«Trovàndosi di passaggio per questa nòbil città la cèlebre
Sofonisba Altamura del Connecticut, laureata in medicina, filosofia, botànica e
astronomìa, la quale ha già commosso, elettrizzato, fanatizzato i pùbblici
principali del nuovo e del vecchio emisfero, s'invìtano i veri amici del
progresso sociale, e specialmente le amiche, a voler rènderle omaggio,
intervenendo a una conferenza che la illustre Dottrice terrà intorno alla più
ardente piaga del giorno, la schiavitù delle bianche. In questa conferenza,
la donna verrà esaminata da tutte le parti, si enumereranno i tìtoli suòi
psicològici e stòrici al primato animale, la si torrà insomma da quel carruccio
di minorità in cui fu messa dal maschio, non tanto per sostenerne quanto per
impedirne il cammino.»
¡Sù, sù, donne! L'arrosto può bene abbruciare quest'oggi,
anche senza di voi, e la biancherìa sporca rimanere innotata sul suolo.
¡Presto! appendete i vostri puttini affamati al collo dei loro asciutti pappà e
staccate dal muro le mantellette e i cappelli... «La conferenza avrà luogo alle
due in un'àula dell'asilo infantile, gentilmente concessa. Prezzo d'entrata,
una lira, a tutto profitto della grand'òpera della Emancipazione.»
Così dicèa un biglietto-programma che
destramente un amico avèami imposto il dì stesso dell'annunciato pettegolezzo e
che dovèa aver fatto, a guardarne il color-Isabella, il
giro di mezza città, innanzi trovare il suo goffo. Ma, con mè, il goffo c'era.
Ché io tengo un fortìssimo dèbole per ogni gracchione o papagallina di
càttedra, màssime quando si tratta di una, la quale, con una filza di
sragionamenti — corridòi che non condùcono a nulla — vorrebbe persuadermi che
il sesso di lei ragiona meglio del mio e lì arma una requisitoria contro il
sesso barbuto, tacciàndolo di conculcare l'imberbe, come se mezza maschilità
non stesse invece a ginocchi, a bocca aperta, dinanzi a queste idolesse;
tacciàndoci poi di mantenerle nell'ignoranza, quasiché mai una legge avesse
loro proibito il buon uso dei libri e dei sensi, nè fosse lor stato al capire
altro intoppo da quello all'infuori di un cervellino privo di zìpolo e così
domandando a gran grida un invertimento con noi delle parti divise dalla stessa
Natura nell'umana commedia, e divise a tutto loro vantaggio, perché, se nostri
sono il giorno e la piazza, la notte è di esse e la casa — quella casa che è il
cuor del paese, quella notte che gènera il giorno. Dal che vedete, s'io sono
poi tanto misògino come parrebbe alla scorza. Io non dimèntico mai di aver
posseduta una mamma la cui profonda bontà facèa spesso arrossire il mio
ingegno, e non dimèntico il bìblico de mulière homo. Uomo e donna complètansi
vicendevolmente, come il bottone e l'occhiello, come il violino e l'archetto,
come il seme e la terra. Potrèi, ne sono quasi sicuro, pensàndoci un poco sù,
citarvi qualche dozzina di azioni che fanno onore alle fèmmine, e in ogni caso,
se scrivessi di noi, mi esprimerèi assài peggio. Quì tuttavìa, in questo
capriccio di fantasìa e in questi cinque minuti, volli vedere più con gli
occhiali affumati del disinganno che non coi rosati dell'illusione — volli — e
la mia scusa stà in ciò, benché non stia il perdono.
Senonché, tornando a' mièi polli (che, a dire il vero, sono
piuttosto galline) vò a casa col biglietto-programma, dò la
leva alla Delia — una ignorantìssima bimba che non sà altro che amare, un
canarino che mi tien gaja la gabbia, mia provvisoria carìssima — e ce ne
andiamo, allungando un po' il passo (ché Delia, quando c'è da abbigliarsi,
spende un tempo infinito, forse per compensare la fretta dello spogliarsi) a
braccetto, contenti più che due sposi, verso gli asili infantili. Ma, come
temevo, la conferenza già volgèa al suo fine. Ogni punto v'era stato discusso e
naturalmente vinto, ed ora, dopo il riposo di alcuni minuti, si attendeva il
ripicco della perorazione. La gruccia intanto non avèa più coccoveggia.
Sofonisba Altamura se ne era eclissata, forse a cangiare l'ideale coturno colla
reale scarpetta.
Dunque, io e Delia occupiamo tranquillamente il nostro sedile
e vi ci orientiamo. La maggior parte del pùbblico è nude panche. Nel resto,
poche vecchie fisionomìe, troppo appagate per avere pagato, e quasi tutte in
iscuffia e tutte della sòlita biscotterìa.
Ché, per esempio, c'è la marchesa Pàola
Luzio-Medaglia, quella nana che pare stata anni in una
infusione di tabacco del Moro, e che gira con un far da padrona la sala, perché
fu lei la promotora dell'adunanza. La marchesa è delle più assidue acculatrici
di tutte le panche scientìfiche e letterarie della città, donde nutre la sua
enciclopèdica ignoranza e però ha l'ìntima persuasione di èssere una gran
letterata, tanto più che impiega annualmente una somma in inchiostro, in mazzi
di penne, in carta netta e sùdicia. Eppure un granino d'ingegno lo ha e lo
mostra nel guarnir di merletti i propri spropòsiti, nello stamparli, per così
dire, in majùscole, in ciò diversa da molte, che li làsciano còrrere come la
cosa più naturale del mondo. Delle quali un saggiuolo è colèi che stà in quella
zòtica posa coi gòmiti sur il banco, reggèndosi fra le rosse manacce la zucca,
e che ha capelli «alla Bruto», occhi da rospo, naso camuso e bocca che par
contenga due noci. Il suo nome (suo, perché l'ha inventato lei) è Ula di
Monteferro, cui nel sottoscrìversi aggiunge «figlia del padre Sole e della
madre Terra.» Ula è la presidentessa della «Società
còsmico-umanitaria contro Dio e i suòi vice, contro la
guerra, il suicidio, il duello, la pena di morte e il matrimonio»; di più, è
cavallerizza, giocatora di pallone, gazzettiera e scrittrice di un centinajo di
romanzi e di drammi sanguinolenti come la carta del macellaro. Ma il mondo può
dormire ancor quieto. Fin quì la nostra rinnovatrice non giunse ad emanciparsi
che dalla sintassi. Ula, che sfida a improperi la sempreassente divinità,
impallidisce al rovesciarsi di una saliera. Ula, che tiene sul tàvolo un
teschio ed in saccoccia un pugnale, sviene alla vista di un topo. In fondo, ve
la consegno per una innocua bestiola, nè più nè meno della sua vicina ed amica
Aura Percotti, barilotta di donna, dai capelli imbandolinati alla cute e dal
roseo visoccio, che sorride giulebbe e gira occhiate candite. Aura è una
maestra ispettora. Sà a memoria e con abbondanza il toscano e la gramàtica del
Soave, ed è una indefessa collaboratrice in quella raccolta già menzionata «pel
seggiolino del buco», benemèrita dell'ignoranza. Nè c'è buona mammina che non
aquisti annualmente le commediole della Percotti, dove l'amore par non impùbere
ma capponato, e le sue Auree novelle nelle quali la diligente Virtù non manca
mai di ottenere il gran premio e il ragazzaccio Vizio le pacche; tutto cibo che
leva le forze, tutto vino che non lascia macchia, tutta scioccàggine che si
smercia e si loda nel nome di semplicità.
Ma, vèh! non giunga tale parola alle dottìssime orecchie di
donna Apollonia Sgambati e di donna Perla Smeraldi. Sola stoltezza che
ammèttono queste è la complicata. Donna Apollonia, ad esempio, è la Capa della
coalizione nostrana contro la mùsica fisiològica a favore della patològica, e
poiché donna Apollonia allèa i propri principii ad un cèlebre cuoco, ha dalla
sua la stampa e la tribù di chi suona. Ch'ella abbia posto per tutti, niun
dubbio. Peserà cento chili a non calcolare la scienza, e si direbbe una
saltimbanca di piazza cui non mancasse che il tamburone. Invece, donna Perla
Smeraldi è una scopa in gonella. Costèi è l'azzurra, la dottoressa della
camarilla — di quelle dame cioè, che, essendo al corrente di quanto succede
alle fonti del Nilo ed ai poli, ignorano che mai avvenga in lor casa, che
conoscendo i nomi latini e la vita d'ogni spece e subspece di tutte le bestie
del globo, còmprano antichi gallastri per pollastrelle, che, zeppe la testa di
logaritmi, àngoli, lati, equazioni, sono obbligate, per i conti del mese, a
ricòrrere ai diti della fantesca, che, ritornate da una lezione di fìsica
làsciano pèrdere il fondo alla caffettiera per mancanza di lìquido, o fresche
di una d'astronomìa, nel regolar la lucerna, la smòrzano.
Oltre le quali, inùtile dire come fosse nell'àula il sòlito
stormo d'appaltatrici di quella beneficenza a campana e martello ossìa
pùbblica, cui è dovuto se l'eccezione della miseria divenne un mestiere normale
— patronesse, ispettore, visitatrici, giracase, seccamalati e vievìa, tutte
dilettanti-accattone, che fanno la carità coi denari degli
altri e la rèndono invisa colla intromissione propria, tutte propagatrici di un
socialismo assassino dell'individuo e della famiglia — e inùtile dire, come fra
loro spiccasse la nostra Eugenia Caprara, co' suòi bianchi capelli a
cavaturàcciolo, il suo naso pien d'importanza e tabacco e il suo risolino di
compiacenza e di protezione, che tradotto dicèa «nul n'aura de l'esprit, hors
nous et nos amis.» Aggiungi però che presso lei, a raccòglierne il vaniloquio,
stava ossequioso un barbuto figuro di cui la faccia parèa non troppo amica
dell'aqua e l'àbito della spàzzola. Era egli l'ùnico bue di tutta la mandra —
era il primo manubrio dell'òrgano loro «il Giornal delle Schiave», — era di
tutte lo spiritual direttore. Noto assài nella libricastratio e nella
pedagogìa, avèa, collotorto dell'ùltimo gènere, toccato i sommi onor della
greppia, sempre attaccàndosi alle sottane, prima dei preti, poi delle donne.
«¡Anima càndida!» esclamàvano queste. — «Tutto pelo,» osservo io,, «¡dal parlar dolce!» sospiràvano esse,, «dal putire di capro,» io aggiungo. Fatto stà, che il
professore Tamberla...
Ma quì la marchesa Pàola Luzio-Medaglia,
che spingèa lo sguardo alla rima di un uscio, volge la testa alle amiche, come
a dir loro: «viene.» Nell'àula si ridifonde il silenzio. Ecco difatti (e Delia
dovette recarsi il fazzoletto alle labbra) Sofonisba Altamura. Sofonisba era
più gobbo che corpo e meno volto che gesso; parèa, parlando, che aprisse non
tanto la bocca quanto il naso e la bazza, e parèa, guardando, che meno mirasse
con le pupille che non colle cìglia, tanto folte le avèa e annerite. Ma, come
se i naturali orrori non le bàstassero, ella èrasene aggiunti più che poteva di
artificiali. Certamente non la peccava ne' sottintesi. Avèa indosso tutti i
suòi ori e tutta la sua guardaroba, un musèo di guarniture — orecchini in
corallo, collane alla turca, spilloni a mosàico con sù il Colossèo, fibbie à
l'Empire, braccialetti barocchi — sparsi su 'na toletta di roba vecchia e
scômpagna, che cominciava da un cappellino con piuma celeste e veletta gialla e
da uno sciallo aranciato a gran papàveri rossi e finiva in una gonna violetta e
in un pajo di guanti verdògnoli. «Un vero,» come Delia osservò, «arcobaleno
smontato.»
Ed èccola in càttedra. La si drappeggia oratoriamente lo
scialle; la si raccoglie un istante colla mano alla bocca; poi, fra il più teso
silenzio:
«Già mi pare,» o carìssime, «di avervi a sufficienza mostrato
come la donna meni l'uomo pel naso e sia di tutto capace, rovesciando con un
buffetto quel castello di carte penosamente costrutto dai Santi Padri, Aristòtile,
D'Elci, Giordano Bruno, Acidalio, Büchner... e sìmili stupidelli, scusàbili
appena in riguardo al lor limitato intelletto di maschio — sul che, oso dire
che di confutazione ne avanza per quanto ci si può in sèguito opporre — e così
parmi di avere, non solo risposto, ma ritornate ai nemici quelle plateali
insolenze di serratura in cerca di chiave, di pera senza picciuolo, di
tara, ossìa giunta dell'uomo, di semovente latrina, di fair defect... e
vievìa, che si provèrbiano contro di noi provando insieme, col numerarvi le
nostre eroine dalla Saffo alla Sand, la eccellenza del sesso, donde consegue il
dovere nei maschi di abbandonarci senza più sotterfugi il posto usurpato...
«Resta ora a vedere che si farebbe, se i maschi — alla nostra
equa domanda — rispondèssero: no.»
(¡Udite! ¡udite!)
«Certo è che il caso venne da loro previsto. Non altrimenti si
saprebbe spiegare quel tenerci lontane dalla pùbblica cosa, quell'interdirci
ogni esercizio educatore dei mùscoli, quell'obbligarci, che è peggio, in una
spece di sacco, che ne impedisce e nelle idèe e nel fatto la libertà di
procèdere. Di più; tutto il ferro lo sequestràrono essi a tutela della loro
paura, fuorché qualche scheggia da noi sottratta per gli aghi nè ci lasciàrono
il rame se non avvilito in caldài. Oh bella grazia davvero quel prodigarci i
due più imbelli metalli, dissimulate catene! Per loro intanto, il fùlmine in
polve di Schwarz e le palle generatrici di morte; nostre invece, l'asciutta
polve di Cipro e le palle... da rammendar le calzette!»
(Gruppi di risa feroci)
«Eppure — sorelle — un'arma, una terrìbile arma, non ce la
tòlsero ancora — nè lo potranno — un'arma, dinanzi alla quale i loro cannoni
divèntano cialde, e le lor pòlveri... Sedlitz...
«¿Che è mai?
«Ciò saprete. Quì stà il mio sublime mistero, quì l'uovo da mè
covato per trenta e più anni, quì il dolce frutto di tanta amara radice. Ma
permettètemi, prima, di raccontarvi il come della scoperta.
«Essa fu fatta come ogni grande scoperta si fà. Mi si offerse
spontanea quando men la cercavo. Era sera; un dopopranzo. Avèo bisogno, perché
digerissi, d'irritarmi la bile, mio consueto caffè; e però avèo aperto quel
mascalzone di un nostro odiatore Aristòfane (che io leggo in originale nè più
nè meno di una Dacier) e ripassavo appunto Lisìstrata.
«¿Sapete voi chi fosse Lisìstrata? Una ateniese, che è quanto
dire, una parigina dell'antichità; una donna tutto risorse, la quale,
imprecando alla guerra civile che desolava la Grecia e volendo troncarla, avèa
imaginato il più nuovo e più efficace spediente che mai si potesse. ¿Cioè a
dire? Cioè a dire, chiamava celatamente a sé le mogli e le amanti delle due
parti nemiche e, dopo un discorso che non par scritto da un uomo, tanto è pieno
di lògica, le persuadeva e stringeva coi sacri orrori della religione a non far
pace coi propri mariti, finché i mariti non l'avèssero prima tra essi. E il
no delle donne rumoreggiò allora per tutta la Grecia. Così la guerra fu
sciolta.
«¿Ebbene? ¿che ne pensate? perché mò la finzione di quel
malignìssimo greco non potrebbe cangiarsi in una benèfica realtà? Egli l'arma
ci addita: preoccupiàmola. I nostri amici migliori sono spesso i nemici.
¿Perché non potremmo, ciò che Lisìstrata fece per amore di tutti, ripeterlo noi
per amor di noi sole? Non c'è uomo cui manchi un po' di gonnella alle coste;
non c'è donna, che, oggi o domani, non paja bella a qualcuno. Ora niente per
niente. ¿Intendete? — Nulla da noi finché i nostri tiranni non ci domàndino,
supplicando, di èsserci schiavi»
(Principio d'applàusi).
«Senonché,» seguitò Sofonisba, «l'ìntima essenza de' maschi è
la menzogna; ché non per altro hanno inventato quel solennìssimo inganno del
giuramento. Giove, secondo loro, ex alto periuria rìdet amàntum — et jùbet
aeòlios ìrrita ferre Nòtos. ¿Chi di noi non ne ha fatta lagrimosa esperienza?
Dee un minuto prima, un minuto dopo s'è bestie... ¿E allora?»
(Frèmito d'attenzione. Anche Delia occhieggia la strega
attraverso le stecche del ventaglio).
«Allora, o donne dei due emisferi,» tuonò quella furia con un
tràgico gesto, «¡vendetta! ¡Sì, orrenda vendetta! La cucina è in man nostra; in
nostra mano è la vita dell'uomo. Io già aspiro con voluttà l'acre fumo de'
boleti agrippinei; odo già l'unghie grattar verderame; odo i pestelli ne'
bronzei mortài acciaccando cantàridi e gommagotta e vitriolo e scorpioni. ¡Che
ogni fornello di guardaroba si converta in un trìpode d'Ècate! ¡che la virtù
dei fiammìferi si colleghi a smorzare! ¡che tutti i veleni delle nostre
toilettes pàssino nelle pance maschili! Giammài la benzina avrà nêtta una
macchia maggiore. La gran notte è venuta, la grande ora scoccò. In mille
fuliginosi camini si appicca casualmente l'incendio. Ogni spillo ha tolto di
mezzo uno schioppo, ogni sputo una càrica. Si propàgan le fiamme; gèmono le
campane sotto il martello incessante, e alla lùgubre luce, vedi i padri fuggire
facèndosi scudo dei figli. ¡Ma invano! La spina del maschil sangue è strappata.
Cola il sangue a torrenti, si eleva, si eleva, e tra lo scoppiar del petrolio e
lo sfasciarsi degli edifici e l'urlo di chi s'affoga, l'inno s'innalza della
Vittoria, che annuncia: spento è il mal seme d'Adamo. Eva s'è riscattata.»
E quì la megera taque, anelando. La libìdine della strage
scintillava negli occhi di lei e negli occhi delle sue vecchie uditrici. Ella
taque e un battimani echeggiò. Da ogni parte si accorre alla cattedra nè
l'oratora ha mani bastanti per tutte; si grida «brava!», si svèntolano i
fazzoletti e il professore Tamberla, entusiasta, le offre... un cartoccio di
caramelle di pomo.
Io tentài nel braccio di Delia. Delia girò verso mè il più
moscadello e innamorato dei visi.
«E dunque?» le dimandài. «Vuòi emanciparti anche tù?»
Ella sorrise e rispose: «Per mè m'accontento di starti tutta
la vita sotto.»
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