«¿E dunque, come si passa la sera?» chiesi a Silvio Sospiri,
un perticone di giovinotto biondìssimo e pallidìssimo tal da sembrare
un'imàgine a fresco semi-svanita. Il qual Silvio, che io
tratteneva per un bottone in mezzo alla strada, era figlio d'un facoltoso mio
conoscente di villa ed era stato, dopo vent'anni di càrcere educativo in un
collegio gesuita, lanciato di colpo nel mare màgnum di una città capitale «per
perfezionarlo» dicèa suo babbo, senza pensare che un uccello ûso alla gabbia —
schiùdigli lo sportellino — o non esce o vola dritto nel gatto. Vero, peraltro,
che l'egregio pappà me l'avèa assai raccomandato, pregàndomi di procurargli
delle sane amicizie. Feci quanto poteva, gli apersi a due battenti la mia
librerìa. ¡Arrivederci! Silvio non mi venne più in casa.
«Eh! ci si diverte, la sera,» egli rispose molleggiàndosi
sulle gambe, «si và dalla principessa...»
«¡Nèspole! ¿una principessa?»
«Eh sì. ¿Non la conosci?... oh bella!... la Potanovv... Una
gran dama di Pietroburgo che riceve ogni sera e fà gli onori di casa
divinamente. È vecchia, ma non t'accorgi. Da lei sono tutti à son aise, perché
ciascuno ci fà quanto gli accòmoda. Vi si beve, si fuma, si ciancia... si
giuoca anche un pochetto... ¡Anzi! ¡tò, mi scordavo! jer l'altro le ho
guadagnato un migliajo di lire...»
«Me ne duole,» osservài a fiore di labbro.
«E a propòsito,» continuò egli, affettando la spacciatura, «
se puòi, me le dovresti prestare...»
«¿Ma e non le hai guadagnate?»
«Per ciò appunto, amico... Domani me le han da pagare.»
Feci un attuccio di dispiacere, esclamando:
«¡Guarda combinazione! stavo per chièdertele io.»
«Un'altra volta, allora. Adieu.»
«¿Vai già?»
«Sono le sei. La principessa m'aspetta.» E lì, piroettando sui
tacchi e chiamando il suo Stop, un levriere abbondantìssimo a gambe e scarso a
cervello come il padrone, Silvio si allontanò a passi lunghi e sconnessi.
¡E ben vada e s'imprìncipi e vada insieme in malora, il
cuccìssimo! La di lui principessa, ¿chi non s'accorge? era uno di que' prodotti
che Santa Russia (questa immensa ghiacciaja predestinata a conservare la
stramatura civiltà nostra finché ne arrivi una fresca e tutta nuova d'Amèrica)
favorisce all'Europa — in attesa del Messìa Knut — coll'argento di Tula, col cuojo,
con il Mercurio che salda i conti della sorella e con gli orsi ballonzolanti a
suon di bastone. Ella era di quelle sòlite dame, che appàjono e spàjono a un
tratto come le celebrità della moda, sempre divise da mariti ipotètici, sempre
in lite col Zar per non so quanti chilòmetri di sterilità confiscata, le quali
han dovuto cambiare aria, dìcono loro, per la salute e cui i mèdici han
suggerito il sole d'Italia. Del nostro sole però, Pàola Nicolaevna non godeva
che poca luna, Pàola si alzava a coricate galline.
E questa era l'ora, allo scoccar della quale i suòi dorati
saloni s'illuminàvano e popolàvansi della crème furfantina, del liebig di tutte
le bestie della città: era l'ora del giuoco.
¡O giuoco! sorridente parola. Per tè mi si sveglia il ricordo della
seppellita infanzia, e i balocchi, già da un pezzo disfatti, mi risùscitano in
cuore; è una danza macabra di schioppettini, fantocci e cavalloni di legno. E
io odo ancora i nùmeri della tòmbola naseggiati dal cappellano e notati sol
dalle zie, ché il vero gioco fra noi cuginette e cugini stà disotto la tàvola;
e io mi risento, la benda sugli occhi, in mezzo a un gran prato ed a
freschìssime risa colla mia buona Marie che m'aizza e si lascia acchiappare e
abbracciare sì volentieri da mè. Ecco poi — all'improvviso seghìo di un violino
— il nonno, un po' brillo, porge la mano alla nonna e ritrova con lei, tra il
bàtter di palma dei nipoti dei figli, il minuetto che già ballàvan promessi;
mentre, nel caldo del caminone ospitale e nel caldo dell'autunnale liquore,
incròciansi in un crocchio d'amici l'epigramma e il bisticcio, morsi privi di
denti, vespeggio senza veleno, saviezza in àbito di follìa; ecco infine... ¡Ma
che! non è giuoco, quello. Trattenimento piacèvole è il giuoco. ¿Or, chi
direbbe che si divèrton coloro, a quel verde tappeto donde si miete la gialla
messe dell'oro? Mìrane i visi. Son visi di agonizzanti che incùbano un
assassinio. Mira principalmente colèi, quella vecchia (che è Pàola) dallo
sguardo avarìssimo, la parrucca in traverso, il corsetto slacciato, dimèntica
di quel pudore che all'età sua è precetto, non più di lussuria, ma di nettezza.
No, non giuoca colèi; soffre. E tutti chièdono carte, sollecitàndole
febbrilmente, quasiché il loro danno non fosse abbastanza veloce, e si sacchéggiano
reciprocamente, dissimulando sotto i sorrisi lo strazio e nel broncio la gioia
— immòbili su quella sedia e in quella stessa passione — finché le candele
abbruciando entro le gorgerette, e il primo sole, insinuàndosi per gli
spiragli, annùncin l'ora dei galantuòmini.
¿Or chi susurra di polizìa? ¿chi si lamenta di lei? ¿chi
l'invoca? Oh gl'ingenui! Que' valorosi che assaltan la strada con privilegio
del rè hanno troppo da fare a difènder dai mìseri i ricchi, per poter da
costoro la moralità, oppure crèdono, quali polìtici economisti, che soltanto
nei cenci pidocchia la corrutela. ¡Bella poi! ¡sarà tolto il naturale diritto
di rovinarsi, quand'anche ciò avvenga in òttima società, anzi tra amici,
cangiando spesso le carte con non lieve vantaggio della tassa di bollo! ¡Ecché!
¿vuol forse lo Stato mandarci all'asta, lui solo, con quel diavoloso suo lotto?
¿sarebbe forse la truffa un monopolio governativo? Taci, dunque, Morale, e
contèntati di rosicchiare le ossa spolpate dalla Finanza. Proibire l'azzardo,
val proibire la vita. Nato d'azzardo è il medèsimo mondo. Ei ti dà moglie e
figliuoli; egli, con una capata, ti fa d'uno zero un genio, o d'un genio uno
zero. Da lui, le scoperte più insigni; per lui tuttavìa la corona d'alloro, che
il mèrito getta a Gorini, cade in capo a un Palmieri, e la gloria del rischioso
Colombo si nòmina da un Amerigo. Tanto nella più meditata elezione quanto in un
tratto di buschette o di dadi entra la stessa prudenza. Trenta e quaranta,
rollina, lotto, macào, son vera vita in compendio.
Come però nella vita non è tutto sfortuna, così non si pensi
che al verde tappeto di Pàola non si vincesse talvolta e che anche la dama non
ci perdesse talaltra. Ella perdeva anzi spesso, ma raramente pagava. Poca
memoria in sìmili inezie di dare ed avere è cosa da gran signore. ¿E chi poteva
rammentàrlene mai, immèmore per proprio conto della serale accoglienza
inalterabilmente gentile? ¿Non èrano forse compensati fintroppo, i pòveri sori,
dall'assettare i loro plebèi deretani sulle stemmate sue sèggiole? ¿dal
salutarla in istrada, invidianti i compagni? ¿dal sedèrsele al fianco in
calesse, sentèndosi dire: mon cher? ¿dal potere perfino, entrando in un
affollato negozio e cavando da un portafogli un conto di lei e de' propri
denari, esclamare: «la principessa tale mi manda...?» — Poiché a strofinarsi
attorno la nobiltà, come attorno l'ingegno e le marmitte, qualchecosa sen
piglia; màssime dalla nobiltà di fàcile sdoratura.
Senonché, una mattina, giusto nell'ora in cui la notte depone
il suo nero mantello nelle mani dell'alba, incontrài il mio Silvio, pàllido,
turbatìssimo. M'avèano detto, in prima sera al casino, com'egli avesse perduta
una grossìssima somma, e ben si capiva dall'aspetto di lui che non avèala
riguadagnata.
«¿Donde vieni?» gli chiesi.
«Vengo... vengo dalla principessa,» risposemi farfocchiando.
Ma stavolta quel nome non gli adulava il palato.
E, ¡davvero! in materia di forca, tanto strozza la seta che il
cànape — tanto serve Repùbblica che Monarchìa.
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