoppio pel sullo stòmaco e doppio bronzo sul viso. E già avèa, a quell'ora, esercitato ogni sorta di «mestieri leggeri», dal giornalista al cantante, dal vendilùcido al candidato polìtico,, avèa già fatto il maestro di quanto non conosceva neppure di vista e l'inventore d'ogni introvàbile cosa, fatto l'autore di òpere in mente Dei e il presidente di Società non ancor concepite, fatto il dottore della magnetizzata e l'emigrato e il ferito «per la patria contrada», e così avèa, per lire cinquanta, giurato in Lutero affine di rigiurare per cinquantuna nel papa; scritto quindi di ascètica e negoziato di bambagina; cucito libri pel popolino sul modello-Cantù e offèrtogli insieme quel terno che per lui non sortiva; barato poi, composto bàlsami e aque per ogni classe di gonzi, cavato un dente per l'altro,, compilando progetti a estinzione dei pùbblici dèbiti (e ciò mentr'era, per i privati, in catorbia) e fondando accademie di letterari e scientìfici scrocchi o banche predestinate a fallimenti lucrosi. ¡Ma ecché! La stella della disdetta brillàvagli immota sul capo. Vane le trappolerìe, vana la parlantina, la sfrontatezza, la insufficienza (che è tutto dire), egli, sul buono d'ogni intrapresa, si addava di trarre il fil senza groppo, di sparar senza palla, per cui raggiunti i trent'anni e sol trovàndosi in costa un appetito da eròe, avèa finalmente compreso che una fortuna, se non la scopriva già bell'e fatta, per conto suo non ne farebbe mai più.

E così c'era una voltaappunto la volta del signor Virgoletti — una donna sul fiore della vecchiaja, che si chiamava la signora Savina Brembati. Vegetava costèi in Lomellina, tra i suòi fumìferi letamài, le sue stalle di vacche, le sue formaggerìe, inconscia siccome un pòlipo, vèrgine come... — non ci ha paragone. Ella era una montagna di grascia; un puddingo di butiro e di manzo, e, perché zoppa un tantino, godèa del sopranome di «diligenza Franchetti senza una ruota.» Sulle poppe di lei si sarebbero accomodati agiatamente due gatti; per abbracciarla del tutto bisognava èssere in due. ¡Buona poi, vi dire! Stava in mezzo a cinquemila pèrtiche di marcita tutte sue e si contentava. Nelle dòdici ore che la dormiva giù e nelle dòdici dormite , non un pensiero in jattura del pròssimo. Anzi, la tenerella usciva dalla cucina ogniqualvolta vi si sgozzava un pollastro, raccomandando però di non buttarne via il sangue, e se vedèa un ragno, ¡Dio guardi toccarlo! ¡pòvera bestia! — chiamava tosto la serva con la ciabatta. E mensilmente faceva la sua carità della «svànzica» nella cassetta del sagrestano, e quando sentiva che qualche colono era caduto ammalato, recàvasi personalmente a vedere... se ciò fosse vero, purché egli stesse a terreno, ché la di lei carità non saliva le scale. Russava poi la santa sua messa ogni domènica, mangiando devotamente a Natale il panettone, ostie a Pasqua e ova sode, rèquiem ai Morti e tempia, rosario a Ognissanti e castagne, e digiunando nelle feste di magro gàmberi e trote. Intorno a lei tutto ingrassava. Era lardo che respiràvano i pori. Fanny, la sua cagnina di grembo, dovèa spellarsi, camminando, la pancia. Capponi, oche e tacchini, buòi, giovenche e majali, parèano, per la pinguèdine, bestie non mai vedute,, facèano quasi, più che appetito, paura. D'amore, già, non si parla. Troppa ciccia ovattava quel cuore per èssere leso da un dardo; ¡eppòi l'amore è sì incòmodo! «Chi men ride, men piangedicèa lei. Ùnico vuoto che la signora Savina sentisse, era quello del ventre,, zêppo il ventre, non pensava che al letto, ma non al letto di chi non vuol riposare, a un letto invece tutto mollezze, senza rimorsi e prurito, senza desìi, senza sogni, tranne qualcuno di lotto. Infatti il lotto era la sola emozione che la signora Savina si permettesse settimanalmente. E ben lo sanno que' trè galabroni impuntigliàtisi a fare la corte alla sua uva e a disputarsi quelle cinquemila pèrtiche di cuore, al primo de' quali, cioè il dottore Semenza, un terrìbil barbone dalla voce in falsetto, ella fe' dire che la smettesse con le serenate, perché la notte fu fatta, non per sonar ma dormire, minacciàndolo, se seguitava, di rinfrescargli la testa con qualche cosa di meno innocente dell'aqua, mentre al secondo, che era il maestro Giglioli dalla schiena a D e dalle gambucce a X, osservò sur il muso, che lei non amava un bel niente quella poètica confidenza di dar del «» nei sonetti, e che del resto non si credesse di giulebbarla con que' nomi di Ninfa, di Madonna e di Àngelo, finché tenesse nella fascietta un àgnus di religione e una stadera in casa; e, quanto al terzo aspirante, sotto le verdi sembianze del patentato avvelenator del villaggio, il quale filava l'amore col viso di chi subisce un clistero e sospirava com'un'armònica frusta dalla minestra al caffè, non volle averlo più a pranzo, dicendo che le impauriva la fame.

Ebbene — signori mièi — fu proprio in giro di cotesta fortezza, a quanto sembrava imprendìbile, che il signor Virgoletti, grattàtosi le sette volte il suo inventivo cotogno, aperse le parallele e le artiglierìe puntò.

Era la primavera. ¿Vorreste una descrizione? Ne ho mille. Costa poco grandeggiar dell'altrùi... Ver nòvum: ver jam canòrum; vere nàtus est òrbisvere concòrdant amòres; vere nùbunt àlites... — (e, seguitando, il mio nuovo lunario:) «consolàtevi, sentinelle e innamorati, i quali fate la guardia a voi stessi, consumando stolidamente le suola sotto griglie che non si vògliono o sotto inferriate che non si pòssono aprire,, il tempo dei raffreddori è passato; e consolàtevi, avari, che passò insieme il perìcolo di sciupar la pezzuola. Consolàtevi, vecchi, ché la scappaste pur bella; e voi, pavoncelle, ché potete di nuovo andar passeggiando le vostre penne alla moda. Consolàtevi, bimbi, le maggiostre rossèggiano, mentre per voi, bambinaje, rinverdìscon le allèe cogli annessi sergenti. E consolàtevi, osti fuori di porta, ricàcciano il capo aspàragi ed avventori. Consolàtevi, àsini di quattro piedi e di due, il mese della Madonna già prude; consolàtevi, tarme, si ripòngono i panni. ¡Piangete invece, spazzacamini, sostrài, pellicciài, farmacòpole! ¡Lottajoli, piangete! ché, quanto più corte le notti, tanto meno ci ha sogni

Era, dunque, del giorno annuale la primavera e del giornaliero anno l'estate (àlias, il mezzodì). La nostra rispettàbile dama scendeva machinosamente dal suo piano terreno e a traverso il giardino — un giardino, non dalle poètiche ajuole di fiori, ma tutto prose a legumiincedèa, seguita dalla fedele Fanny, un po' tentennando, verso il cancello. Ché il cuoco quella stessa mattina nel pettinarla (stòmaco e testa in casa Brembati èrano in mano del cuoco) avèale raccontato di uno strambo di uno che si vedèa da due o trè al cancello, ammirando per ore quel fico venuto appena d'Amèrica e benché la curiosità (questa maschile virtù e femminile vizio) non parlasse tropp'alto nella signora Savina, purtuttavìa, siccome stavolta il soddisfacimento di essa coincideva con la quotidiana sua passeggiatella, la nostra signora la udiva e dàvale ascolto.

Difatti, di del cancello e appoggiato alla griglia, stava lo sconosciuto. Era un ometto tutto vestito di nero e dalla fisionomìa di sorcio da moscajola.

Il quale, come scorse la dama, toccossi rispettosamente il cappello, e la dama, bene educata anche lei, gli rese con un cenno di capo il saluto.

«Oh che pianta! oh che piantaesclamava l'ometto. «Scusi, madama... ¿La è forse una fìcus Linnei grattabolenta

«¿Gratta...?» dimandò con un sorriso intrigato la signora Savina. «Sarà benìssimo. Ma se il signoreaggiunse, scorgendo che Virgoletti volèa come schizzare i suòi curiosi occhiettini sul fico, «desiderasse di osservarla un po' meglio...» ed aperse il cancello.

¡Quanta compitezza! Virgoletti si confuse in ringraziamenti, si dilombò in riverenze, si sbracciò in scappellate. Volèa anzi tenere basso il cappello, ma la signora non lo permise. Fàttosi poi alla pianta, vi si accosciò. Un padre al non sperato ritorno dell'ùnico figlio non si sarebbe condotto altrimenti. Palpàvane il fusto quasiché non credesse ai propri occhi, dicèale frasi di tenerezza, la contemplava estasiato, tanto estasiato che la signora Savina dovette più di una volta e di due ripètergli: «¿è forse il signore un botànico

«Un po'...» Virgoletti rispose; e , togliendo gl'incastri alla torrenziale sua lingua, la fe' saputa com'ella possedesse un esemplare di fico, che nelle grandi collezioni di Parigi e di Londra era chiamato «rarìssimo» e sulla propagazione di cui in aperto terreno pendèvano ancora indiavolate questioni e si èrano posti de' grossìssimi premi; come, peraltro, il suo frutto non lusingasse troppo il palato, salvo a innestarlo con una cert'altra preziosa qualità, che sapeva lui, suo segreto, ma ch'egli avrebbe ben volentieri mostrata a una sì bella, a una così nòbile dama.

Alla quale profferta, incartata in un complimento, la signora Savina non potè trattenere un sorriso di riconoscente accettazione; e, ¡tracch! il signor Virgoletti ci ribadì la promessa di soddisfar la promessa al domani. Cinque-e-cinque-dieci, lasciàronsi simpatizzando.

E il giorno dopo arrivò e con esso l'innesto del signor Virgoletti. La signora Brembati porse lei stessa le bende per la lattea ferita e colle fòrbici che le pendèvano dalla cintura tagliò il superfluo spago del cappio. L'operazione riuscì a meraviglia. Zèfiro e la margotta annestàronsi perfettamente.

Allora la dama, per dimostrargli in qualche maniera la gratitùdine sua, lo invitò nel «di lei pòvero nido.» ¿Come mai dir di no alla cortesìa in persona? Per cui si pòsero insieme in cammino e la gentile elefantessa, sempre seguita dall'adiposa Fanny, condusse il nostro cecino a vedere i suòi «augelletti» (intendi la pollerìa) ch'ella ingrassava al filantròpico scopo che ingrassàssero lei, e le sue «scuderìe», splèndida occhiata di mammose giovenche e di cornutìssimi buòi, con la vicina formaggerìa dai càndidi laghi di latte, fresco tanto da èssere ancora caldo, e dalle pietre mugnaje di cacio, pezzi da cento lire lievitati in commestìbile forma; poi, rasentando un ruscello, le cui rive èran tela e la spuma sapone, e passando framezzo a formidàbili torri di legna ( ci volèa meno per cuòcer tutto quel riso che la incessante pila brillava) lo condusse a veder le sue «grotte», che avèano per stalattiti salami e per stalagmiti bottiglie, con uno sfondo di botti di cui nessuna rimbombava al nocchino, e i suòi «boschi» biancheggianti e ferventi di que' preziosi operàioperài ad un tempo e materia — che càngiano foglie in seta quali artisti di genio. Non solo. Ella lo volle in sua casa, donde il fràgile lusso di noi cittadini non avèa ancora bandita la campagnuola massiccia comodità, anzi lo ammise ne' penetrali più sacri, cioè nella stessa sua càmera dal verginale lettone matrimoniale, una càmera in cui si ammiràvano, non scatoloni di vesti ma di semenze e seccumi, non tavolette di pèttini ma di cioccolata, non vasi di fiori o manteca ma di rosmarino e mostarda,, e nel cucinone dal molto affumicato camino e dalle pareti di rame, lusso colà non ozioso, non sottointendèndogli manco la relativa morale (morale fatta più chiara dalla doppia misura del seggio) consistente in quel luogo, trionfatore del mèdico, che fu chiamato per eccellenza «il còmodo» dall'èssere forse solitamente l'incomodìssimo.

E quì volontieri ripeteremmo le esclamazioni entusiaste del signor Virgoletti al màgico svilupparsi di cotante bellezze, ma il compositore ci avverte che in tipografia non sono punti ammirativi bastanti. Diremo solo, che le figliàvano come cìmici e con esse aumentava nella signora Savina il prurito di simpatìa per lui, tanto che quando si fu per lasciarsi (tossendo bronzinamente in quel punto la campanella del pranzo) ella il pregò... di restare.

Dal quale pranzo data la nuova vita per tutti e due. Virgoletti trovàvasi infine a suo posto. Capo primo; vuòi la speciale conformazione, vuòi la non flòrida borsa, Virgoletti vivèa in un perpetuo appetito, il che, se non è la migliore delle commendatizie per noi che bruciamo più legna a stirare che a cuòcere e che, contenti del fumo come gli Iddìi dell'Olimpo, spendiamo pel cuoco quanto dovrèbbesi in cibo, mangiando in gran porcellana porzioncine minùscole e bevendo in magnìfici vetri pèssimo vino, quasi che fosse il bicchiere e non il vino da bersi,, se, dico, cotesta qualità di una bocca alta di cielo non è troppo benvisa a noi dall'ambiziosa miseria, è la più accetta, è la carìssima invece ai nostri fratelli rurali, ùnici eredi della paterna ampia ospitalità. Capo secondo; senza contare l'inalteràbile e inesaurìbile buon umore, porta maestra nelle case de' ricchi, Zèfiro possedèa, anzi era un manuale di cognizioni per ogni sorta di pranzo: ad esempio, un pollo ei lo sapeva trinciare tenèndolo infisso sul forchettone e sollevato dal tondo, sapeva condir l'insalata in maniera da soddisfare a dieci diversi palati, stappava in un colpo le più ostinate bottiglie, riempiendo con mille giochetti l'aspettazione fra l'una e l'altra portata ossìa traendo inaspettati partiti dagli stecchi, dai piatti, dalle posate... e vievìa. ¡Or voi pensate alla nostra agucchiella che non avèa mai visto altrettanto! Raggiava il suo onesto faccione, le tremolava la pappagorgia, e il rìdere, lagrimàndole a tratti, la obbligava a posar la forchetta per asciugarsi gli occhi col tovagliolo, mentre la serva, ad aquetarle il singhiozzo, le tambussava la schiena. Zèfiro poi dal buon successo eccitato, ingollava bocconi strangolatòi, raddoppiava le giullerìe, sentìvasi insieme, la sedia, fàrsigli sotto di minuto in minuto più sua.

In poche parole, da quel desinare il signorino è di casa. Egli vi entra ogni mattina per dare un'occhiata alla stampa (rappresentata dal Sècolo) e alla margotta di fico che si abbàrbica con lui e non ne esce se non in nella sera, dopo di avere perduto una dozzina di soldi giocando all'oca con la signora. Oltre il farle allegrìa, il signor Virgoletti rendèvale mille servizi; le regolava le pèndole, tenèale viva la poca corrispondenza, recàvale il sottopiede e sprimacciava il cuscino, leggèale il «Walter Scott» in modo d'addormentarla coll'insensìbile degradar della voce, velando quindi tacitamente la finestra o la làmpada e acchiappando le mosche e i farfalloni importuni. alcuno meglio di lui accendeva e manteneva con tutta economìa il fuoco, nessuno affrittellava più elegantemente le uova e le frullava con maggior brìo la rossumatina. Egli era un diàvolo nell'inseguire un debitore moroso, finché costùi, qual la gazzella il muschiato testìcolo, non gli gettasse la borsa, ed era un dio per ritrovare le più raffinate golosità o poltronerìe. Insomma il signor Virgoletti le divenne il factòtum, il cane barbino. ¡Guài se mancàvale un giorno! mandava in cerca di lui per tutto il villaggio, per tutto il paese; sbuffava finché non gliel'avèsser condotto. Ché un incòmodo stesso — abitùdine fatta — diventa un bisogno.

Ma nel sentimento di assuefazione, a stilla a stilla se ne insinuava un secondo alquanto meno simmètrico. Vènus, quae vènit ad omnia, s'è ricordata della signora Savina. Quel cuore che parèa bruciato e gelato da un pezzo, conflagra, ¡e che fiamme! quella dolciaccia che già sorbiva dormitone da (ahi! la falsa metàfora) incomincia a sentir tutto stecchi la piuma del letto, incomincia ad alzarsi e a scènder nell'orto all'ora della rugiada, lei che a quella scendèvaci del sudore, a fare mazzi di fiori, lei che sol ne facèa d'aspàragi, a sospirare — la mano sull'amorosa spia del cuore — or guardando il cancello, ora l'orme degli scarponi di Zèfiro, per poi, quando questi riappare, affacciàrsegli incontro, sventolicchiando il moccichino, o, incomodando i suòi cento chili di polpa, sbassarsi a raccôrre una viola. ¡Pòvera spigolina! la si struggèa come butiro al fornello, mentre sembrava che la ciccia di lei trasmigrasse all'amato. E tu càntami, Musa, gl'idìllici giorni in cui si perdèvano assieme fra l'erboline e i fagioli a caccia delle farfalle o passeggiàvano a braccio nell'ombre della lunghìssima topia, spicciolàndone l'uva; e mi canta le sere, trasvolate al camino, come due tòrtori, con Virgoletti mezzo perduto nelle balzane della fattora e leggente con li occhi che fiutàvan cipolle i fatti vari del Sècolo, oppure in giardino su quel bubone di terra, quel sìntomo di montagna, già letamajo spento, fra il gracidar delle rane e l'infinito odore di sterco che l'universo fuma, tàcita lei qual testùggine, contemplando il lunone d'agosto o le lùcciole del firmamento, lui fiso agli occhi di lei (dico que' delle orecchie, due senza-pari brillanti) e mormoràndole a tratti «¡o Savina, o Savina, intorno a voi tutto ama

Finalmente, adaqua l'uno, adaqua l'altra, la pianta del loro amore cacciò fuori un bocciuolo. Già la nostra fattora trovava nel suo bel Zefiretto un po' troppa modestia — una virtù che in simigliante partita è più lodata che amata. Ma il fico, come il bìblico pomo, risolse gli avvenimenti. Un anno s'era intessuto su lui e il primo suo frutto, in maturanza completa, pendèa qual làgrima per staccarsi dal ciglio. ¿Che attèndere più? Novella Eva, la signora Savina protese con un legger tremolìo la mano, lo dispiccò e lo divise con il pròssimo Adamo. Tutti e due lo assaporàrono silenziosamente, deliziosamente; tutti e due si occhieggiàrono il «sì.»

Senonché, nel programma di quel giorno solenne, stava prima una scorpacciata di gala. E se questo è «l'adagio» del duettino a suon di forchette e di piatti e a stappar di bottiglie,, quanto «all'allegro», sia che Adamo ne avesse litreggiato un po' più, sia che avesse ingojato troppi tartufi e troppo formaggio di grana... ¡Via, bimbi!... un organetto sonava in cortile... la servitù scodellava in tinello... ambedùe sullo stesso divano... fatto stà...

Fatto stà, che chi rompe paga. La signora Savina Brembati, da quell'onestìssima donna che era, volle una riparazione e il signor Zèfiro Virgoletti, un galantomone anche lui, non si sentì di negàrgliela; pianse ma la sposò.

E quì finirebbe il racconto; ma, giacché, per contentare i lettori, bisogna che un pòvero scribaccino accompagni i suòi personaggi — uno almeno — fino al luogo comune (cioè il camposanto) e giacché io, in propòsito, tengo col pùbblico colpe su colpe di rientrata curiosità, aggiungerò che, oggi a' 20 ottobre del 1876, Zèfiro Virgoletti ha messo trè cose:

ha messo pancia,

ha messo carrozza,

ha messo la moglie sotterra.

¡Oh marito infelice! erèdita 100.000 di rèddito, ¡eppur trova forza di vìvere!


 




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