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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO TERZO
      • Scena sesta - La chioccia dei letterati.
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Scena sesta - La chioccia dei letterati.

 

«Favorisca di attèndere. La signora stà cercando una rima, e non appena l'avrà trovata, sarà da lei.» Così disse con prosopopèa un domèstico in cappa nera e fedine, introducendo Giacinto Umiltà in una gran sala, ed aggiunse: «segga pure, se vuole.»

Rimasto solo Umiltà, rimase anche in quello stato d'impacciatura di chi, la prima volta, è in casa d'altri, principalmente di un pòvero in una dimora di ricchi,, quando, assuefatto alle gelate nudità di un intònaco, tròvasi intorno pompose tappezzerìe abbarbaglianti di dorature e alitanti un tepore di serra, e sotto le suole, rôse dalla cirossa, un denso vellutato tappeto. Rimase immòbile, su gambettucce dirò letterarie cioè un poco guerce, col suo manoscritto dal roseo nastrino in mano, miràndosi imbarazzato le unghie che gli crescèvan dai guanti e sentèndosi bàttere il cuore celermente. E infatti, ¿dov'era mai? Era in quel luogo, suo lungo desìo, anzi suo sogno, ma che, per quanto si fosse sforzato a raggiùngere, avèa sempre veduto a tiro di telescopio,, in quel salone famoso, bigattiera di geni, donde uscìvan le leggi e le sentenze della gran crìtica e si schiudèvano o si riempìvan di nubi gli orizzonti della polìtica,, dove si gonfiàvano i màntici del giornalismo,, dove, in mezzo al fumar de' turìboli e il modular degli zùfoli e tra uno sbadiglio e un sospiro, si smattonava una riputazione di contrabbando (leggi, non della cricca) o si scoprìvano di quando in quando, fra la paletta e le molli o nello scopare la sala, i grand'uòmini; egli era da quella baronessa Caprara che dava fama e toglieva la fame, detta perciò la portinaja della celebrità, la pitonessa del gusto, la chioccia dei letterati... E sembrava a Giacinto di eròmpere già dal suo uovo.

In quel salone incrociàvasi curiosamente un odore d'incenso che aliava da una pròssima chiesa ed uno d'arrosto sorgente dalla cucina. Giacinto aspirò quest'ùltimo con voluttà, sentèndosi galoppar le budella. ¿A che grado mai di cottura poteva èsser per lui quell'arrosto? per cui si volse a ragguagliare il suo oriuolo, dico la pancia, al pèndolo del caminetto (rappresentante in bronzo dorato la nàscita della Poesìa al suon della lira) e insieme scorse, con un sussulto, nell'ampio specchio l'apparizione di un viso incorniciato di una zàzzera negra, astiosa del parrucchiere — un viso gialliccio, a crespe ed ammaccature, dagli zìgomi in fuori e dagli occhi in dentro — ch'ei riconobbe, con un altro sussulto, per suo.

In attesa peraltro di pàscersi il ventre, cominciò a pàscer la vista gironzando la sala; e, camminando più sòffice che mai potesse, benché veramente non ci fosse perìcolo che le ciabatte di lui scricchiolàssero, si diede a osservare, innanzi tutto, i quadri. I quadri èran pochi, ma significativi. Due grandi, di romanzesco argomento; il primo, cavato dall'Orlando Furioso, la dimora del sonno; il secondo, dal Don Chisciotte, Rocinante y el rucìo, che si fregàvan le schiene con tale amico entusiasmo da mèttere in pelle, a chi sol li vedeva, il prurito. Due poi di mole minore; uno, di tema ortolano, raffigurante verdure d'ìndole rinfrescativa come rape, malve, lattuga, aspàragi e zucche,, l'altro, di venatorio, un mucchio cioè di lepri, conigli, merli, oche, barbagianni, capponidipinti mortibene che parèvano vivi. Senonché, ciò che attraeva ogni sguardo era il ritratto a mezza figura della stessa padrona di casadonna Eugenia Caprara — in costume di Saffo, con una ghitarra sull'anca, un ròtolo in pugno e coronata la testa di quelle foglie gloriose «di cui ricca ne la gelatina.» E Giacinto la fisò avidamente, compitàndone il volto, grassoccio di floscia bontà e sorridente a sé stesso, e più fisava, più il cuore gli si rinfrancava, mentre già gli parevaallucinato dalla speranza e dall'appetito — che il càndido velo di lei si mutasse in tovaglia, in menu il rotoletto, e che sotto l'alloro comparisse un tacchino.

Il che versando nuovo olio nel lume del suo semispento coraggio, permìsegli di esaminare più davvicino e al minuto gli arredi di quel salone. E osò allora scoccar perfino un buffetto alle teste pelate dei chinesini di porcellana che ornàvano il caminetto e acconsentìvano al mìnimo soffio, poi, fàttosi al pianoforte, sparso di mùsica appositamente scritta pel tonno, avanzò temerario la mano in un grosso quaderno che ne aggravava il leggìo. Era l'òpera — o come volèa il suo autore — il romanzo di acùstica, intitolato «il grand'orso preistòrico», cioè dieci atti di fiasco, tra i fiaschi il più colossale che fosse mai stato impagliato in casa Caprara,, un'òpera di cui la tesi èran gli effetti di una morsicatura arrabbiata e il dominante motivo l'asma, ma nella quale il maestro, al dire di chi s'intendeva, avèa dovuto sudare una indiavolata fatica per combinare note che stèssero in contrappunto perfetto, senz'èssere mùsica,, un'òpera inoltre, ricca di prefazioni, note, avvertenze, crìtiche e controcrìtiche, in cui Hans Hänschen, autor loro, enumerava le càuse filosòfiche e stòriche del mètodo suo e del vittorioso insuccesso, scrivendo fra l'altre cose, ch'egli s'era proposto di cancellare con la sua àlgebra armònica tutte le illògiche puerilità che ai tempi di Rossini e Bellini e simili effeminatori si chiamàvano arie, duetti, terzetti e vievìa. E, naturalmente, quest'òpera recava nel frontespizio la baronale corona e il nome della Caprara, ché la nòbile dama, in quella prima e ùltima sera del fiasco, avèa sciupato, applaudendo, quattro paja di guanti per ottenere l'onore di farsi urlar col maestrogenerosìssimo atto, che valèa un... — e incoraggiò il nostro Umiltà a sfiorar colle dita la scoperta tastiera, traèndone fuori un... — sol-do.

Ché, come ho detto, il coraggio ripullulava in Giacinto. Sìstole e diàstole gli èran tornate in perfetto equilibrio. Dal pianoforte — dopo una pìccola sosta ad uno scaffale sul quale scoprì con assài meraviglia un volume dei Promessi sposi in istretto colloquio con un dizionario italiano-franceseandò a fermarsi al tavolone di mezzo, al trìpode così detto (volgarmente, trepiede) nel centro di cui un gran mazzo di fiori di carta che parèan di pezza si ergeva da un mucchio di manifesti di società di mutua ammirazione e di seccature pel pròssimo, di buste di lèttere dai laudativi indirizzi, di opùscoli e libri e giornali, tutti di un solo colore (cioè il blù-sùdicio della padrona di casa) e, torcendo la vite del collo verso una coppa, stette a occhieggiare i biglietti di vìsita di tutte le celebrità delle ùltime ventiquattr'oreborsajoli in carrozza, improvvisatori felici di versi altrùi, còmpera-voti-per-vènderli, umani usignoli, artisti per amore del nudo, tinche e trotelle da inchiostro coi pescicani lor crìtici... — finché, drusciata timidamente la palma sull'imbottito di una vicina poltrona, fece uno sforzo e vi siedette su 'n àngolo.

Di dove, godùtosi alquanto l'insòlito mòrbido, si arrischiò ad allungare la mano ai moltìssimi libri sparsi sul tavolone. Èrano libri di tutta attualità. C'era «del vacuo infinito», filosòfico saggio attribuito a Wagner, e «del paludamento imperiale sui nani», archeològiche considerazioni dedicate a...; c'èrano i romanzetti d'alcova d'alcuni màssimi nella Illetteratura, e, per converso, assài tomi della «raccolta pel seggiolino del buco», una raccolta che già comprendeva a quell'ora Il biscottino di Novara, ossìa il premio della docilità, storia patria,, L'insalatina, novella contemporanea,, La caduta del primo dente di latte, poema èpico,, gli , versi infantili, April dolce dormir, madrigali e stornelli,, La fede di miserabilità e Il risparmio del sale, manuali per l'onesto operajo,, L'ora delle galline osservazioni d'igiene,, Brodo del Seminario scene del medio evo,, oltre gli studi «sul capponarsi» e «sul far lattovari e semate.» «E fra poco, anche tu,» fe' Giacinto con una occhiata paterna al suo manoscritto, «anche tu siederài al convito della intelligenza, ed io a quello del cuocoDicendo il che, s'era messo a sfogliare un grand'albo dai dorati fermagli. Stàvan nell'albo i ritratti in fotografìa della più parte delle suddette celebrità. ¡Caso strano! parèa soffrìssero tutti di feroce emicrania, almeno a guardarne le pèndule teste poggiate con sì stanco abbandono alle palme. Questo però procedèa dall'èssere stati sorpresi nella mezz'ora dell'ispirazione, ed è anche per questo se molti si èran lasciati fotografare in àbito tanto alla buona, anzi qualcuno in màniche di camicia e qualch'altro, principalmente tra i gazzettieri, in pouf. ¿Non era un segno, del resto, che in quella casa Caprara vivèvasi in confidenza? Sul che Giacinto Umiltà incominciava a trovarsi un po' men male abbigliato.

Quand'ecco, uno squillo di elèttrici campanelli, e quasi tosto l'aprirsi di un uscio. Giacinto si alza impallidendo e cerca di combinare la maggior piegatura di schiena colla minore probabilità di strapparsi lo strozzatìssimo frac.

Senonché la baronessa... non era. Era invece una zuppa,, dirò meglio, a scanso di equìvoci, era un servo con un vassojo d'argento e una scodella piena fumante di zuppa, ch'ei deponeva su un tàvolo.

E Umiltà risiedette, posàndosi il manoscritto sulle ginocchia e sbadigliò lievemente.

Ma, nel medèsimo punto, dalla porta a riscontro, entrava la mangizuppa. Entrava donna Eugenia Caprara con un far di pretesa, incedendo sulle otto molle, tutta di bianco appress'a poco come il suo ritratto alla Saffo, salvoché in mano, al posto del rotoletto, tenèa una penna di cigno, ed in capo, invece della corona d'alloro, le papigliotte.

E Umiltà si rialza con pressa. Il manoscritto gli scìvola dalle ginocchia. per raccôrlo di terra, si sbassa un po' troppo, egli sfugge... Gli sfugge cosa che riprènder non può.

¡Addìo arrosti! ¡addìo gloria!





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