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Carlo Dossi La desinenza in A IntraText CT - Lettura del testo |
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Scena terza - Idillio.
Fortunatamente, quell'incessàbile forza (chi dice Caso, chi Provvidenza, chi Dio degli ubbriachi) la quale — come un paziente maestro, che corregge man mano gli errori de' suòi scolarucci — òbbliga il corso delle sociali vicende pìccole e grandi, turbato dalla ragione dell'uomo, a ricomporsi sempre pel meglio, fece anche quì, nel mìnimo caso di Nino, quanto nè la lògica mia, nè la poesìa di lui avèan potuto. Nino cioè fu tradito! fu (sòlita storia da Minosse ai dì nostri) posposto alle spalle facchine e alle occulte virtù di un briccone; sul che osservo, non tanto ad esempio di chi potrebbe tradire (ché gli esempi son fatti pel camino e i marroni) quanto a conforto di chi rimase tradito, come l'amante nuovo sia spesso la miglior vendetta del vecchio. Del rimanente, uso quì il verbo «tradire» che non dovrèi; e davvero, il mio amico èrasi sbarazzato, senza rimètterci, di una falsa moneta, èrasi onoratamente liberato da un dèbito vergognoso; par dunque che avrebbe dovuto sentire quel refrigerio che un àsino prova quando gli si leva il basto o un suonatore d'orchestra quando rinchiude il messale di un'òpera della giornata. Eppure no — ¡guardate riconoscenza al destino che spesso ci salva a nostro marcio dispetto! — Nino si disperò, non da burla; per poco non s'ammalò, e lo si vide lumacar per le strade, giallo di malinconìa, curvo di schiena e di sguardo, dialogando tra le labbra e le dita, a mo' di un fittàbile in piazza. Seppi poi, che egli stava, in que' dì, maturando un suicidio. Oh quante volte, dopo di avere con cinque lugubri sigilli solennizzate le sue ùltime volontà (e non avèa a lasciare se non una cosa, la mamma) appoggiossi alla fronte una pistola... vuota; oh quante impugnò con precauzione quel rasojo, che non era mai stato capace, non dirò di disfargli la barba, ma nemmeno di fàrgliela. E Nino si andò a specchiare in tutti i pozzi del vicinato, pur ebbe tanto coraggio di non accòrrere all'imàgine sua, accontentàndosi invece di tiràrsela a sé nella secchia, e Nino sfogliò il dizionario chìmico-farmacèutico dove si parla di veneficio (che è quanto dir tutto) dando peraltro un'occhiata anche al poscritto dei contravveleni; Nino giunse perfino a notare ogni possìbile morte in altrettante buschette, sortèndone una. Nulladimeno, siccome l'estratta gli sembrò la men bella, gittò a monte le schede e si die' a meditare «quel benèvolo modo e voluttuoso di pena — come dicèa l'umanitario suo professore di diritto penale — in cui trionfa la corda.» Ed ecco Nino tentare la solidità degli arpioni di casa ed allacciarvi già il cappio, quando, cricchiàtagli sotto la sedia, scèsene prudentemente e decise (sopravenèndogli in quella il carbonaro col sacco di negra morte commesso il dì prima) di morire — avèa appena pranzato — di fame. Ned io gli contraddissi, ¡chéh! ben in contrario applaudìi di gran cuore alla sua econòmica risoluzione, che già durava, quand'egli me la narrò, da ventiquattr'ore; me lo pigliài sottobraccio e tràttolo in un'osterìa (imbruniva) gli presentài un buon bicchiere di rosso, dicendo, che ciò gli avrebbe ravvivato le forze pel suo romano propòsito, poiché, del resto, egli si era impegnato a finir dalla fame, non dalla sete. Nino fe' una boccuccia di svogliatura, ma bebbe; anzi, ribevve, ché non s'accorse — tant'era assorto nella cupa sua idèa e in una cesta di allegri panetti — del mio ricolmargli la tazza. E allora io mi divertìi ad aggiùngere, che, trattàndosi di un suicidio in cui almeno occorreva un lungo digiuno, egli avrebbe ben fatto a preparàrvisi con una scorpacciata, per poterlo, il digiuno, durare sino alla fine. Ma nulla rispose l'amico. La sensibilità del suo orecchio era tutta assorbita da quella dell'occhio. Nino più non seguiva il mio dire, bensì la forchetta con cui ragguazzavo e avviluppavo una montagna di maccheroni. E d'altronde — ripresi, ingollàndone una forchettata, che Nino accompagnò d'un sospiro — un bocconcino gli avrebbe non tanto attutita quanto aguzzata la fame, che appunto era quello che si desiderava. Ma il suicida bevette in silenzio un terzo bicchiere... ¡Davvero che il vino incominciava a pensare per lui e assài meglio! La sua mano che avèa intanto appallottolato la mòllica di un mezzo pane, allungàvasi all'orlo della mia vuota fondella, strofinàndovi-via un baffo d'intìngolo, che poi recava sbadatamente alla bocca. E lì, il cameriere gli depose dinanzi, forse in isbaglio, la tentazione di uno stufato, e il mio amico, in isbaglio pur esso... ¡Alle corte! colùi che avèa fîsso di morirsi di fame, poco mancò non crepasse d'indigestione. Ma, quando l'indigestione, tiràndosi seco l'amore, passò dalle budella di lui in quelle della città, l'organetto di Nino, benché in tono diverso, riappiccò la sonata. Volata vìa la vespa, rimaneva lo sfrizzo. Avèa la botta amorosa evocato alla pelle l'ammaccatura dell'odio. Nino si diede a chiamare la mellonàggine sua, birbanterìa degli altri, come chi, tombolando, incolpasse, non le sue proprie, ma le gambe del pròssimo, mettendo la ignorantìssima infedeltà di una brindàccola sul conto di un sesso intero, anzi, di tutto il gènere umano. Ottimo segno però, che, più l'odio si allarga, e men nuoce, quando pur non approdi; com'è del solfòrico àcido, di cui il cucchiajo, che da solo ti uccide, può in una secchia di aqua offrire ai pòveri infermi (stando almeno ai rapporti delle amministrazioni pie) un'aggradèvole limonata. E a questo gènere umano avrebbe fatto, il mio Nino, cose da rimandar Calìgola a scuola, avesse solo potuto. Non potendo altro, lo privò della vista del suo tòrbido volto, riparando a quel covo d'ogni ambizioso fallito, che è la campagna. Poiché anche amore è ambizione. Ed è dalla villa, che, dopo un buon mese, io ricevetti la prima sua lèttera. Evidentemente il misàntropo volèa che gli uòmini si occupàssero del suo non occuparsi di loro.
«Amico;» dicèa la lèttera «¡Vinta la malattìa! Ci lasciài mezzo il cuore, ma l'altra metà è affatto guarita. Sol con uscire dall'infetta atmosfera ritrovài la salute. Mano mano che mi allontanavo da quella volontaria prigione che si disse città, da quella mora di pietre con cui lapidossi Natura per erìgerle-sopra un monumentale ricordo, mano mano che un àere meno denso di vizi entràvami nel polmone, mi si ossigenàvan le idèe, mi si alleggerìvano; più l'orizzonte ingrandiva e più s'ingrandìvano. E la notte scese; una notte tutto stelle e silenzi qual non avevo mai vista. ¿Infatti, chi può col volto nel fango, comprèndere il cielo? Malinconicamente il misterioso desìo dell'indefinito mi strinse. Dimenticài il terrestre sepolcro del corpo, mi sollevài come fiamma, e per gli stellati ocèani, pei soli e le terre, per la universa immensità navigando con Bruno, travidi la fonte dell'intellettuale Amore e l'ànimo m'inorgoglì. ¡O amico! solo dove Natura riaquista il passo sull'ingrata sua figlia, l'Arte; sol dove è dato scordarci, almeno per pochi istanti, di quel tessuto di convenzioni, in cui ci siamo abbozzolati noi stessi, che è reggia e càrcere insieme; solo fra i campi, dico, l'ànima può ricongiùngersi, aquietàndosi, in Dio; mentre non è che in città, dove fanno da stelle i becchi del gas e viene il cantar degli augelli dalle gabbie e le stie, essendo ùnici prati i verdi tappeti del gioco e ùnici monti que' del pegno e del fimo, dove regna pei cani la museruola e pei loro padroni la polizìa, dove chiàmasi industria la truffa, urbani costumi i vizi e verità la menzogna più in crèdito,, è solo — o amico — in città, che un èssere ragionèvole possa scèndere al punto, di trovare la fine de' suòi desideri, il suo complemento, il ben sommo... tra due coscie di donna.» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Ed ora ti stò scrivendo dalla ‹biblioteca› di mio zio curato. Certo, ricorderài don Vittore, quel sgrossa-messe-e-ragazze, col suo cappellone a pane di zùcchero, la cacciatora eterna e le ghette, sì da sembrare, non un ministro di Dio, ma solamente un brigante. Bene, mio zio, senza saperlo, possiede una librerìa capace d'imprestare l'ingegno a una tribù di scrittori. Quando gli chiesi, se avesse qualche volume, fosse pur scompagnato, egli mi porse una arrugginita chiavaccia, dicendo ‹guarda›. Mio zio non ha di lucente se non la chiave della cantina. Quanto ai libri, non si son salvi, che per amore della legatura. Don Vittore li ammontonò in un camerone, dove metteva una volta la frutta a marcire, e là li tiene, come terrebbe un castrato un gineceo. Ma a lui, per crèdersi dotto ed èssere tale stimato, basta di avere, in casa la scienza, e fuori il più persuasivo dei pugni. «La qual librerìa fu messa insieme dal pàrroco predecessore che la legò al presbitero. La sua particolarità e il suo pregio stanno nel riunìrvisi quanti scrittori dìssero chiodi in femminile materia, dall'òpera la più massiccia al più bizzarro pamphlet, e siccome la maggior parte ne disse, così ne segue che la raccolta sia anche voluminosa. Perocché il vecchio curato, che era di quelle letterarie tignuole quae lìttera vìvunt (cioè l'opposto del nuovo) quantunque incapace di non èssere buono con tutti, preferiva, in teorìa, di professare contro il sesso peggiore — forse amàndolo troppo — un odio da vìncere quello di un Francescano ad un Domenicano, odio che la continua società con idèe adulatrici alle proprie gli confortava, inspiràndogli inoltre quella eloquenza dal strappa-pelle sarcasmo e dall'ingiuria libidinosa, la quale chiamava la gente alle prèdiche sue da venti miglia lontano e le affollava... di donne. «E però cominciài, alzando le veneràbili legature, vere pietre di tomba, con gran disturbo delle tarme e dei ragni, e rimovèndone di tanto in tanto qualche topo crepato (altro effetto di scienza) a lèggere i mièi misògini autori, a ridonarli, almeno per pochi giorni, alla vita. Ma contagioso è l'ingegno. Tutte quelle ideone e ideuccie, succhiate da Giovenale e Lucrezio, da Pope e Luciano, da Tertulliano e Grisòstomo e vievìa, si accoppiàvano fra di loro, moltiplicàvansi nel mio cervello e lo affogàvan nel nùmero. ¿Come mai liberàrmene? Fermài di sfogarle in un libro che, usufruendo il mio stato, riuscisse per quel periglio domèstico che è l'altra nostra metà, altrettanta pasta badese. E in verità, l'ira mia congiunta all'ira già in campo, non può non formare un terrìbile esèrcito. Scoprirò scelleràggini che le medèsime ree non sospèttano manco, troverò frasi e parole da incenerirle issofatto. Scandolezzando, ¡meglio! avrò giustamente colpito. «Attènditi a grandi cose.»
Ma io scossi con diffidenza la testa. Non facèvano le brice di lui a' mièi polli. Quel suo non trovare nella provvidenziale malvagità di una Gilda argomenti bastèvoli a rimèttersi in bìlico, quel suo accattare difese dagli altri, e difese che per èssere troppe s'impedìvan tra loro, mostràvano chiaramente che, o il vecchio amore gli si ostinava nel cuore o che egli avèa già esposto l'«affìttasi» per uno nuovo. Ed io mi consolài, riflettendo: Primo; che, per un verso o per l'altro, avremmo un libro di Nino. Anche gli errori, principalmente del genio, son degni di rispettosìssimo studio, nè la menzogna potè mai contenersi se non in un vaso di verità. Secondo; che i fatti nàscono continuamente a confusione delle teorìe. Il nuovo inquilino nell'amor del mio amico non avrebbe molto tardato, e chi ha esperienza in propòsito, sà che da questo al centesimo corre assài meno distanza che non dal primo al secondo. Difatti, a complemento di questa mia ùltima consolazione, benché, ¡ahimè! a totale sterminio dell'altra, nel tèrmine di una settimana, lessi di lui ciò che segue:
«¡O amico! «¡Nunc scìo quod sit àmor! Colèi che sempre mancàvami, ho finalmente trovato. Il mio cuore è gonfio, ha bisogno di espàndersi, di cantare il Tedèum. «¿A che narrarti la noja della via percorsa? La presente immensa felicità cancella ogni orma faticata a raggiùngerla. Basta tu sappia che non son più da mio zio, in quella bassura di prosa, spessàndomi l'intelligenza in una pingue cucina o imputridèndomela in un cimitero di libri, ma sono sul cùlmine di una montagna — lìbero come un poeta — presso un cuore che batte in consonanza del mio. «È una pastora, è un fiore gagliardo dell'Alpi. Io, che provai l'amore morboso, comprendo ora il salubre. ¡O voi, ai quali più aggrada il sasso malsagomato del greggio, venite a veder Cherubina! Quì, nulla di quei sentimenti nati gualciti, di quell'istinto di frode, di quella fecondità di bugìe, donde sono impastate le vostre cittadinuzze; tutto è fresco e sincero,, sguardo, labbro e coscienza non disaccòrdansi mai. Quì nulla di quell'ipòcrita castimonia che rende odiosa l'onestà, ma il fidente abbandono delle purìssime. Questi sì che son baci, baci porpurei, che schiòccano, che làsciano il succio. Cherubina è affatto ignorante di tutta la chincaglierìa delle graziette, delle smorfiuzze, dei complimenti, o in altre parole, del galatèo cittadinesco della lussuria; pur sà qualcosa di meglio ‹tacere›. Eloquenza di lei, l'innocenza. A duemila metri sul mare, difficilmente và il vizio; esso non và che dove arrìvan carrozze. E parebbe che Dio le avesse dato la voce, come agli augelli, solamente pel canto. Io ne odo, mentre ti scrivo, le note campanine e squillanti, che fanno concerto tra rupe e rupe, chiare come i zampilli della sua alpe, allegre come l'ànimo suo. ¡O amico! ecco l'amore dagli ampi polmoni, e dall'orizzonte senza confini, cui le montagne son stanza, e il sole lucerna. Ecco l'idillio...» E lì Nino, diffùsosi alquanto su esso «idillio» nel gènere Fontenelle ossìa da parafuoco, benché avesse del resto, per contrafforte, una soda maschiotta
«assài bruna, grassoccia e morbidina come una quaglia con attorno il latte»
conchiudeva:
«Ho risoluto di nobilitare al giardino questo fiore di campo.» (¡addìo idìllica semplicità!) «Voglio educar Cherubina, per poterla poi dire ‹mia tutta.› Oggi stesso comincio. Allorché, guancia a guancia, sederemo al tramonto, le svelerò, in presenza dei cieli, il mistero dell'alfabeto.» Sin quì, Nino. Ed io rimasi colla curiosità di sapere come andrebbe quella prima lezione «in presenza de' cieli» e propriamente fino a qual lettera. Nè molto aspettài. Me lo disse, il dì dopo, il seguente biglietto: «Carìssimo; «spedìscimi, ti scongiuro, un bàrattolo di stafisagria.»
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