DANIELE
CORTIS
Le palle cozzarono insieme due
volte, forte.
Tac tac! fece il conte Perlotti
guardandole correre attento, con il gesso nella destra e la stecca nella
sinistra.
Santo diavolo! esclamò il
senatore. Non c'è taglio. Che stecche avete, contessa Tarquinia? Non si può
giuocare.
E dàlli! disse la contessa,
sottovoce, fra un gruppo di signore.
Genero mio benedetto soggiunse
allargando le braccia, più che scrivere e riscrivere che me ne mandino!
Si voltò alla Perlotti che
sorrideva silenziosamente guardando il tempo dall'uscio a vetri.
Bello, sai brontolò. Sarà la
ventesima volta che me lo dice. Vuole che le faccia io le stecche?
Che tempo! disse la signora,
prudente. Fa paura.
In faccia all'uscio a vetri il
grande cipresso morto, avvolto nel glicine sino alla punta, rizzava il suo
chiaro verde nel cielo livido; radi goccioloni macchiavano la ghiaia.
Eh, sì signora, paura. Proprio,
anche: paura. Paura, non è vero? Paura, sipo.
Era un coro di quattro o cinque
fra signore e signorine in fronzoli, molto serie, molto irrigidite dal grande
onore di trovarsi in casa della contessa Tarquinia Carrè.
Sei punti a me! gridò il
senatore.
Quanti? rispose un personaggio
invisibile.
Sei, sei, sei! Siete sordo?
No, ma i preti ah!
Già; è un baccano! Fate un poco
tacere a quei preti, contessa Tarquinia!
I preti giuocavano a tresette
nella stanza del piano, vociavano, schiamazzavano.
Scusate caro voi, Grigioli disse
la contessa a un giovane che parlava con la baronessa Elena Carrè di Santa
Giulia, seduta sul canapè vicino. Andate a pregare i reverendi, con buona
maniera, di non far tanto chiasso.
Quegli s'inchinò.
Benedetta la Sicilia gli disse
piano la contessa.
A proposito, mi raccomando, eh!
Cosa, contessa?
Dove avete la testa? Cortis.
Eh sì, va benone, contessa.
Cinquanta voti sicuri, qui. Lo dicevo adesso alla baronessa Elena.
Non parlate, caro voi, di queste
cose a mia figlia, che non sa cosa siano né la destra né la sinistra. Andate
là, andate là da quei reverendi... Dov'è Cortis? diss'ella a sua figlia, poi
che il giovane si fu allontanato.
Andate, andate, giovinotto, fate
tacere a preti disse il senatore a colui che passava lungo il biliardo.
Dite che imparino un poco da questi altri signori. Fate tacere a don
Bartolo!
Presso un'altra porta a vetri
della gran sala a crociera un gruppo d'uomini discorreva di qualche argomento
molto misterioso, pareva, e molto importante.
Uno di loro chiamò:
Dottor Grigiolo!
Comandi! rispose il giovane.
Vengo subito. E tirò avanti verso la stanza del piano.
È medico quel giovinotto? disse
il senatore al suo compagno.
No signore, dottore in legge
disse questi ossequiosamente.
I preti avevano smesso di
giuocare. Il cappellano don Bortolo teneva un foglio in mano e declamava dei
versi tra le risate dei colleghi.
La permetta, don Bortolo disse
l'ambasciatore.
Bravo, dottore rispose don
Bortolo. La venga qua, La senta anche Lei:
El sindaco risponde: a ghì
rason.
No, La permetta.
Ma La perdoni, La senta!
Il dottor Grigiolo si rassegnò
fremendo ad ascoltare un'altra strofa che finiva così:
E el sindaco: anca vù gavì
rason.
Va bene, ma La permetta.
Ma La perdoni, perché non La sa.
Adesso viene il bello.
Don Bortolo, riscaldato da
parecchie tazzette, come le chiamava, continuò a declamare una satira anonima,
la descrizione di un battibecco fra certi consiglieri comunali intorno a un
sindaco che dava ragione a tutti.
El sindaco tasea col collo
storto.
E po infin l'à concluso: a no
ghì torto.
Scoppiarono risate in tutti i
toni.
Bella, bellissima, arcibellissima
esclamò indispettito il dottor Grigiolo, ma, caro cappellano benedetto, non
vedo poi la necessità di rompere i timpani al prossimo. Capisce bene, di là ci
sono tante signore e proprio la contessa pregherebbe...
Le femmine? rispose don Bortolo.
Perché non ne sanno fare del chiasso, le femmine!
Zitto, zitto, andiamo, state
quieto, cappellano dissero i colleghi.
Bravi, mi raccomando; anche per
il conte Lao, che sta poco bene.
Il dottor Grigiolo guardò il più
vecchio di quei sacerdoti, l'arciprete, con una faccia tra seria e compunta.
Venga qua esclamò
l'incorreggibile don Bortolo, venga qua, dottore, non stia a combattere colle
femmine e beva una tazzetta con noi. Cosa mi conta del conte Lao? Non La
capisce che la sua camera è dall'altra parte? Non La sa che il conte Lao sta
meglio di Lei e di me? Non La sa che è matto?
Fate tacere a don Bartolo!
gridò il senatore dalla sala.
Oh, hanno capito? sussurrò il
dottor Grigiolo con gli occhi fuori della testa. L'Etna, corpo! Capace di venir
qua con la stecca, perdia!
Campanile! fece il cappellano.
La sua uscita e il suo comico
sgomento misero nella brigata una così clamorosa, irrefrenabile ilarità, che
Grigiolo scappò via con le mani nei capelli, mentre don Bortolo, rinfrancato,
si accingeva a leggere la chiusa del poema, quest'apostrofe agli elettori:
E se no sì na massa de marson,
Spetèi sti fioi de pipe a le
elezion,
A man che i ve vien soto parei
fora,
E mandèi tuti oto a la malora.
Fiasco, Grigioli! gridò da
lontano la contessa Tarquinia. Un'altra voce partì dal gruppo dei cospiratori:
Viene, dottor Grigiolo?
Egli rispose un momento; vengo
subito e tirava via; ma il senatore barone di Santa Giulia gli piantò sullo
stomaco una mano da San Cristoforo e lo fermò di botto.
Rispondi! diss'egli con il suo
vocione tonante. Sei Grigioli o Grigiolo?
Lo smilzo e garbato giovinetto
trasalì, diede un passo indietro e guardò il senatore come avrebbe guardato
Attila.
Grigioli, veramente rispose, ma
il popolo...
Il popolo L'aspetta se La si degna
disse colui che l'aveva chiamato prima.
Ah, il popolo! Ho capito disse il
barone. Voi non avete saputo far tacere a Bartolo.
Impossibile, senatore.
Impossibile, contessa. Il Suo vin bianco è troppo generoso. Ci vorrebbe una pompa
e dell'acqua. A momenti ne vien giusto giù un diluvio.
Credete, sì?
Oh sì, contessa.
Non vi pare che si alzi un poco,
il tempo?
Non vedo, contessa.
Avete guardato bene?
Contessa sì.
E non vedete?
Contessa no.
Santo diavolo, che contessamento
in questo paese! borbottò fra i denti il senatore, curvo sul biliardo, provando
e riprovando il colpo, con gli occhi alla palla avversaria.
L'uso, barone osservò
sommessamente Perlotti, ritto in faccia a lui.
Via, che gli elettori vi
aspettano disse piano la contessa Tarquinia a Grigiolo, e lo spinse via con le
mani, perché quegli, seccato, non ci voleva andare, preferiva la compagnia
delle signore alla sua missione elettorale. Poi la contessa si volse al gruppo
e disse:
Scommetto che questo tempo non fa
nulla...
E subito le voci ossequiose:
Direi anch'io, contessa. Pare di no, contessa. Non fa niente, nopo.
Nello stesso tempo il fragor del
tuono empì la sala, tutti i vetri suonarono.
Ohe! esclamò il senatore,
buttando la stecca sul biliardo.
Gesummaria! disse la contessa. Le
finestre! Le finestre di sopra!
E corse al campanello.
Una signorina, che prima non
aveva mai aperto bocca, si mise a gemere.
Oh che nero! Oh che inferno!
gridava il dottor Grigiolo. Venga da questa parte, contessa, se vuol vedere!
Un furioso colpo di vento irruppe
dalla porta che mette in loggia, buttò le cortine all'aria, soffiò via giornali
e carte, stridendo, dalle quattro cantoniere intorno al biliardo. Mentre
Perlotti correva a chiudere, l'arciprete scappò fuori in furia.
Arciprete, arciprete! gridò
Perlotti, passando la testa fra i due battenti. È matto?
Mi cercheranno per benedire il
tempo rispose il prete con le mani al cappello e le falde dell'abito al vento.
Il temporale, venuto su dietro le
montagne di ponente, aveva girato a mezzogiorno. Turchino cupo sopra le creste
cineree del Rumano, minacciava lo scuro piede selvoso del monte, le povere case
sparsevi, le praterie distese davanti alla villa Carrè, falciate di recente,
dorate da un chiarore sinistro.
La contessa Tarquinia, il Perlotti,
il barone di Santa Giulia, le signore, Grigiolo e i suoi amici erano tutti là
nel braccio della crociera che guarda mezzogiorno.
Tempo brutto disse il dottor
Picuti, notaio del paese.
San Giovanni e San Pietro osservò
un altro gran mercanti di grandine.
Il conte Perlotti espresse, con
grazia, il timore che quel povero arciprete non potesse arrivare a casa in
tempo.
Guardo il frumento, io esclamò il
grosso signor Checco Zirisèla che aveva il più bel podere della vallata e non
andava a messa
Già! u frumento! disse il
barone.
E l'uva, cazza! L'uva!
sussurrò la signora Zirisèla.
I preti non si erano mossi dal
loro salotto, strepitavano peggio di prima, quasi per soverchiar la voce dei
tuoni e del vento che ruggiva rabbioso intorno ai canti della casa, sbatteva,
al secondo piano, usci ed imposte, schiacciava a terra le vegellie, i philadelphus
frenetici del giardino.
Neppure la baronessa Elena,
rimasta sola, parea commuoversi del temporale. Abbandonata la persona sulla
spalliera del canapè, teneva il viso un po' chino al petto e le braccia strette
alla vita sottile, come se avesse freddo. Gli occhi grandi, neri, guardavan le
vette dei giovani abeti del giardino, agitate senza posa; parevano, nella
vitrea e grave immobilità loro, vedere tra quelle vette, nel cielo oscuro,
qualche fantasma, qualche solenne parola di tristezza invisibili altrui.
Improvvisamente una furia obliqua di piova strepitò sui vetri, sulla mura,
nascose il cielo, le montagne e gli abeti, mise un baglior bianco a tutte le
porte e le finestre della sala ombrosa.
S'udì la contessa Tarquinia dir
forte:
Daniele ha preso radice di sopra.
Se permettono vado un momento a vedere cosa succede.
Ella si accostò a sua figlia, le
disse piano e lamentevolmente:
Ti prego, sai, Elena, mi lasci
proprio sempre sola, non mi aiuti niente. Perché tuo marito non ci soffre,
anche!
La baronessa alzò appena la
testa, e rispose senza guardar sua madre:
Mio marito non mi abbada.
Ella aveva una voce un po' grave
ma dolcissima, un accento d'indifferenza molle, come di chi riposa ne' propri
pensieri e, richiamatone un momento, risponde distratto, a fior di labbro, per
non guastarne la trama, per riposarvisi ancora.
Giusto quello! disse la contessa.
Oh che contrattempo, Elena! C'è
qui la mamma! esclamò l'amabile Perlotti, comparendo alle spalle di
quest'ultima. Io che venivo a farvi la corte!
La giovane signora alzò gli occhi
al cielo.
Va là, Elena, va là insisteva sua
madre.
Poveretta, la si secca, e che
torto! osservò Perlotti carezzevole, quasi flebile.
C'è bene Sofia di là disse la
baronessa.
Mia moglie? Sì, ma non è mica
padrona di casa, lei.
Neppur io.
Con questa risposta data un po'
sdegnosamente, la baronessa Elena si alzò, e andò a raggiungere gli ospiti.
Ho paura, cara Tarquinia, che vi
tocchi alloggiarli tutti qui stanotte disse Perlotti all'orecchio della
contessa, appoggiando leggermente le mani alle braccia di lei, bella donna
ancora e molto elegante.
Signore, non ci mancherebbe
altro! Mi sono tutti tanto cari, ma vengono un paio di volte alla stagione, e
signor sì che hanno da capitare stasera!
Me mi metterete con quella
biondina, quella Zireseta, Ziresèla, cos'è, quella biondina piccolina.
Scempio! disse la contessa,
voltando il viso ridente. Vado da Lao.
E andò via, seguita da una
sghignazzata di Perlotti.
Si fermò in fondo alla sala,
sulla porta che mette allo scalone del primo piano.
Finalmente! diss'ella. Come lo
hai trovato?
Una voce virile rispose:
Triste.
Che novità mi conti! Il suo male è
tutto lì, perché lui mangia, perché lui dorme, perché lui passa le ore con le
ore a leggere e suonare. Questi dolori ci saranno, io non dico, ma anche lui si
ascolta molto. Il medico dice che bisogna distrarlo. Andiamo avanti, e come si
fa con quella eterna luna? E poi se tu sapessi, caro te, quanta voglia posso
avere di distrarre gli altri! Se tu sapessi i fastidi che ho, e la fatica che
faccio a mandarli giù!
astidi, zia?...
La contessa tacque un poco, si
morse le labbra, soffocò un singulto.
Niente, niente rispose
nervosamente, battendo le palpebre sugli occhi che luccicavano. Non andrai mica
via subito con questo tempo? Bravo, fammi un po' di corte a quelle signore.
Ella salì lo scalone e il suo
interlocutore entrò in sala, mentre le signore tornavano dallo spettacolo del
temporale ai canapè fronteggiantisi con le loro ali di sedie vuote, fra il
biliardo e la porta di ponente. La baronessa Elena fe' un giro per passargli
vicino, gli disse sottovoce:
Grazie, sai, Daniele, che hai
fatto tanta compagnia allo zio.
Cortis le strinse la mano, senza
parlare. Elena lo guardò meglio, trasalì.
Che c'è? diss'ella.
Una cosa grave rispose quegli.
Oh, ecco il nostro signor
candidato! esclamò il barone. Questi bravi signori vogliono sapere se
abbaierete a Tunisi e se morderete i ministri.
Con la sua grande persona, con la
sua gran barba fulva, con la sua gran voce, il barone pareva un brigante
normanno antico.
Che fare di Tunisi? A noi non
importa di Tunisi disse il signor Checco Zirisèla, un patriota che non aveva
soggezione di nessuno. Non siamo mica in Sicilia, qua.
Evviva l'Italia! rispose il
senatore. Pensateci voi.
E si allontanò.
Lasciamolo andare, quel trombone
sussurrò il dottor Grigiolo. Signor Cortis diss'egli al nuovo venuto, qui i
nostri amici della sezione desideravano dirle una parola.
Daniele Cortis s'avvicinò agli
amici, che in attitudine rispettosa, ma fermi al loro posto nella mal
dissimulata coscienza della sovranità, guardavano, con le spalle alla porta,
l'uomo ch'entrava nella luce piovosa, un'alta persona elegante, una bizzarra
fisonomia nobile, improntata di dignità e di risoluzione militare, due occhi
azzurri, intelligenti e fieri.
Niente disse il dottor Picuti che
incominciava sempre così le sue orazioni più gravi niente. Qui siamo tutti
persuasi, ma siccome, giusto, La sa, si parla qualche volta con amici delle
altre sezioni; io per esempio, La supponga, e qua il mio compare Zirisèla...
Appunto disse Zirisèla,
incoraggiando l'amico a continuare.
Colla cosa, dico, che noi due e
anche altri qui del paese si va spesso, giusto, nelle altre sezioni, e
dappertutto si sente questa musica ch'Ella è poco conosciuta (cosa vuole,
ignoranti!) e che non si sa come la pensi su questo e su quello; così sarebbe
sorto, giusto, il desiderio che, sia con un discorso, sia con la stampa, non so
se mi spiego...
Vogliono u programma disse
il barone alle signore con voce abbastanza prudente, nell'altro braccio della
sala. Hanno ragione. Quando s'è visto un candidato che non tiene u
programma? È come una casa senza facciata.
Meglio così che tante facciate
senza casa, che tanti programmi senza un uomo dentro disse sua moglie
vivacemente.
È vero, Elena saltò su la
contessa Sofia, che tuo cugino ha nome Daniele Volveno?
Sì rispose Elena, asciutta.
Che nomi strampalati avete qui
voialtri! esclamò il senatore.
Non è mica nostro veneto, barone,
questo nome rispose la Perlotti, battendosi dispettosamente un ginocchio con il
ventaglio.
È friulano. Il signor Cortis è
friulano.
Ma se lo so! Non volete che lo
sappia? E che cos'è il Friuli? Non è Veneto? Che razza di geografia volete
insegnarmi?
La signora si morse le labbra.
Domando scusa diss'ella ma...
Qui suo marito pensò bene di
correre a mettere il naso sui vetri, gridando: Oh Dio, guardate, guardate! Che
sia Malcanton quello là?
Si vedeva un ombrello venir su
traballando lungo gli abeti velati dalla pioggia.
Tutti corsero a guardare, tranne
il senatore e sua moglie.
Malcanton, Malcanton!
Sì, per bacco che è lui!...
Malcanton, contessa; è qui Malcanton!
Oh Dio gridò la contessa Tarquinia
che rientrava allora in sala. Io che me l'ero dimenticato! Aveva mandato questo
Malcanton, poche ore prima, a far delle commissioni.
Eh, ma dimenticato del tutto
soggiunse. Dio, che figura! Pare un topo annegato.
Ella aperse la porta, mise una
vocina graziosa, porgendo il capo e ritirando la persona. Presto, presto!
Dentro, dentro!
Il signor Malcanton entrò, si
scosse come un can barbone, tenendo l'ombrello a braccio disteso, mentre la
contessa gemeva a mani giunte.
Oh Dio, poveretto, in che pena,
in che pena sono stata! Poveretto, come siete rovinato! Che rimorsi! Presto,
presto, di sopra, di sopra, un punch, subito!
Fatto tutto, contessa, fatto
tutto! ripeteva il can barbone. Fatto tutto. Parlato al signor Momi, alla
signora Catina, inteso col dottore, impegnata la banda, telegrafato per i
fuochi.
E imbarcata l'acqua mugghiò il
barone seduto dietro gli altri, sul biliardo, con le gambe penzoloni. Tutti
risero, tranne Malcanton che guardò colui a bocca aperta.
Grazie, grazie infinite; ma di
sopra, adesso, di sopra! insisté la contessa, ricacciandosi il riso nel petto.
Elena, vai su dallo zio? Ti prego allora, passando, questo punch.
A proposito riprese Malcanton,
sarà anche scritto per questo libretto del Laven-tennis
e per sapere come si pronuncia.
Laan-tennisdisse
la contessa Perlotti.
Loon, loon mugghiò il barone.
O laan o loon, io
dico laven replicò Malcanton. Del resto sentiremo.
La contessa Tarquinia aveva fatto
venire un gioco di lawn-tennis, il primo della provincia.
Nessuno sapeva adoperarlo e nemmanco si andava d'accordo sul modo di
pronunciarne il nome; ma intanto alla villa Carrè c'era il
lawn-tennis. Anche al Caffè d'Italia, in città, ne
avevan parlato, avean disputato molto sul laan e sul loon.
Intanto, con permesso concluse
Malcanton, e si avviò dietro la baronessa, mentre il senatore diceva con un
tono singolare:
Grandi cose, dunque, contessa
Tarquinia! Un san Pietro colossale, quello dell'81!
Pur troppo sussurrò Malcanton,
compunto, alla sua compagna, cui ostentava di parlare molto familiarmente, come
se fosse ancora la bambina di una volta. Credi, Elena, che una lavata simile...
La giovane signora non gli badò,
volò su per le scale, dimenticando il punch, ed entrò nel chiarore della grande
sala vuota del secondo piano.
Udì le voci dei preti e del
senatore salire, mezzo spente, dal pavimento, e la pioggia eguale venir giù a
distesa, confermar con l'ampia e bassa sua voce quelle tre parole torbide: una
cosa grave. Attraversò la sala adagio adagio, con gli occhi alla porta della
camera dove Daniele era stato tanto tempo.
Una cosa grave!
Appoggiò la fronte all'uscio e
picchiò due colpi sommessi.
Si rispose forte: Avanti!
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