«Favorisca di attèndere. La signora stà cercando una rima, e
non appena l'avrà trovata, sarà da lei.» Così disse con prosopopèa un domèstico
in cappa nera e fedine, introducendo Giacinto Umiltà in una gran sala, ed
aggiunse: «segga pure, se vuole.»
Rimasto solo Umiltà, rimase anche in quello stato
d'impacciatura di chi, la prima volta, è in casa d'altri, principalmente di un
pòvero in una dimora di ricchi,, quando, assuefatto alle gelate
nudità di un intònaco, tròvasi intorno pompose tappezzerìe abbarbaglianti di
dorature e alitanti un tepore di serra, e sotto le suole, rôse dalla cirossa,
un denso vellutato tappeto. Rimase lì immòbile, su gambettucce dirò letterarie
cioè un poco guerce, col suo manoscritto dal roseo nastrino in mano, miràndosi
imbarazzato le unghie che gli crescèvan dai guanti e sentèndosi bàttere il
cuore celermente. E infatti, ¿dov'era mai? Era in quel luogo, suo lungo desìo,
anzi suo sogno, ma che, per quanto si fosse sforzato a raggiùngere, avèa sempre
veduto a tiro di telescopio,, in quel salone famoso, bigattiera
di geni, donde uscìvan le leggi e le sentenze della gran crìtica e si
schiudèvano o si riempìvan di nubi gli orizzonti della polìtica,, dove si gonfiàvano i màntici del giornalismo,, dove, in mezzo al fumar de' turìboli e il modular degli
zùfoli e tra uno sbadiglio e un sospiro, si smattonava una riputazione di
contrabbando (leggi, non della cricca) o si scoprìvano di quando in quando, fra
la paletta e le molli o nello scopare la sala, i grand'uòmini; egli era da
quella baronessa Caprara che dava fama e toglieva la fame, detta perciò la
portinaja della celebrità, la pitonessa del gusto, la chioccia dei letterati...
E lì sembrava a Giacinto di eròmpere già dal suo uovo.
In quel salone incrociàvasi curiosamente un odore d'incenso che
aliava da una pròssima chiesa ed uno d'arrosto sorgente dalla cucina. Giacinto
aspirò quest'ùltimo con voluttà, sentèndosi galoppar le budella. ¿A che grado
mai di cottura poteva èsser per lui quell'arrosto? per cui si volse a
ragguagliare il suo oriuolo, dico la pancia, al pèndolo del caminetto
(rappresentante in bronzo dorato la nàscita della Poesìa al suon della lira) e
insieme scorse, con un sussulto, nell'ampio specchio l'apparizione di un viso
incorniciato di una zàzzera negra, astiosa del parrucchiere — un viso
gialliccio, a crespe ed ammaccature, dagli zìgomi in fuori e dagli occhi in
dentro — ch'ei riconobbe, con un altro sussulto, per suo.
In attesa peraltro di pàscersi il ventre, cominciò a pàscer la
vista gironzando la sala; e, camminando più sòffice che mai potesse, benché
veramente non ci fosse perìcolo che le ciabatte di lui scricchiolàssero, si
diede a osservare, innanzi tutto, i quadri. I quadri èran pochi, ma
significativi. Due grandi, di romanzesco argomento; il primo, cavato
dall'Orlando Furioso, la dimora del sonno; il secondo, dal Don Chisciotte,
Rocinante y el rucìo, che si fregàvan le schiene con tale amico entusiasmo da
mèttere in pelle, a chi sol li vedeva, il prurito. Due poi di mole minore; uno,
di tema ortolano, raffigurante verdure d'ìndole rinfrescativa come rape, malve,
lattuga, aspàragi e zucche,, l'altro, di venatorio, un mucchio
cioè di lepri, conigli, merli, oche, barbagianni, capponi — dipinti morti sì
bene che parèvano vivi. Senonché, ciò che attraeva ogni sguardo era il ritratto
a mezza figura della stessa padrona di casa — donna Eugenia Caprara — in
costume di Saffo, con una ghitarra sull'anca, un ròtolo in pugno e coronata la
testa di quelle foglie gloriose «di cui ricca ne và la gelatina.» E Giacinto la
fisò avidamente, compitàndone il volto, grassoccio di floscia bontà e
sorridente a sé stesso, e più fisava, più il cuore gli si rinfrancava, mentre
già gli pareva — allucinato dalla speranza e dall'appetito — che il càndido velo
di lei si mutasse in tovaglia, in menu il rotoletto, e che sotto l'alloro
comparisse un tacchino.
Il che versando nuovo olio nel lume del suo semispento
coraggio, permìsegli di esaminare più davvicino e al minuto gli arredi di quel
salone. E osò allora scoccar perfino un buffetto alle teste pelate dei
chinesini di porcellana che ornàvano il caminetto e acconsentìvano al mìnimo
soffio, poi, fàttosi al pianoforte, sparso di mùsica appositamente scritta pel
tonno, avanzò temerario la mano in un grosso quaderno che ne aggravava il
leggìo. Era l'òpera — o come volèa il suo autore — il romanzo di acùstica,
intitolato «il grand'orso preistòrico», cioè dieci atti di fiasco, tra i
fiaschi il più colossale che fosse mai stato impagliato in casa Caprara,, un'òpera di cui la tesi èran gli effetti di una
morsicatura arrabbiata e il dominante motivo l'asma, ma nella quale il maestro,
al dire di chi s'intendeva, avèa dovuto sudare una indiavolata fatica per
combinare note che stèssero in contrappunto perfetto, senz'èssere mùsica,, un'òpera inoltre, ricca di prefazioni, note,
avvertenze, crìtiche e controcrìtiche, in cui Hans Hänschen, autor loro,
enumerava le càuse filosòfiche e stòriche del mètodo suo e del vittorioso
insuccesso, scrivendo fra l'altre cose, ch'egli s'era proposto di cancellare
con la sua àlgebra armònica tutte le illògiche puerilità che ai tempi di
Rossini e Bellini e simili effeminatori si chiamàvano arie, duetti, terzetti e
vievìa. E, naturalmente, quest'òpera recava nel frontespizio la baronale corona
e il nome della Caprara, ché la nòbile dama, in quella prima e ùltima sera del
fiasco, avèa sciupato, applaudendo, quattro paja di guanti per ottenere l'onore
di farsi urlar col maestro — generosìssimo atto, che valèa un... — e incoraggiò
il nostro Umiltà a sfiorar colle dita la scoperta tastiera, traèndone fuori
un... — sol-do.
Ché, come ho detto, il coraggio ripullulava in Giacinto.
Sìstole e diàstole gli èran tornate in perfetto equilibrio. Dal pianoforte —
dopo una pìccola sosta ad uno scaffale sul quale scoprì con assài meraviglia un
volume dei Promessi sposi in istretto colloquio con un dizionario
italiano-francese — andò a fermarsi al tavolone di mezzo,
al trìpode così detto (volgarmente, trepiede) nel centro di cui un gran mazzo
di fiori di carta che parèan di pezza si ergeva da un mucchio di manifesti di
società di mutua ammirazione e di seccature pel pròssimo, di buste di lèttere
dai laudativi indirizzi, di opùscoli e libri e giornali, tutti di un solo colore
(cioè il blù-sùdicio della padrona di casa) e, torcendo la
vite del collo verso una coppa, stette a occhieggiare i biglietti di vìsita di
tutte le celebrità delle ùltime ventiquattr'ore — borsajoli in carrozza,
improvvisatori felici di versi altrùi,
còmpera-voti-per-vènderli, umani usignoli, artisti per
amore del nudo, tinche e trotelle da inchiostro coi pescicani lor crìtici... —
finché, drusciata timidamente la palma sull'imbottito di una vicina poltrona,
fece uno sforzo e vi siedette su 'n àngolo.
Di dove, godùtosi alquanto l'insòlito mòrbido, si arrischiò ad
allungare la mano ai moltìssimi libri sparsi sul tavolone. Èrano libri di tutta
attualità. C'era «del vacuo infinito», filosòfico saggio attribuito a Wagner, e
«del paludamento imperiale sui nani», archeològiche considerazioni dedicate
a...; c'èrano i romanzetti d'alcova d'alcuni màssimi nella Illetteratura, e,
per converso, assài tomi della «raccolta pel seggiolino del buco», una raccolta
che già comprendeva a quell'ora Il biscottino di Novara, ossìa il premio della
docilità, storia patria,, L'insalatina, novella
contemporanea,, La caduta del primo dente di
latte, poema èpico,, gli oè oè, versi infantili, April
dolce dormir, madrigali e stornelli,, La fede di miserabilità e Il
risparmio del sale, manuali per l'onesto operajo,,
L'ora delle galline osservazioni d'igiene,, Brodo del Seminario scene del
medio evo,, oltre gli studi «sul capponarsi»
e «sul far lattovari e semate.» «E fra poco, anche tu,» fe' Giacinto con una
occhiata paterna al suo manoscritto, «anche tu siederài al convito della
intelligenza, ed io a quello del cuoco.» Dicendo il che, s'era messo a
sfogliare un grand'albo dai dorati fermagli. Stàvan nell'albo i ritratti in
fotografìa della più parte delle suddette celebrità. ¡Caso strano! parèa
soffrìssero tutti di feroce emicrania, almeno a guardarne le pèndule teste
poggiate con sì stanco abbandono alle palme. Questo però procedèa dall'èssere
stati sorpresi nella mezz'ora dell'ispirazione, ed è anche per questo se molti
si èran lasciati fotografare in àbito tanto alla buona, anzi qualcuno in
màniche di camicia e qualch'altro, principalmente tra i gazzettieri, in pouf.
¿Non era un segno, del resto, che in quella casa Caprara vivèvasi in
confidenza? Sul che Giacinto Umiltà incominciava a trovarsi un po' men male
abbigliato.
Quand'ecco, uno squillo di elèttrici campanelli, e quasi tosto
l'aprirsi di un uscio. Giacinto si alza impallidendo e cerca di combinare la
maggior piegatura di schiena colla minore probabilità di strapparsi lo
strozzatìssimo frac.
Senonché la baronessa... non era. Era invece una zuppa,, dirò meglio, a scanso di equìvoci, era un servo con un
vassojo d'argento e una scodella piena fumante di zuppa, ch'ei deponeva su un
tàvolo.
E Umiltà risiedette, posàndosi il manoscritto sulle ginocchia
e sbadigliò lievemente.
Ma, nel medèsimo punto, dalla porta a riscontro, entrava la
mangizuppa. Entrava donna Eugenia Caprara con un far di pretesa, incedendo
sulle otto molle, tutta di bianco appress'a poco come il suo ritratto alla
Saffo, salvoché in mano, al posto del rotoletto, tenèa una penna di cigno, ed
in capo, invece della corona d'alloro, le papigliotte.
E Umiltà si rialza con pressa. Il manoscritto gli scìvola
dalle ginocchia. Fà per raccôrlo di terra, si sbassa un po' troppo, egli
sfugge... Gli sfugge cosa che riprènder non può.
¡Addìo arrosti! ¡addìo gloria!
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