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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • ATTO TERZO
      • Scena nona - Trè ritratti, a figura intiera, grandi al vero.
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Scena nona - Trè ritratti, a figura intiera, grandi al vero.

 

Al viaggiatore che, per contentare «la Guida», a visitare la pompa delle miserie dell'ospedale di X, non mai si manca di aprire con una tal quale solennità il salone delle adunanze dell'alto Consiglio, dove i signori Tarocchi della città, cui è commesso di fare il bene il più possìbile male (precipuo scopo della beneficenza pùbblica) riunìsconsi mensilmente su mòrbidi seggioloni, a guardare per qualche ora i polpacci delle divinità della vôlta, finché il campanello del presidente annunci loro che il silenzio è levato, guadagnata la tèssera di presenza, e che è tempo, con un unànime voto, di... lasciar còrrere l'aqua pel (e per le caldaje dell'ospedale) o di mèttere il «visto» sulla ferocia del mèdico A e le ladrerìe del farmacòpola B, facendo quello che secolarmente si e sottoscrivendo a quanto si trova già scritto. E c'è pronto un prato di tavolone con un sarcòfago argenteo capace d'inghiottir chi v'attinge e una barricata di carta e un mezzo deserto di sabbia e una selva di penne aquiline dalla punta d'oca. ¡Al sòlito sempre! il maggior apparato di scrìvere dove meno si pensa.

Ciò che peraltro interessa il colto visitatore non è tanto quel lusso di cancellerìa e di poltronerìa, il Cristo colossale di legno (un Cristo tradito da un nuovo Giuda e messo in croce nella più indegna maniera) e neppure la Maestà Sua di gesso (dico il busto del , modellato nel gesso, o perché sìmbolo questo di un costituzionale sovrano o perché còmodo assài ne' repentini passaggi di temperatura polìtica) quanto i trè ritrattoni delle trè somme benefattrici di quella malèfica baraonda.

E il portiere, additando per primo il ritratto di faccia al Cristo di legnocupo ritratto dallo spagnolesco costume, in cui di bianco non spicca se non la enorme inamidata gorgiera, sìmile a un tondo con una testa mozzata — vi dirà che quel bujo e quella patrunia son nientemeno che la marchesa Andegari, moglie di don Ramiro, coronel de su sacra real Majestad, marques de Birbança, conde, visconde, baron... e un rosario di tìtoli, indispensàbili a porre un pòvero uomo, cui tòccano, nel comodìssimo stato di non saper più giustamente chi e' sia. La marchesa stà in piedi presso una tàvola. Posa, sopra la tàvola, una marchionale corona ma ella par rattenerne sulla fronte aggrondata l'incerchiatura. Le contrazioni quotidianamente uniformi de' mùscoli hànnole scritto nelle rughe del volto, meglio che non a parole, la fedina morale, e però, avendo l'artista tradito quì la natura un po' meno del consueto, vi si legge alla prima come la nòbile dama sia di quelle creature, cattòliche molto ma assài poco cristiane, le quali crèdono in buona fede di èssere entrate nel mondo per una porta diversa dalla comune. Io imàgino che nelle sue stanze fosse un'ùnica sedia e questa a lei riservata. Dal cadavèrico giallo e dal secco della sua pelle la si direbbe nudrita a sol pergamena e dalla rigidità delle membra sembrerebbe impalatamàrtire dell'etichetta — sul rettìssimo fusto dell'àlbero gentilizio. Intanto il di lei occhio mancino sbircia ad una stella gemmata che le stà al posto del cuore, mentre il destro si sbieca vers'un'àurea crocetta, che la corrispondente mano — o piuttosto zampa di polloimpugna. Poiché bigottismo e albagìa, coteste scimmie del rispetto all'ignoto e della conscia virtù, si danno il braccio non rado. È infatti la religione che insegnò la viltà agli umani ginocchi. Ùmile per orgoglio, Caterina Andegari s'era degnata morire nell'àbito delle mònache scalze, lasciando loro le non più sue ricchezze da sminuzzarsi in tante annue doti, al pio scopo di accrèscer servi al Signore. inefficace il suo voto ¿Qual miseràbile per duecentotrentatrè lire può rifiutarsi d'imporre la vita ad un nuovo infelice, quando, per molto meno, gliela torrebbe? ¡Vìvano dunque le doti della marchesa! ¡fiòcchin le sùppliche per maritare la propria colla miseria altrùi!

L'altro ritratto è invece una figura chiara su fondo chiaro. Rappresenta una fresca vecchiotta dal gaudente faccione, abbigliata di un nero velluto che la ricinge fin sotto le ascelle, ma a braccia nude e scollata e con in testa una cuffia bianca di pizzo e sopra la cuffia un cappellone di paglia. Costèi è una baronessa del grande impero, Olimpia Ercoliani. È uno di quelli esemplari di donna in istile romano-barocco, così bene intonate col militare rimbombo de' rossiniani motivi, di quelle bellezze senza risparmio e peccatrici senza rimorso di cui la ricetta s'è pêrsa. Nata in tempi nei quali ghigliottinàvansi coi vecchi capi i pregiudizi vecchi, la baronessa avèa entusiasticamente adottata l'acconciatura de' nuovi, inneggiando, tra i primi, a quello della fraternità. Troppo bella per èssere casta conoscendo l'arte del negare, ella veniva assài facilmente all'ùltima confidenza, anzi al napoleònico «affare di canapè», senza che il pòlline regio le desse mai la nasetta per il plebèo. Non sembra però che alla salute le fosse avverso il peccato. Novella Ninon, la baronessa oltrepassava i novanta, non solo sulle sue gambe (il che sarebbe già molto) ma con tutte le sue rotondità, tutti i capelli ed i bianchìssimi denti benché pipasse da turco, con l'appetito di settant'anni addietro e uno stòmaco pari,, e così era giunta a quel salto nel zero, che noi chiamiamo la morte, avendo ad inalterate compagne le sue inobbedienze carnali e la giacobina spregiudicatura e la pugnace vivacità dai moti di verduraja e dai «mòccoli» di caserma, non ricordando altro cielo che que' della bocca e del letto ed in nulla fidando fuorché in Napoleone e sé stessa. Non dùbito, vivrebbe ancora, se il mèdico non l'avesse voluta guarire. E la baronessa, anche lei, avèa ambito al pùbblico onore dei quattro metri di canovaccio dipinto e perciò apriva una «ruota.» ¿Pensava ella forse alle volte che nel giocar l'ambo sortìvale il terno? Fatto stà, che la ruota gira tuttora, imbastardendo i leggìttimi e gareggiando col cesso. Così, Olimpia Ercoliani ha completato il misfatto dell'Andegari. ¡Giù figli senza paura, o sposi dalle duecentotrentatrè lire! ¡Malthus abbasso! basta la Provvidenza.

Ed ora, èccoci al terzo ritratto. Questo non è di marchesa e nemmeno di baronessa: è puramente di una Giuseppa Struzzia. Il ritratto è nel costume del giorno. Per quanto il pittore abbia cercato di confinarla, la signora Giuseppa, in una benigna penombra, dissimulàndola più che poteva fra il tappeto di un tàvolo e le pieghe di una cortina, se ne vede ancor tanto da stare certi che una delle trè Grazie non è. La màssima parte del seno le emigrò nella schiena ed il poco avanzato le si sviluppò nella gola. Non una faccia, è un naso; anzi, se tu ne avverti il tabacco e il plumbeo del colorito, è una vera boetta. Giuseppa Struzzia ti simboleggia la involontaria verginità. È la figura di una di quelle infelici che la lunga agonìa di un insoddisfatto appetito esaurisce e dissecca. Ma dalla scuola dei tormentati, i più feroci tormentatori. Sènape e fumo per gli occhi di chi l'attorniava, la signora Giuseppa possedèvane uno (e «uno», dico, di nùmero) cui non sfuggiva una sol bricia di male e possedeva una lingua che avvelenava ogni stilla di bene. Non s'induceva ad èsser teco gentile, se non per mostrarsi indirettamente villana con ; e quantunque tenesse la propria vita per un ùnico dente, pur ne teneva abbastanza da insidiare all'altrùi. O , cieco nipote, ¿a che strìngerti il pane per adular di leccornie il suo irriconoscente palato, festeggiàndone o il nome o gli anni, un nome che mai non ebbe per essa diminutivi e degli anni or sfrondati da ogni promessa di frutto? E se, nondimeno, ti ostini nella fatua speranza ¿o perché allora pompeggiarle negli occhi l'insulto della tua fresca sposoccia e della tua nidiata di bimbi? Non è l'oro soltanto che si ammucchia da lei, ma la bile; la bile è per indiavolàrsele insieme. Muor l'uomo, non i suòi odii. Vi ha gente, nota nella pùbblica fede, che li raccoglie,, vi ha leggi che li protèggono. Mira bene, o nipote, il funesto loscheggio dello sguardo di lei e il sottile sorriso di quella bocca slabbrata e su tutto quel ceffo l'incubazione omicida di un testamento. ¿Ma che dico, mira? Già i pesciolini del sospiratìssimo stagno ti lampèggiano innanzi, guizzando ver le paludi dell'officiale beneficenza. Completamente tua zia ti buggerò. Più non ti resta che a sentirne l'elogio dalle gazzette. Tua zia avrà un monumento: essa ha dischiuso un ospizio alla miseria non tua — alla miseria evocata dalle sue degne predecessore.

Poiché le trè illustri benefattrici han voluto eternare la loro perfidia o la loro insipiente bontà — il che, negli effetti, è tutt'uno.


 




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