FUSI E FILA
I
La mattina seguente Massimo discese in salone alle sei e mezzo,
con grande sgomento del domestico Giovanni che lasciò di strofinare, fra un
gran disordine di mobili, l'impiantito e corse per il caffè.
Soffiavano da ogni parte nel salone ventolini freschi per le
grandi aperture, spalancate a mezzogiorno sullo smeraldo dei ripidi pendii che
i castagni coronano, a tramontana sulle nude scogliere enormi del Barco, a
ponente sui divi del giardino pendenti alla via di Lago, sul tremolio brillante
delle betulle e dei pioppi aggruppati lungo la rete di cinta, sui burroni del
Posina, sul gregge, oltre i burroni, delle case di Arsiero raccolte nel verde a
piè della chiesa signoreggiante, sulla gola scura, tagliata nello scoglio,
dietro la quale si accavallano dorsi su dorsi, varii di luce e di ombre, fino
al Torraro sovrano.
«Bella giornata» disse il domestico, ritornando col caffè. Intanto
Massimo, più che alle visioni di monti e di valli, di sole e di verde, aveva
guardato alla musica sparsa sul piano. Un grosso volume di Clementi e un
fascicolo di Corelli portavano scritto a grandi caratteri: «Leila.»
Mentre sorseggiava il caffè, seppe dal domestico che il signor
Marcello era uscito da un pezzo. Se fosse in giardino o in chiesa, se avesse
preso la via di Velo o la via di Arsiero, Giovanni lo ignorava. Massimo uscì
pure, per andare da don Aurelio. Stava chiedendo al custode, che gli teneva
aperto il cancello, la via di Lago, quando colui salutò rispettosamente
qualcuno che passava dietro le spalle di Massimo. Questi si voltò. Passava una
signora, non giovane, alta e magra, col capo scoperto e un ombrellino in mano,
chiuso benchè il sole ardesse già la stradicciuola sassosa. Con grande
meraviglia del giovine, la signora si fermò e gli sorrise.
«Signor Alberti?» diss'ella.
La voce soave parve a Massimo quella che aveva udito, nella notte,
alternarsi colla voce di don Aurelio. Salutò imbarazzato, guardando la signora
come uno che si scusa di non riconoscere chi gli parla. Gli stava davanti una
nobile figura di donna fra i cinquanta e i cinquantacinque anni, pallida, quasi
olivastra, dall'aria sofferente, dai capelli interamente bianchi, dai grandi
occhi luminosi, molto giovani ancora, spirante dignità signorile e dolcezza dai
modi come dalla voce e dal parlar lento.
«Sono amica di don Aurelio» diss'ella, sorridendo. «Siamo passati
di qua insieme iersera, colla speranza di vederla, ma Lei dormiva già.»
Massimo confessò che aveva veduto dalla finestra una figura nera e
una figura bianca.
«Infatti» disse la signora «avevo uno scialle bianco. Lei va da
don Aurelio? Ci vado anch'io.»
Massimo s'inchinò, la interrogò, più cogli occhi che colla bocca.
«Allora Lei?»
«Vayla di Brea» rispose la signora col suo dolce sorriso. «Don
Aurelio Le ha scritto qualche cosa di me? E il mio nome Le è riuscito nuovo?
Affatto nuovo?»
Massimo riconobbe umilmente che gli era riuscito nuovo.
«Vede» riprese la signora, «io mi sento un poco nonna con Lei,
quasi. Sua madre non era una Vittuoni? Non aveva nome Rachele? Sono stata in
collegio con Sua madre a Milano, da madama Bianchi Morand. Sua madre era delle
piccole, io ero delle grandi. L'avevo molto cara e mi divertivo qualche volta a
fare la mamma, con lei.»
Si avviarono insieme sulla stradicciuola che, a due passi dal
cancello, entra in un fresco di ombre, fra i castagni grandi della costa
precipitante al burrone onde salgono i colpi misurati e sordi delle turbine di
Perale.
La signora parlò subito del gran dispiacere di don Aurelio per non
aver potuto alloggiare Massimo e neppure andargli incontro alla stazione.
Raccontò che si era preso in casa, da due giorni, un infermo, un povero reietto,
un venditore di bibbie protestanti, che a Posina era stato malmenato a furor di
popolo e cui nessuno voleva ospitare.
«Poveretto!» esclamò la signora. «È un tipo! Un tipo!» E rise di
un riso breve, tosto represso perchè la pietà prevalse al senso del comico e
alla voglia di sfogarlo.
«È un certo Pestagran» diss'ella, «ma qui gli hanno posto nome
Carnesecca perchè nei suoi discorsi, che sono sempre lirici, nomina spesso
Carnesecchi. Egli si rifà, del resto. Una volta chiamava "pesci" i
suoi concittadini di Lago: pesciolini, anguille, pesce popolo, marsoni, qualche
volta gamberi. Adesso li chiama pescicani.»
Ella continuò a parlare del disgraziato Carnesecca con un umorismo
placido e fine, che divertì Massimo e non gli lasciò indovinare in lei
un'assidua visitatrice pia dell'infermo. S'interruppe tre volte, per incontri
diversi, prima all'uscita della selvetta di castagni, poi nel verde grembo
fiorito che i meli e i noci ombreggiano, dove le donne di Lago hanno il
lavatoio e la maestà delle pendici silenziose incombe sull'idillio. Prima una
vecchia miserabile, poi un povero sciancato trattennero la signora per
raccontarle guai. Ella stessa fermò una fanciullina scalza, sudicia, che
portava un canestro. Parlò a ciascuno affabile, dolce, chiamandolo per nome,
chiedendo di altre persone, di malati, di lontani. Alla fanciullina disse una
parola di rimprovero. Aveva saputo da un uccelletto certe cose! Congedati con
bontà i poveri, riprendeva a pennelleggiare la figura e le varie gesta
eroicomiche di Carnesecca, intercalandovi di tempo in tempo un «poveretto!»
come a soddisfazione della coscienza che le rimordesse di questo umorismo poco
cristiano.
Le prime casucce e stallucce di Lago, guardate dai noci e porgenti
fresche ombre di viti sui vicoli che sanno di fieno e di fimo, la signora e
Massimo toccarono il piazzaletto dove poche abitazioni linde ascoltano
rispettosamente il sermone sulla pulizia che una fontana recita proprio a loro
mentre la canaglia delle catapecchie sporche si tiene alla larga, come la canaglia
viziosa dai sermoni del prete. A sentire la contadina intenta ad attinger
acqua, Carnesecca era morto nella notte. Uno scamiciato in zoccoli che se
n'andava per i fatti suoi colla falce in spalla, la rimbeccò, senza degnare di
fermarsi, nè di guardarla, nè di smentirla.
«Cossa volìo saver vu ca sì foresta?»
La donna stridette le sue proteste, non già perchè, sebbene
forestiera, poteva sapere, ma perchè era di Maso, un casolare lontano mezzo
chilometro. Il passo pesante dell'uomo si perdette giù per le casucce sporche,
mentre la voce insolente ripeteva:
«Foresta, foresta, foresta!»
Allora una ragazza che stava annaffiando dei garofani, si porse
dalla finestra, salutò la signora, le disse che aveva portato il latte a don
Aurelio un'ora prima e che Carnesecca si sentiva molto meglio. L'altra si scusò
a questo modo: aveva sperato che fosse morto, il brutto uomo! E siccome la
signora le fece rimprovero della speranza crudele, prese la sua rivincita sopra
di lei.
«Parchè no La sa, Ela! Parchè la xe foresta! E anca el prete, me
par mi, siben che l'è un santo omo...»
«È foresto» disse la signora. E soggiunse volgendosi a Massimo con
un sorriso: «È samaritano».
«Eccu!» conchiuse acutamente la forestiera di Maso. «El sarà de
quel paese che La dise Ela.»
Massimo e la signora presero ridendo l'erta che conduce alla
chiesuola di Sant'Ubaldo, presso la quale è l'abitazione del curato. Videro
aperta la porta della chiesa, udirono la voce di don Aurelio ed entrarono. Egli
celebrava. La messa era al Pater. Due sole persone assistevano; una
vecchietta nell'ultima panca; sulla prima, davanti all'altare, china la testa
selvosa, raccolto nell'atto della preghiera intensa, il signor Marcello. I due
sopraggiunti s'inginocchiarono accanto alla vecchietta.
Quando, poco prima della comunione, il signor Marcello sorse,
quasi a stento, in piedi, e andò curvo a inginocchiarsi davanti alla
balaustrata, donna Fedele Vayla di Brea pose a quel vecchio capo grigio-fulvo
gli occhi pieni di dolcezza grave e solo ne li tolse, per abbassarli, allorchè
il celebrante gli si accostò con l'ostia consacrata e le parole di vita eterna.
Ell'aveva conosciuto Marcello da bambina. Era sui dieci anni
quando, all'indomani della liberazione del Veneto, il colonnello Vayla di Brea
comperò il villino delle Rose, presso Arsiero. Marcello aveva passati i trenta.
I suoi genitori vivevano ancora e le due famiglie, use godersi le vacanze in
Val d'Astico, si legarono subito. La piccola Fedele diede segno di una simpatia
strana per Marcello. Egli si divertiva spesso a suonare con lei a quattro mani,
tocco da quel sentimento infantile. Quando si fidanzò, la bambina, ch'era sui
quindici anni e si faceva assai grande, mutò contegno, parve evitare Marcello
anzichè ricercarlo come in passato; ed egli fu il solo a sospettare voluto
questo mutamento, a sospettarvi una di quelle vere e proprie inclinazioni
amorose, che qualche volta si son viste, di ragazze giovanissime per uomini
maturi. Quindi, non per diffidenza di sè, che anzi n'era annoiato, ma per
riguardo alla ragazza, smise ogni familiarità con essa. A diciott'anni donna
Fedele era una bella bruna, alta, slanciata, dai magnifici occhi, dalla voce
soave, molto elegante, scarsa di parole, profonda e inesplorabile nei
sentimenti, un po' bizzarra di gusti e di abitudini. Le relazioni fra lei e la
moglie di Marcello erano buone, affettuose. Solamente la musica pareva ancora
legare Fedele e Marcello; e da questo legame la signora Trento, che non sapeva
di musica, era esclusa. Donna Fedele cominciò, poco a poco, a ricercare da capo
la compagnia di Marcello e Marcello a goderne. I loro sguardi s'incontrarono
più spesso che non convenisse. Un giorno, durante una gita sulle alture
alpestri di Luserna e di Monterovere, il caso divise per qualche tempo lei e
lui dagli altri della brigata. Si smarrirono in una foresta di abeti.
L'appassionata fanciulla aveva forse prima sognato un sogno di gioia e di
tempesta. Si aggirarono per il bosco palpitando, tremando, senza parlarsi,
senza guardarsi mai. Nell'uscirne, Marcello colse un ciclamino e lo porse alla
fanciulla, in silenzio. Donna Fedele lo prese, vi posò le labbra, brillandole
negli occhi due lagrime.
Non suonarono più a quattro mani, quasi per una tacita intesa; ma
donna Fedele non dimenticò. Indusse suo padre a lasciare Arsiero e le rose che
tanto amava, che coltivava colle sue mani e aveva prodigiosamente moltiplicate
intorno al villino rosso. Andarono a villeggiare presso Santhià dove avevano
dei parenti. Passavano l'inverno a Torino e donna Fedele vi fu molto
corteggiata, parve talvolta non insensibile agli amori che destava. Si parlò
anche di passioni, di qualcuno che, respinto, si era ammazzato per lei. In
fatto non si decise mai a prender marito. Le imbiancarono i capelli, le
morirono i genitori. Rimasta sola a quarant'otto anni, stanca della vita
cittadina, si ricordò di Arsiero, abbandonò Torino e Santhià per il villino
delle Rose. Il povero Andrea Trento era già malato. Nel tempo breve che corse
fra la morte di lui e la morte di sua madre, donna Fedele si recò spesso alla
Montanina. Del sentimento antico per Marcello le restava una specie di
rispettosa deferenza, cresciuta, per la sventura di lui, quasi a venerazione.
Ma, dopo la morte della signora Trento e un primo scambio di
visite, nè Marcello venne più al villino delle Rose nè donna Fedele si recò più
alla Montanina. Il raffreddamento seguì per causa di Lelia. Lelia aveva provato
una impetuosa simpatia per donna Fedele al primo vederla e donna Fedele era
stata involontariamente glaciale con lei, o per distrazione o per qualche nube
di malumore che le offuscasse i pensieri. Ciò le accadeva, i suoi geli
incomprensibili avevano spesso fatto stupire la gente. Aveva sorriso alla
fanciulla un momento, le aveva dato un languido buon giorno, poi non le aveva
parlato più durante tutta la visita. Lelia la giudicò altera e si persuase di
esserle antipatica. Tenne quindi con essa un contegno tanto più fieramente
freddo quanto più si sentiva portata a un'amicizia calda. E donna Fedele,
lontana dal sospettare il vero, credette alla sua volta di averle ispirato
antipatia. Se ne dolse in cuore, ma non era nel suo carattere, poco espansivo,
di fare qualche cosa per guadagnarsi l'animo della giovinetta. Dopo la morte
della signora Trento, vedendosi mal gradita dalla persona che a Marcello era
cara e sacra come una parte superstite di suo figlio, si astenne dal recarsi
alla Montanina. S'incontravano abbastanza spesso, ella e Marcello, sulla strada
che da Velo mette ad Arsiero passando poco sotto la villa. Allora conversavano,
facevano cammino insieme. Di Lelia non parlavano mai. Quello era un punto
freddo che neppure Marcello amava toccare. Perchè conosceva le singolarità di
donna Fedele, inclinata a sentire fortemente simpatie e antipatie, si era
persuaso che Lelia le fosse antipatica e n'era ferito nella religione di suo
figlio. Come da piccoli fori profondi sino alle viscere di certe montagne
fiata, l'estate, per l'erba un freddo che l'esperto avverte anche nel sole,
così nell'amicizia di Marcello per donna Fedele spirava da quel punto oscuro
una lieve freddezza, occulta ma sensibile. Donna Fedele lo comprendeva e
taceva. Non avrebbe voluto che il vecchio sapesse di chi era veramente, secondo
lei, la colpa, se colpa v'era. Mai non gli avrebbe detta una parola contro
Lelia. Nel riverente affetto di lei nessun freddo era spirato.
Ella rialzò gli occhi sul volto del vecchio che ritornava dalla
balaustrata, tutto raccolto in sè, alla sua panca, mentre don Aurelio si
voltava, a dire: Dominus vobiscum. Massimo guardò l'amico, pensando
esserne veduto; ma l'amico non lo vide. I suoi occhi mistici non parevano
vedere le cose della terra. Il giovine lo trovò dimagrato e invecchiato dopo
l'ultimo loro incontro. Era dimagrato, invecchiato e più illuminato, nel viso,
di spirito.
Finita la messa, donna Fedele sussurrò a Massimo:
«Lei aspetterà don Aurelio. Io vado dal mio amico. Verrà anche
Lei, vero, più tardi?»
Lì per lì, Massimo non intese che l'amico era Carnesecca. Fece, a
caso, un cenno di assenso e sedette aspettando don Aurelio.
Dovette aspettare un pezzo. Il ragazzo che aveva servito la messa
spense le candele e se n'andò per i fatti suoi. Il signor Marcello, dopo avere
pregato alquanto, si alzò dalla sua panca, entrò in sagrestia. Massimo udì un
bisbiglio e poi più nulla. Passavano i minuti, nè il signor Marcello nè don
Aurelio ricomparivano. Egli non n'era impaziente. Godeva il senso di pace
diffuso intorno a lui nelle povere mura, nei poveri vecchi arredi che gli
suggerivano immagini di case anche più povere, di gente semplice, di feste
della fede ingenua; mentre il vento vivo della porta aperta gli portava odori
freschi di bosco e di prato, voci dai campi, lontane. Godeva il ristoro dagli
strepiti e dalla polvere di Milano infocata, come la sera prima, salendo alla
Montanina sul fianco del vallone scuro dove canta l'acqua cadente nel folto
delle macchie. Gli era dolce di sentire e di non pensare. Anche gli suonava
nella memoria, come un canto lontano lontano, la musica della notte. Lo invase,
poco a poco, un sopore pieno di vaghe immaginazioni. Le voci di un coro
sotterraneo empivano soavemente la chiesa, mentre una giovine donna, con i
capelli scomposti e le palpebre abbassate, usciva dalla sagrestia, veniva lenta
fino a lui, si chinava a toccarlo sulla spalla destra. Trasalì dal cuore,
aperse gli occhi, vide don Aurelio, solo, che lo aveva toccato e sorrideva.
Chiusa a chiave la
porta della chiesa, don Aurelio infilò il braccio sotto quello di Massimo e
strinse affettuosamente il giovine a sè. Don Aurelio, nativo di Roma, aveva
studiato a Propaganda col proposito di farsi missionario. Una lunga malattia e
la volontà dei Superiori, che diffidavano della sua resistenza fisica, lo
avevano costretto a rinunciarvi. Amico intimo del benedettino don Clemente, di
Santa Scolastica in Subiaco, aveva conosciuto Benedetto a Subiaco, lo aveva
riveduto, anche per desiderio dell'amico, a Roma, si era legato di grande
affetto a lui e a Massimo. Nella convalescenza di una recidiva il suo medico
gli consigliò l'aria di montagna. Un prete vicentino, stato suo condiscepolo e
suo estimatore a Propaganda, volle adoperarsi perchè il vescovo di Vicenza lo
accogliesse nella sua diocesi e lo destinasse alla curazia di Lago di Velo. Il
mansueto don Aurelio lasciò fare, contento che la Provvidenza disponesse
di lui, contento di avere a comunicare in Cristo con anime semplici, contento
di conservarsi nella sua nativa povertà. E venne a Lago, solamente questo
sapendo della sua nuova residenza, ch'era ben povera. Non dimenticò l'anima
cara di Massimo. Gli scriveva spesso, vegliava sopra di lui, non come un padre
disposto ad assisterlo nelle sue lotte di fervente discepolo dell'uomo sepolto
a Campo Verano, ma come una madre che trepidasse per l'anima sua. Lo sapeva
tentato fieramente d'ira e di odio per la ingiusta guerra che gli era mossa da opposti
lati; lo sapeva tentato di deviare dalla retta dottrina religiosa come ne
avevano deviato non pochi amici suoi, quali per innato orgoglio, quali per
impeti di reazione; lo sapeva tentato, finalmente, anche dalle corruzioni del
mondo. Sapeva, per confidenze dello stesso Massimo, di donne belle ed eleganti
che gli si erano offerte. Sapeva com'egli avesse a lottare col proprio profondo
senso poetico della donna, forse più duramente ancora che col proprio corpo. Lo
vedeva in pericolo grave fino a che non avesse incontrato e amato di amore una
donna degna di diventare sua moglie; la quale, liberandolo dalle tentazioni,
gli creasse intorno una rete di affetti e d'interessi familiari, che valesse
anche ad appartarlo dalle lotte religiose. Don Aurelio, sia per la mitezza del
carattere, sia per il suo concetto dei particolari doveri impostigli dall'abito
ecclesiastico, non era uomo di combattimento. Nelle questioni religiose non
apriva la sua mente che a Dio, da Lui solo aspettava, pregando, il trionfo
della verità e della Chiesa. Una conferenza di Massimo sugli eretici italiani
del secolo sedicesimo, tenuta recentemente a Milano, gli aveva suscitato contro
una tale tempesta d'insulti rossi e neri, un tale putiferio di commenti anche
dalla gente amica del quieto vivere e ostile a chi non le somiglia, che don
Aurelio consigliò il giovine amico di togliersi per qualche tempo da quel
trambusto e gli offerse la propria ospitalità, povera di agi, ricca di pace.
«Bravo che sei venuto!» esclamò. Poi, come per un sopraggiunto
moto dell'animo, strinse ancora più forte il braccio che già teneva stretto a
sè. Massimo sentì nella stretta qualche cosa che lo turbò. Dubitò che quella
tacita dimostrazione di affetto intenso coprisse giudizi non voluti esprimere o
forse li precedesse: giudizi non scevri di biasimo. Gli parve un'antecipata
scusa, una protesta di non volerlo offendere.
«Mi ha disapprovato anche Lei» diss'egli, triste.
«Caro» rispose don Aurelio, «posso non averti approvato in tutto,
ma in questo momento penso solamente che hai sofferto.»
— Posso non averti approvato in tutto. — A queste parole
Massimo si sentì nel petto come un arresto del sangue e poi un freddo, un
formicolio, un peso di tristezza. Non replicò niente, lì per lì. Solo quando
don Aurelio entrò, avanti a lui, nel recinto dove, oltre una legnaia mezzo
diroccata, è la povera casuccia del curato, mentre l'amico gli diceva il suo
dispiacere di non averlo potuto alloggiare, lo trattenne, gli chiese, quasi
angosciosamente, cosa non avesse approvato. In quel momento venne loro incontro
donna Fedele. Don Aurelio fece le presentazioni, meravigliandosi prima e poi
rallegrandosi di vedere i due sorriderne. Carnesecca stava benino; era però
inquieto, domandava continuamente di don Aurelio. Don Aurelio non avrebbe voluto
che lo si chiamasse Carnesecca; ma donna Fedele protestò vivacemente, alzando
le sopracciglia e parlando, contro l'usato, frettolosa, di essere popolo e di
voler esprimersi come il popolo.
«Vuole che lo chiami come lo chiama l'arciprete?» diss'ella. L'arciprete,
scherzando sul nome Pestagran, lo chiamava Gran Peste. Don Aurelio diventò
rosso. Non gli piaceva il nomignolo appioppato dall'arciprete a quel misero
errante di buone intenzioni; ma neppure gli piaceva udir parlare dell'arciprete
in tono di biasimo e d'ironia.
«Eccomi» diss'egli, entrando con Massimo dal fresco vivo della
scala nella camera dell'infermo, in un'afa appestata di puzze farmaceutiche.
Donna Fedele era rimasta fuori. Una vecchietta seduta accanto al letto dove la
vecchia faccia raggrinzita di Carnesecca sporgeva giallognola, come un pugno di
creta, fra il berretto da notte e la rimboccatura delle lenzuola, si alzò in
piedi, giunse le mani, beata, esclamò:
«Oh sia lodato, ch'el xe qua!»
L'infermo alzò un poco il capo e il busto, puntellandosi sopra un
gomito e alzando l'altro braccio a recar la mano, militarmente, al berretto da
notte. Poi, volto alla vecchia, le disse, solenne:
«Lúzia.»
Distese il braccio con un maestoso e lento girar della mano fino a
mostrarne alto il palmo verso l'uscio; e proseguì:
«Andate pure a fare i vostri mistieri.»
La vecchietta se n'andò, ripetendo «vago vago» e il palmo levato
ricadde, con un gran colpo sordo, sulle coltri.
«La buona donna soffriva della mia naturale impazienza.»
Così dicendo, il signor Ismaele Pestagran soffiò forte per le
narici e strinse i suoi piccoli occhi in due faville nere. Si accorse di
Massimo entrato alle spalle di don Aurelio e si recò ancora la mano al berretto
da notte. «Questo signore?...»
Non pareva contento della presenza di «questo signore». Massimo
capì e si affrettò a ritirarsi. Carnesecca, vedendolo movere verso l'uscio, gli
disse solamente «scusi!». Nello stesso tempo, donna Fedele, che lo aspettava
sul pianerottolo della scala, lo invitò a scendere con lei. Accadeva qualche
cosa che Massimo doveva sapere. Mentre don Aurelio stava celebrando, era venuto
il sagrestano di Velo con una lettera dell'arciprete. Aveva lasciato la lettera
e parlato colla Lúzia, la quale poi si era espressa con Ismaele così: «Coi
vostri malegnazi libri, vu andarì all'inferno e mi me farì andar per carità».
Non aveva voluto spiegarsi di più ma Ismaele era convinto che i preti di Velo
volevano cacciare don Aurelio da Lago per causa sua. Massimo domandò se vi
fosse realmente questo pericolo. Come saperlo? La Lúzia aveva portato
il messaggio dell'arciprete nello studio del padrone e don Aurelio non vi era
ancora entrato. Ma donna Fedele che ne pensava? Donna Fedele temeva moltissimo.
Forse per confidenze di don Aurelio? Nemmen per sogno. Don Aurelio non parlava
dei Superiori che per dirne bene. Secondo lei c'era più a temere del cappellano
di Velo che dell'arciprete e più dell'arciprete che del vescovo. Il vescovo,
anzi, pareva molto benevolo a don Aurelio. Questo cappellano, questo arciprete,
che uomini erano? Del cappellano donna Fedele non volle dir niente.
Dell'arciprete disse ch'era un uomo difficile a conoscere. Ora pareva bonario,
ora duro; ora gioviale, ora sarcastico; ora liberale, ora retrivo. Come prete,
incensurabile. E qui donna Fedele dichiarò, per debito di coscienza, che anche
i costumi del cappellano erano incensurabili. Don Aurelio diceva l'arciprete
buon teologo e buon latinista, gli attribuiva tutti i meriti di cui essa non
poteva giudicare. Fra lui e il vescovo, uomo di cuore caldo, di grande carità
verso amici e nemici, non c'era buon sangue. Si poteva scommettere che
l'arciprete avesse subìto don Aurelio a Lago per forza e con dispetto. Secondo
lei, don Aurelio era sospetto da un pezzo per la sua predicazione,
continuamente sorvegliata, della quale il cappellano aveva insinuato che fosse
troppo abbondante di morale pura e di sentimento mistico, troppo scarsa di
teologia e di ascetismo.
Stando Massimo e donna Fedele a discorrere così sull'entrata della
casa, passò la Lúzia
che andava nell'orto a coglier piselli. Donna Fedele la trattenne. Dunque,
cos'aveva detto, veramente, questo sagrestano? Aveva detto: «Fèghe drio, fèghe
drio, vu, a Gran Peste! Stavolta el vostro prete el trota». «Curate, curate
Gran Peste, voi! Questa volta il vostro prete se ne va.»
Donna Fedele si accese in viso di collera e un fuoco amaro salì
anche nel cuore di Massimo. L'erba del prato, le foglie dei gelsi, tremolanti,
luccicanti nella brezza pura, le facce placide delle montagne beate nel sole,
il gran sereno, tutto, anche l'orticello colle selvette dei piselli, era pieno
di bontà, era una musica di bontà intorno alla povera umile casa dell'uomo di
Dio, dell'anima penetrata di Cristo. Adesso niente aveva più espressione. Le
buone voci delle cose tacevano, colte da un gelo. Nè Massimo nè donna Fedele
osarono dire il loro sdegno nella vicinanza di don Aurelio come non l'avrebbero
detto in chiesa. Udirono il passo del curato sulla scala e la voce di
Carnesecca che gridava: «Voglio, signore! Voglio!». Udirono don Aurelio
rispondere: «No! No!». Poi più nulla.
«Vorrà partire» mormorò donna Fedele «per causa della lettera.
Figurarsi se don Aurelio lo lascia partire in quello stato!»
Don Aurelio non compariva. Donna Fedele si spiccò da Massimo,
prese la scala, entrò, senza bussare, da Carnesecca. Massimo fu molto
meravigliato di vederla scendere tosto, ridendosi nelle mani strette sul viso.
Aveva trovato Carnesecca colle gambe nude fuori del letto. Erano due tali
trampoli neri e secchi di gambe e il pover uomo si era messo a gridare così
disperatamente «via! via!» tirandosi addosso le lenzuola, che donna Fedele, col
suo carattere, non avrebbe potuto trattenere le risa neppure se le fossero
morti il padre o la madre quella mattina.
Ella raggiunse la
Lúzia fra i piselli, la consigliò di andare ad assistere il
suo ammalato. La Lúzia
non volle saperne. Faceva sempre così, quell'uomo. Voleva scendere dal letto
senza aiuto. Mandava fuori anche lei, allora. Ma se gli venisse un capogiro? Se
cadesse? Se si rompesse un braccio? Se si rompesse il femore?
«Vergine benedeta, quante robe!» fece la Lúzia, dura.
«Eh, quante robe!» ribattè donna Fedele, ridendo. «Mi pare che
basterebbe una.»
Rise anche la
Lúzia e continuò la sua vendemmia di piselli. Allora Massimo
si avvicinò, propose di andar egli. La Lúzia approvò subito. «El vade, El vade!» Invece
donna Fedele fece «hm!» e sorrise di un sorriso enigmatico che punse la
curiosità di Massimo. Ella gli spiegò allora con parecchi altri sorrisi e
parecchie reticenze, ch'egli non era affatto sul buon libro di Carnesecca.
Carnesecca leggeva i giornali, credeva che Massimo fosse un modernista, uno di
coloro che studiano la Bibbia
per trovarvi delle falsità, degli errori, delle contraddizioni, delle
interpolazioni, mentre per lui tutto vi era scritto dalla mano di Dio. Era
molto contento che don Aurelio non avesse simpatia per la critica biblica.
Diceva che circa questo punto gli piacevano più gli ebrei di tanti cattolici.
Infatti uno degli amici suoi più cari era un rabbino di Londra. Massimo, non occupatosi
mai di critica biblica, si divertì molto dell'orrore che ispirava e anche di
quest'amicizia col rabbino di Londra. Donna Fedele gli raccontò che Carnesecca
aveva passato parecchi anni in Inghilterra, dove si era fatto protestante, e
che vi aveva conosciuto un rabbino, uomo di scienza, dal quale aveva appreso
come il corpo umano si componga di trecentosessantacinque ossa. Soggiunse,
colorendo forse un poco la cosa colla propria fantasia di umorista, che, in
seguito al suo martirio di sassate e di legnate cattoliche, Ismaele sosteneva
di sentirsene dolere trecentocinquantanove. I due discorrevano così,
quietamente, fra i piselli, mentre la Lúzia era intenta a coglierli. A un tratto li
scosse la voce di don Aurelio, affacciato a una finestra del suo studio:
«Massimo! Vieni?»
Massimo corse in casa e donna Fedele, mezzo morta di stanchezza,
pregò la Lúzia
che le portasse fuori una sedia, si dispose ad aspettare lì qualche notizia del
messaggio arcipretale.
Don Aurelio
venne incontro a Massimo sul pianerottolo della scala, gli tese le mani, le
tenne un poco fra le proprie, guardandolo in silenzio e sorridendo. Poi lo
introdusse in un povero studiolo pieno di luce, dal soffitto di graticci
imbiancati, dall'impiantito di mattoni, dove non erano che una libreria, un
tavolo di abete, poche vecchie seggiole impagliate, un seggiolone di cuoio
sdrucito onde scappavano ciuffi di stoffa; e, sopra il seggiolone, un
crocefisso di legno. In faccia alla libreria si apriva un camino. La libreria
era piena zeppa di libri, il tavolo n'era carico e così la caminiera e così le
seggiole, meno una. Non v'era però disordine; erano cataste regolari, disposte
simmetricamente. E non v'era polvere, tutto era mondo come la tonaca e le mani
signorili di don Aurelio. Sopra il camino, fra le due finestre, si vedevano due
fotografie; una del Sacro Speco di Subiaco e l'altra del Chiostro dei Cosmati a
Santa Scolastica. I libri erano in grandissima parte di argomento religioso.
Don Aurelio teneva molto alla sua collezione di grandi mistici e alle opere
complete di Antonio Rosmini e del padre Gratry. Queste ultime, come pure la
raccolta degli oratori sacri di Notre Dame e i molti volumi di moderni
scrittori cattolici francesi, erano dono della Vayla e avevano appartenuto a
suo padre. Don Aurelio veniva mostrando le proprie ricchezze con tanto sereno
compiacimento, trattenne con tanta pace il suo giovine amico alla finestra,
indicandogli le montagne per nome, i casolari, le vie lontane, che Massimo
pensò: o non sa o non è vero. Sentiva intanto di avere un'aria così distratta,
di mostrare un interesse così scarso per le cose di cui don Aurelio gli
parlava, da trovarsene male egli stesso.
Colse un momento in cui don Aurelio gli nominò Velo d'Astico, per
chiedergli quali fossero le sue relazioni coll'arciprete.
«È un buonissimo uomo» rispose don Aurelio. E soggiunse
sorridendo: «Forse non ha una grande simpatia per me».
Non v'era una ragione di sorridere. Massimo capì che don Aurelio
sapeva.
«Perchè sorride?» diss'egli.
Il curato non rispose.
Si udì la voce della Lúzia che saliva le scale gridando:
«Smèle, Smèle! Xelo là, Smèle?»
Ella entrò in furia e, guardatosi attorno, parve tramortire,
giunse le mani, esclamò:
«Gèsumarìte che nol ghe xe!»
Chi, non c'era? — Ma, Smèle! — Che Smèle? — Cape, Carnesecca!
Sicuro, entrando nella camera dell'ammalato, la Lúzia non lo aveva
trovato più. Don Aurelio intese, diede un balzo precipitò dalle scale, seguito
da Massimo e dalla Lúzia. Proprio vero, la camera era vuota. E gli abiti, gli
abiti? Gli abiti erano scomparsi.
«Gèsumarìte, poro can!» fece la Lúzia. «El me ga lassà un franco.»
La moneta brillava sulla paglia della sedia, accanto a un gomitolo
e a due ferri da calze.
«El se ga desmentegà l'orologio» soggiunse.
«Massimo!» esclamò don Aurelio. «Vieni con me!»
Incontrarono sulla porta di casa donna Fedele, che, udite le grida
della Lúzia, le voci commosse degli altri, veniva a vedere di che si trattasse.
La informarono rapidamente. Allibì. Allora era vero? La lettera portata dal
sagrestano?.. Carnesecca era partito per questo? Oh Signore!
Donna Fedele parve annientata.
«È vero» rispose don Aurelio placidamente, «ma quel pover uomo non
c'entra per nulla e adesso si fa del male, stamattina aveva ancora febbre. E
Lei non lo ha veduto uscire?»
Donna Fedele, intenta a guardare la Lúzia che stava
raccogliendo piselli, non aveva veduto nè udito, come non aveva veduto nè udito
la Lúzia.
Don Aurelio pensò un piano d'inseguimento. Conveniva decidersi.
«Io non posso correre» disse donna Fedele, sorridendo. Poteva correre tanto
poco che, dopo avere stretto in silenzio la mano al curato, si ricondusse alla
sua seggiola. Più tardi le bisognò pregare la ragazza di Lago, portatrice del
latte, che le desse di braccio fino al castagno candelabro dove l'attendeva una
carrozzella da nolo.
Don Aurelio scese di corsa verso Lago coll'idea che Ismaele si
fosse diretto alla Montanina. Massimo salì verso Maso. Il curato giunse fino ai
castagni della costa dove biancheggia la villa Trento, senza incontrare anima
viva. Possibile che Ismaele fosse già passato? Un uomo sulla sessantina,
febbricitante, quasi digiuno? Impossibile. Don Aurelio si fermò colpito da
un'idea. Se quel diavolo d'uomo, supponendo tutto quello che supponeva, fosse
andato ad affrontare l'arciprete? Pensandoci, la cosa gli parve più che
probabile. Pur troppo! Si battè la fronte, ritornò frettoloso sui suoi passi
invece di salire diritto, per l'accorciatoia, da Lago a Sant'Ubaldo, prese la
via che, a pochi passi dalla Chiesa, raggiunge l'altra, scendente a Velo. Ecco
Massimo che ha trovato gente sulla strada di Maso. Nessuno ha veduto
Carnesecca. Don Aurelio non dubitò più.
«Vado io, a Velo» diss'egli, «e ci devo andare solo. Tu va alla
Montanina, dove ti aspetteranno.»
Massimo gli domandò se, quando non gli riuscisse di ricondursi
Pestagran a casa, la camera di Pestagran restando vuota...
Don Aurelio lo interruppe.
«No, caro, non è possibile, ti dirò...»
E perchè leggeva nel viso di Massimo altre domande, altri
sospetti, parole di dolore, parole di sdegno, lo spinse via:
«Va va dal signor Marcello che t'aspetta, va, parleremo, adesso
devo cercare quel disgraziato, devo impedire che faccia qualche sciocchezza,
va, va! Il signor Marcello mi ha invitato a colazione. Se posso, vengo.»
Il messaggio
dell'arciprete conteneva una lettera della Curia Vescovile di Vicenza
coll'asciutto licenziamento di don Aurelio, dentro il termine di quindici
giorni, dalla curazia di Lago di Velo. Conteneva inoltre alcune corrette righe
dell'arciprete, il quale, dicendosi dolente della inattesa comunicazione,
pregava don Aurelio di voler provvedere a che, dentro il termine stabilito, la
casa fosse libera da mobili e da persone; il suo successore dovendo portare con
sè la madre e una sorella.
Era un'amara cosa venir cacciato da quel nido di pace, separato dal
piccolo, caro gregge, non saper dove trovare un tetto, un pane. Libera da
mobili e da persone. Non era possibile che lo cacciassero per causa
d'Ismaele, ma qualche cosa, poste le circostanze, quella parola persone
significava.
Passato il primo momento di stupore e di dolore, don Aurelio si
era sentito nell'anima una dolcezza serena, quasi per le mani amorose di
Cristo, che gli posassero sul capo. Adesso non pensava più affatto al suo
triste caso, pensava soltanto a due cose: a trovare il venditore di Bibbie e a
certo discorso gravissimo, delicatissimo, che il signor Marcello gli aveva
fatto in sagrestia, dopo la messa.
Passò, camminando in fretta, davanti a un'osteria solitaria.
L'oste, un lombardo barbuto, stato giardiniere al villino delle Rose, fumava la
pipa, scamiciato, sulla porta. All'avvicinarsi di don Aurelio gli voltò le
spalle, entrò nell'osteria, dicendo abbastanza forte:
«Porci di preti, buttano un moribondo in strada e poi vanno a
vedere se è crepato.»
E sputò con disprezzo. Don Aurelio mosse difilato alla volta
dell'uomo, lo affrontò.
«Galantuomo» diss'egli.
Colui, stupefatto, si levò la pipa di bocca.
«Mezzo litro, reverendo?»
«Dov'è» chiese don Aurelio con piglio risoluto «il moribondo che
ho buttato in istrada?»
«Ah, l'uomo delle Bibbie, neh?» rispose l'oste, pacifico. «Scusi
se ho detto quella cosa. Non la ho detta per Lei. Del resto, per me, meglio i
preti che quel Bibbia lì. È qui, è qui. Lo ha trovato la donna sulla strada,
mezzo morto. Ma non ci sta mica, sa. Se l'è per quello, stia tranquillo, el
dica, che se non va via con i piedi suoi, lo faccio andare cont'i miei, di
piedi. Eh? Se prima ho parlato male, parlo mica bene, adesso, forsi? Buon
giorno, giovinotti!»
Entrava nell'osteria una frotta di alpini assetati. L'oste li
accolse fregandosi le mani: «Buon giorno, buon giorno! Rampicanti! Rampicanti
sempreverdi!».
Intanto don Aurelio era svoltato nel cortile a fianco
dell'osteria, onde venivano grida femminili quasi angosciose. A due passi dal
letamaio, sopra un vecchio carcame di sedia mal piantato nella fanghiglia nera,
posava l'altro vecchio carcame di Carnesecca, mal sorretto dalla moglie
dell'oste, che gridava: «Checa! Checa! Presto! presto!» con quanto fiato aveva
in corpo. Don Aurelio si precipitò, rimise alla meglio in equilibrio il povero
Carnesecca che rovinava da tutte le parti, smorto come un cencio lavato male;
rimproverò la donna di non averlo portato in casa. La donna, un po' gridava
«Checa!», un po' si scusava. Era il suo uomo, Gesummaria, che non aveva voluto.
E neanche Carnesecca, Maria Vergine. Pareva rinvenuto, appena tolto su dalla
strada. Non era come adesso. Anzi aveva detto: «Mettìtimi sul letamaglio, che
son Giopo, io». A questo punto Carnesecca aperse un poco gli occhi e brontolò,
col mento sul petto:
«Giobe, no giopo!»
«Sì sì» fece la donna. «Tasì, che adesso i ve porta el cafè.»
Ecco la Checca,
finalmente, una pollastrona flemmatica di sedici anni, bianca e rossa, che
arriva lemme lemme col caffè, non il caffè del padrone e dei clienti, ma quello
della padrona e della serva, un caffè simbolico, nel quale il frumento tostato
entra per quattro quinti.
Ma intanto una gallina, che fino a quel momento era andata
placidamente a diporto sul letamaio, ora guardando con orgoglio ora beccando
con umiltà, impaurita dal cane di casa, starnazzò le ali giù nel cortile e
s'imboscò in una siepe.
«Gèsu, la galina, parona!» fece la Checca, fermandosi sui due
piedi. «Gèsu, ciàpela ciàpela!» gridò la padrona, conscia di un buco nella
siepe e di certi feroci propositi del vicino contro le incursioni gallinacee.
Don Aurelio strappò alla Checca il vassoio del caffè e le due
donne, la padrona davanti, la
Checca dietro, via come il vento ciabattando per la
fanghiglia nera. Un sorso di caffè bastò a rianimare il venditore di Bibbie,
che fissò don Aurelio, a bocca aperta, senza dir nulla, con uno sguardo fra
trasognato e ridente.
«Cos'avete fatto, benedetto uomo? Cos'avete fatto? Cosa vi è
venuto in mente?»
A questa domanda del curato, Carnesecca sorrise e rispose nel suo
italiano di Val d'Astico:
«Gliela ho fata, vede. Glielo avevo deto. Gliela ho fata.»
Un altro sorso di caffè.
«A me? A voi l'avete fatta. Ma dove volete andare?»
Ancora un sorso, dopo il quale Carnesecca affondò lo sguardo
indagatore nel liquido, con una eloquente contrazione delle labbra.
«Dove voglio andare?» diss'egli guardando ancora nel caffè di
frumento. «Prima dal Sommo Sacerdote di Velo.»
«Questo lo proibisco!» esclamò don Aurelio.
«Vado con rispetto e mansuetudine» riprese placido Carnesecca «dal
Sommo Sacerdote di Velo e gli dico: saziati di me, fammi crocifiggere, perchè
questa è Gerusalemme, tu sei Caifasso e io sono il figlio dell'Agnello.»
Don Aurelio andò fuori dei gangheri:
«Non dite stupidità! È tutta una stupidità vostra quello che
supponete! Non è vero niente! Voi ritornerete subito a casa mia!»
Il figlio dell'Agnello, colpito dal volto acceso e dall'accento
furioso di Don Aurelio, lo guardò:
«Ben! — Ben! — Ben!» diss'egli, parlando a colpi di pistole. «Se
non è vero, non vado. Ma piuttosto morire sul quel letamaio che ritornare da
Lei! Domanderò asilo alla Dama bianca delle Rose, la quale...»
«Calàpo!» gridò l'ostessa
che aveva acciuffata la gallina e se la riportava fra le braccia. «Calàpo!
Calàpo! Cosa feu, Calàpo?»
Calàpo, un omiciattolo tozzo, scamiciato e scalzo, che stava
tirando una carrettella fuori della rimessa, vociò alla sua volta che attaccava
l'asino per andare a Piovene. L'ostessa andò sulle furie.
«Gnente, gnente, ch'el ga i duluri el musso, bestiulo!»
Carnesecca, disturbato all'inizio di un panegirico della Dama
bianca delle Rose, com'egli chiamava la Vayla, cercò di alzarsi per andarsene. Don
Aurelio lo trattenne. Aveva pensato che, poste le circostanze, fosse meglio,
per molte ragioni, lasciarlo andare al villino delle Rose. Ma non era possibile
lasciarvelo andare a piedi. Pregò l'ostessa di permettere almeno, se non voleva
ospitarlo, che Calàpo lo conducesse al villino coll'asino. Ma l'ostessa
allegava le sofferenze del «bestiulo», Calàpo urtava la carrettella indietro al
suo posto e Carnesecca pretendeva di poter andare a piedi. Don Aurelio si mosse
per affrontare l'oste e chiedergli di ricoverare quell'uomo, almeno fino a
sera. Calàpo gli si avvicinò e si offerse di fare da «musso». S'impegnava di
tirare la carrettella fin al villino. Intanto un alpino aveva chiamato la Checca sulla strada, dietro
a quello n'erano venuti degli altri, l'avevano presa in mezzo, rossa e ridente.
L'ostessa chiamò «ohe, Checa!». La
Checca rientrò, gli alpini la seguirono e uno di essi, udendo
l'amico Calàpo insistere nella sua offerta che don Aurelio esitava ad
accettare, gli gridò:
«Vusto? Te juto!» Anche i suoi compagni, per far chiasso, offersero il loro aiuto.
Si combinò che avrebbero tirata, tutti insieme, la carrettella fino a Velo,
dove si sarebbe cercato un asino sano. Calàpo entrò fra le stanghe della
carrettella, due alpini levarono Carnesecca di peso e ve lo adagiarono dentro.
Proposero, ad alte grida, di farvi salire anche la Checca, ma la Checca scappò da una parte
e Carnesecca fece l'atto di buttarsi giù, sdegnosamente, dall'altra. L'ostessa
accomodò le cose. «Del peso, tusi? ve servo!» Mandò Calàpo per due sacca di
grano da portare al mugnaio. Ma Carnesecca chiamò Calàpo a sè, gli domandò se
veramente si sentisse in grado di trascinare da solo la carrettella fino a
Velo. «Fino a Velo?» rispose Calàpo. «Fino a Piovene!»
Allora Carnesecca, al quale ripugnava l'accompagnamento chiassoso
degli alpini, si voltò ad essi e chinando il capo fra le mani spiegate come due
grandi appendici degli orecchi, ringraziò a destra, ringraziò a sinistra, fece
capire che non occorreva si disturbassero. Pareva un Papa in sedia gestatoria,
che benedicesse.
Gli alpini, malcontenti della Checca negativa e delle sacca
positive, si scostarono.
«Andiamo, Calàpo» fece Carnesecca, dolce dolce. «La benedico»
disse a don Aurelio «per la Sua
ospitalità.» E all'ostessa: «Vi benedico anche voi per questa carrettella, per
la sedia e... siamo misericordiosi... anche per il caffè». Ecco l'oste che
sbuca da una porticina laterale dell'osteria, vede e sbuffa: «Cosa l'è questa
commedia?». Carnesecca lo guarda, placido. «Vi benedico» dice «anche voi,
galantuomo, perchè avete una moglie cristiana e la moglie cristiana giova al
marito idolatra. Andiamo, Calàpo.»
L'oste rimase di stucco, Calàpo, gobbo sotto l'arco delle cinghie,
svoltò dal portone in strada, gli alpini gli tennero dietro motteggiandolo:
«Arri, Calàpo! Arri, Calàpo!». Don Aurelio, guardato un poco il bizzarro gruppo
che si allontanava verso Velo, riprese la via di Sant'Ubaldo.
II
Egli aveva nel
cuore, adesso, e nella mente, soltanto il colloquio avuto col signor Marcello,
dopo la messa, in sagrestia. Il signor Marcello gli aveva parlato come uno che
si crede vicino a morire, senza volerne spiegare il perchè, solo accennando ai
suoi settantadue anni. Qualche mutamento doveva essere avvenuto in lui. Lo
dicevano certa placidità, e certa dolcezza nuova della voce e degli occhi. E
gli aveva fatto un discorso tanto impensato! Il discorso del signor Marcello
era stato, in sostanza, questo. Inquieto circa l'avvenire della persona che
considerava come figlia propria, preso dal timore che non volesse accettare di
venir beneficata da lui per testamento, che ricadesse in balìa dell'uno o
dell'altro dei suoi genitori, aveva pensato, superando le renitenze del suo
cuore mortale coll'immaginarsi nell'eternità, che, se fosse possibile un
matrimonio della ragazza coll'amico del suo povero figliuolo, con Massimo
Alberti, almeno il più grave di quei pericoli, il secondo, verrebbe sicuramente
evitato. E sarebbe probabile che si evitasse in parte anche il primo; perchè
egli potrebbe, soddisfacendo in parte il desiderio di Lelia, legarle solamente
la villa. C'era da sperare che nè lei nè il marito volessero offendere la sua
memoria rifiutando il legato.
Non si poteva domandare a una ragazza di ventidue anni un lutto
eterno, una rinuncia irrevocabile al matrimonio. E bisognava farle intendere
che si prevedeva, che si accettava per lei un'altra sorte. Forse, almeno vivo
lui, Marcello, ella non avrebbe voluto far cosa che paresse quasi oltraggio
alla memoria del povero Andrea. Incoraggiata, fatta persuasa che il povero
Andrea non poteva disapprovare, dal cielo, questa unione, si sarebbe decisa. Il
signor Marcello lo credeva. L'incognita del problema era Massimo Alberti.
Il signor Marcello ne aveva udite molte lodi da don Aurelio, ma
non sapeva se avesse legami, se avesse affetti, se intendesse prendere moglie o
no. Per questo aveva aperto il cuore a don Aurelio, per questo gli chiedeva
aiuto: aiuto d'informazioni, aiuto di consigli, aiuto più diretto, se la cosa
fosse possibile, presso il giovane che lo amava tanto.
Il discorso aveva fatto salire fiamme di turbamento al viso del
curato. Massimo non aveva legami non confessabili. Di questo si teneva sicuro.
Neppure lo credeva innamorato, benchè non l'avrebbe potuto giurare. Lo
conosceva facile alle simpatie. Il giovine non gli aveva taciuto, scrivendogli,
i sentimenti fugaci che uno sguardo accendeva in lui e una conversazione
spegneva. Quali erano le sue disposizioni rispetto al matrimonio? Contrarietà
certamente no, ma volontà fermissima di non legarsi senz'amore, di non
lasciarsi suggerire la scelta da chicchessia. Un consiglio di questo genere lo
aveva distolto da certo matrimonio che, senza lo zelo del consigliere, forse si
sarebbe fatto. Ci voleva qui un'arte che don Aurelio, nuovo a siffatti negozii,
conosceva di non possedere. Sarebbe stato contento di averla, desiderava che
Massimo prendesse moglie, gli pareva capace di formarsi una famiglia ideale,
ma...
Disse al signor Marcello tutto ciò e gli tacque la spina che lo
pungeva di più. La signorina Lelia gli era un enigma, un astuccio chiuso, che
poteva contenere gioie buone oppure gioie false. Il signor Marcello insistette,
mostrando fretta, anche. Don Aurelio aveva imparato a venerare, nel breve tempo
da che lo conosceva, quel vecchio dall'anima calda, aperta, umile, tutta fede
candida e amore della Parola Divina. Non seppe rifiutargli la grazia che gli
domandava, promise di fare del suo meglio.
Fare, sì; ma cosa?,
pensava camminando lentamente sulla via bruciata di Sant'Ubaldo. Scoprire,
intanto, se Massimo avesse o no il cuore libero. Questo non era difficile. E
poi, se aveva il cuore libero, come avviarlo a quella parte senza aver l'aria
di una intenzione? E il tempo? Quando aveva parlato col signor Marcello non
sapeva di dover partire fra quindici giorni. Non vorrebbe partire anche
Massimo? Ed era impresa, quella, da condurre a fine in quindici giorni? Qui era
il caso di confidarsi a donna Fedele. Donna Fedele s'intendeva di queste cose,
poteva consigliarlo bene. E donna Fedele, benchè non frequentasse la Montanina, poteva sapere
della signorina Lelia più cose che non ne sapesse egli. Guardò l'orologio.
Dieci e mezzo. Aveva il tempo di andare al villino e di ritornare alla
Montanina per l'ora di colazione. Le occasioni di studiare da vicino la
signorina Lelia e di vedere i due giovani assieme erano adesso preziose.
Affrettò il passo e prese la strada che scende a Lago prima di toccare
Sant'Ubaldo. Attraversando il verde girone ombreggiato di meli e di noci, corso
da rivoletti, dove il monte, fra la costa di Lago e la costa della Montanina,
riposa, si cercò nella memoria le poche tracce lasciatevi dalla signorina
Lelia. L'aveva udita suonare il piano con molta espressione. L'aveva veduta
qualche volta scendere per la strada che da Sant'Ubaldo conduce alla Batteria,
recando fasci di fiori selvaggi. Parole ne ricordava ben poche e
insignificanti. Quando gli avveniva di celebrare a Santa Maria ad Montes, ella
c'era sempre, accanto al signor Marcello. Presente a una conversazione fra il
signor Marcello e lui circa la lettura abituale del Vangelo, non aveva mostrato
alcun interesse per l'argomento. Anzi, ora se ne sovvenne, glien'era rimasto il
dubbio che non avesse letto il Vangelo per intero. Non gli pareva brutta ma
neppure sufficientemente bella per conquistare Massimo d'un colpo. La sua
impressione dell'aspetto era che rivelasse molta intelligenza, un carattere
misto di schivo e di capriccioso.
Assorto in questo problema, sarebbe forse passato accanto a donna
Fedele senza vederla, s'ella non avesse esclamato: «Oh, don Aurelio!». Era
seduta colla ragazza di Lago sopra un grosso tronco atterrato, poco più su
della svolta che piega verso la
Montanina.
«E dunque?» diss'ella. «Lo ha trovato?»
All'udire che Carnesecca era in viaggio verso il villino delle
Rose, si alzò in piedi stupita, contenta che fosse così, desiderosa di
affrettare il ritorno al villino. Congedò, benchè mortalmente stanca, la
ragazza di Lago, per poter discorrere con don Aurelio del suo licenziamento,
delle forme, delle ragioni. C'era poco a dire e don Aurelio troncò anche le
congetture ch'ella proponeva, sia perchè gli stava sul cuore un altro discorso,
sia perchè temeva parole di lei troppo sdegnose contro i preti di Velo. E mise
subito in campo la sua necessità di conferire con lei circa un argomento assai
grave. «Più grave di questo?» chiese donna Fedele. Sì, più grave. Questo era
semplice e l'altro era complicatissimo. Avevano quasi raggiunta, discendendo,
la carrozzella da nolo che dal castagno candelabro era salita fino al cancello
della Montanina. Il curato si fermò, volendo parlare subito.
«Don Aurelio» disse la signora «se ha il coraggio di darmi il
braccio, mi fermo; altrimenti vado a sedere in carrozza.» Era pallida, pallida;
eppure i dolci grandi occhi sorridevano.
Poichè non erano ancora le undici, donna Fedele trovò che il
curato poteva venire al villino con lei e farsi ricondurre alla Montanina per
mezzogiorno. Anche se la presenza del vetturino impedisse loro di discorrere
durante il tragitto, potevano avere al villino un quarto d'ora di libertà.
Cinque minuti
prima di mezzogiorno, don Aurelio spingeva il cancello del portichetto che
fiancheggia Santa Maria ad Montes e mette nel giardino della Montanina. Quel
gran peso di prima gli si era alleggerito non poco. Donna Fedele aveva
accettato di aiutarlo con tale una commozione di buona volontà, ch'egli, ignaro
del profondo cuore di lei, ne fu alla sua volta commosso di riconoscenza, come
se quella buona volontà si fosse accesa solamente per lui.
III
Massimo discese da
Sant'Ubaldo col cuore amaro per don Aurelio, non dubitando, come Carnesecca,
che occasione del colpo fosse stata l'ospitalità concessa al propagandista
luterano. E si domandava con pena dove potesse il suo povero amico trovare
appoggio. Se il povero prete dovesse andarne randagio in cerca di un'altra
diocesi, non lo seguirebbero le calunnie dappertutto? Non troverebbe
dappertutto malvolere, o diffidenza, o timidezza?
Appena toccato il cancello della Montanina, un'ansia differente
gli salì dentro questa e lo soverchiò. Pensò all'incontro imminente colla
signorina, desiderandolo e temendolo. La scena, intorno alla villa bianca, di
verdi rive, di alberi lentamente mossi dal vento, di ruscelli mormoranti, di
rose arrampicate ai massi o pendenti, a ciuffi, sull'acqua corrente aveva per
lui un'anima segreta di pauroso incanto. Invece di movere diritto alla villa,
prese a sinistra, passò il drappello di pioppi, il ponte quasi affogato nelle
rose, andò lungo la
Riderella fino ai noci, dove un picciol salto dell'acqua
canta presso alle ombre. Poi si domandò con impazienza la qualità del suo
turbamento per una creatura non mai veduta. Non trovò risposta. Invece gli si
riaffacciarono le due fotografie colla domanda: quale delle due vedrò? L'idea
di vedere il viso marmoreo dagli occhi bassi gli fece paura. Si alzò dal sedile
e si avviò alla villa, cercando penetrarsi d'indifferenza. Non incontrò
nessuno; nè padroni, nè domestici. Vide da lontano, verso la scuderia, Teresina
che parlava con un signore. Seppe da lei più tardi che quel signore era il
medico del paese, il quale non aveva creduto opportuno di visitare il signor
Marcello fino a che non se ne trovasse un pretesto. Salì nella sua camera e,
guardato a lungo il ritratto di Andrea, cambiò riguardosamente, quasi con
rispetto, l'acqua del vaso alla rosa che pendeva più curva, più languida, tocca
nell'esterno dai primi lividori della morte. Rilesse le sue lettere al perduto
amico, ancora più avvizzite del fiore. Stava contemplando dalla finestra, senza
pensiero, la festa del sole, del vento, delle cose vive esortanti a vivere,
quando udì un camminar pesante nel corridoio, un lieve spingere dell'uscio. Era
il signor Marcello, che, vedendolo, mise un'esclamazione di scusa.
«Non sapevo che fosse rientrato» diss'egli.
Teneva in mano una rosa fresca, una magnifica rosa, bianca come
l'altra. Si guardarono, s'intesero cogli occhi, in silenzio. Massimo prese,
commosso, la rosa e il signor Marcello si ritirò.
Verso le undici e mezzo, mentre Massimo stava scrivendo lettere,
Giovanni venne a pregarlo di scendere, da parte del padrone.
«È nel salone colla signorina» diss'egli.
Massimo pensò subito: quale delle due vedrò? — e si avviò a
discendere per la scala di legno.
Lelia sedeva alla scrivania posta per isghembo fra la grande
vetrata e il camino a cappa, e voltando le spalle alla scala. Ella fremeva di
sentirsi tanto battere il cuore, non voleva confessare a se stessa la curiosità
ardente di vedere l'uomo che stava discendendo le scale, non avrebbe mosso il
capo a guardarlo nè allora nè poi se lo avesse potuto fare senza taccia di
pazza villania.
«Lelia» disse il signor Marcello, dolcemente.
Ella depose la penna, aperse il cassetto per posarvi qualche cosa,
vi frugò dentro, e, finalmente, si alzò, si voltò.
Il signor Marcello la presentò:
«Mia figlia.»
Ella salutò appena. Massimo fece un inchino mormorando qualche
cosa d'indistinto di cui s'intese solo «piacere».
Sì, piacere. Non era nè l'uno nè l'altro viso. Era il viso
compunto della fanciulla che accoglie, per la prima volta, un amico del suo
fidanzato morto. Era il viso di una persona che fu tutta per l'amore ed è tutta
per la morte. Massimo sarebbe stato severo alle irregolarità di quel viso se
l'espressione ne fosse apparsa diversa. Invece, non parendogli tale da
doversene guardare, lo trovò quasi bello. E trovò graziosa la persona, non alta
ma perfetta di forme nel semplice vestito cenere guernito di nero, basso di
accollatura. I capelli biondi gli parvero magnifici sulla testa piccola e il
collo d'avorio, elegante. Egli prese tosto un'aria più sciolta.
Invece Lelia parve farsi anche più rigida. Il signor Marcello si
avvide, a un impercettibile moto di lei, che stava per prendere il volo come un
bambino atteso al giuoco, cui brucia il pavimento. Volle trattenerla parlando
di lei.
«Si è sacrificata per la mia povera moglie e per me» disse egli.
Raggiunse l'effetto opposto. Lelia esclamò in tono di rimprovero: «Papà!» e
corse via, verso la sala da pranzo. Il signor Marcello la richiamò dolente:
«Lelia!»
Ella si fermò proprio sulla soglia della sala da pranzo si voltò e
stette, colle mani agli stipiti. Massimo trasalì. Era il viso temuto, la Sfinge marmorea dagli occhi
bassi. La visione non durò tre secondi. Lelia alzò gli occhi, sorrise di un
sorriso forzato.
«Devo andare, papà» diss'ella, «se vuole far colazione.»
«Allora...» fece il signor Marcello, più malcontento che
rassegnato.
Appena ella fu scomparsa, ne fece grandi elogi. Era buona,
intelligente, musicista nell'anima, abile nella direzione della casa, che
teneva lei. Massimo ascoltava e taceva. Mise, quando potè, il discorso sul
licenziamento di don Aurelio, del quale, naturalmente, il signor Marcello nulla
sapeva. Massimo non ne conosceva ancora i particolari ma il fatto era certo.
Il signor Marcello ne fu più sbigottito e dolente che irritato.
Ventiquattr'ore prima non sarebbe stato così. Di Carnesecca, Massimo non potè
riferire che la fuga. Era molto dubbio, secondo lui, che don Aurelio potesse
tenere l'invito a colazione. Parlò anche di donna Fedele, senza sapere quali
fossero le relazioni di lei colla Montanina. Il signor Marcello mostrò di
compiacersi molto che vi fosse fra loro un legame, v'insistette senza dirne il
perchè, senza lodi speciali delle persone e prese a raccontare come i Vayla di
Brea si fossero stabiliti ad Arsiero. Intanto sopraggiunse don Aurelio.
Egli entrò lieto. Alle domande ansiose di Massimo e del signor
Marcello rispose corto. Sì sì, era vero, doveva lasciare la curazia dentro quindici
giorni, sì. Ma non c'era da accusare nessuno. Ismaele era un povero uomo, un
visionario. Le sassate di Posina gli facevano vedere persecutori dappertutto. A
Lago sarebbe venuto un prete con famiglia: madre e sorella. Probabilmente si
trattava di procurargli un pane, poveretto; mentre egli, solo soletto
com'era... E si strinse nelle spalle come se per lui trovar pane fosse affare
da nulla. Si dilungò invece a raccontare l'odissea di Carnesecca, ch'era già
beatamente a letto in una bella cameretta del villino. Ossia, beatamente no,
perchè le trecentocinquantanove ossa gli avevano ripreso a dolere forte; ma
insomma...! Il domestico annunciò che la colazione era servita. Lelia aspettava
nella sala da pranzo.
I quattro
commensali sedettero alla tavola quadrata, uno per lato: Lelia in faccia alla
porta vetrata che mette in giardino e guarda le scogliere del Barco, Massimo
alla sua sinistra, in faccia alla finestra che si apre sulla imminente, scura,
profonda selva di castagni. Alla destra di Lelia era don Aurelio, che le
rivolse presto la parola, le disse di averla veduta spesso discendere per la
strada militare della Batteria, recando fiori. Le parlò dei molti rododendri
che macchiano le frane della Priaforà. Ella li conosceva pure e confessò di
prediligere quei luoghi selvaggi. Aveva una voce più grave meno dolce della
voce di donna fedele, morbida e calda, mossa, dentro i confini delle note
femminili, da una corda di violoncello, ricca di contenuto passionale in
potenza.
Alla domanda di don Aurelio se amasse le solitudini, rispose di
slancio che sì, molto. Soggiunse, per timore di un equivoco:
«La solitudine, Lei dice?»
«Dicevo "le solitudini" veramente.»
Ella si avvide, senza guardare da quella parte, di un movimento
delle labbra di Massimo. Si affrettò a riannodare il discorso con don Aurelio,
gli chiese se avesse veduto fioriti i rododendri della Priaforà. Eh no, non era
possibile, la signorina dimenticava che don Aurelio era venuto a Sant'Ubaldo
nell'ultimo ottobre.
«Li vedrà in luglio» diss'ella.
Don Aurelio sorrise.
«Sai» disse il signor Marcello malinconicamente, «don Aurelio ci
abbandona.»
«A dire il vero» osservò Massimo, «non è lui...»
«Ci abbandona?» interruppe Lelia più sorpresa che dolente.
«Lo cacciano via» disse Massimo con una punta di dispetto, volendo
imporsi all'affettata noncuranza della signorina. Ella gli lanciò uno sguardo
freddo come per dire: cosa c'entra Lei? E ripetè la domanda: «Ci abbandona?»
Ma, quando Alberti s'impuntava, non era facile, metterlo da parte
così.
«Eh sì, lo cacciano via!» ripetè alla sua volta, parlando
piuttosto allo stesso don Aurelio che a Lelia. «Lo caccia via l'arciprete! Lo
caccia via perchè si è tenuto il protestante in casa! Oppure lo caccia via
perchè lo crede modernista, non dica di no!»
A Massimo la umile mansuetudine di don Aurelio verso i suoi nemici
pareva qualche volta soverchia, riusciva irritante. Gli era parsa soverchia un
momento prima, quando l'amico aveva parlato del suo successore bisognoso di
pane per la famiglia. Bruciava di dirglielo in faccia, di fargli riconoscere
espressamente la verità. Durante la sua sfuriata, don Aurelio non fece che
protestare a monosillabi; poi espresse il vivo dolore che gli facevano quelle
violenze di linguaggio, quelle accuse non dimostrate.
«Eh capace!» si brontolava, a capo chino, il signor Marcello,
pensando all'arciprete. «Capace! Capace!»
«L'arciprete sa benissimo che non sono modernista!» esclamò
ancora, con un ultimo gesto di protesta, don Aurelio, cui l'arciprete aveva
fatto realmente, circa quel punto le più ampie dichiarazioni di stima.
«Euh!» fece il signor Marcello. «Lei, modernista!»
«Non lo è certo» disse Massimo. «È forse tutt'al più un modernista
come poteva esserlo Antonio Rosmini. — Lo dicono anche di me» soggiunse
candidamente.
Don Aurelio ebbe un sussulto di riso.
«Tu... tu... tu...!» esclamò con una reticenza eloquente.
Massimo sentì e, volti gli occhi, incontrò il lampo di uno sguardo
di Lelia, che gli passò il cuore come una saetta di fuoco, si spense. N'ebbe
annebbiata per un istante la vista e gli fu duro lo sforzo di rispondere
abbastanza prontamente a don Aurelio.
«Sì» rispose, «sarò più modernista di Lei, ma modernista non
sono.»
Non era stato uno sguardo della Sfinge marmorea, un lampo
rivelatore?
Il signor Marcello allungò la mano a prendere quella di lui, stesa
sulla tavola.
«Caro caro» diss'egli. «Tenga a mente le parole di un vecchio: non
vi ha che un solo modernismo buono ed è quello di Dante.»
«Via via!» fece don Aurelio, sorridendo. «Alberti è più moderno di
me, ma non è modernista. Che!»
«Dante, caro!» ricominciò il signor Marcello. «Tutta la credenza
cattolica, fino all'ultimo iota, con fede intensa, e tutto il Vangelo, a tutti
gli uomini, di qualunque colore portino l'abito, fino all'ultimo iota, con
parola franca! Dante, caro, Dante, Dante! - E adesso parlate di rododendri.»
Invece che di rododendri, Massimo parlò della camera lasciata
vuota, a Sant'Ubaldo, da Carnesecca, disse al signor Marcello che non aveva più
ragione di dargli incomodo. Il signor Marcello, sorpreso, quasi offeso di tali
cerimonie, protestò che non l'avrebbe lasciato partire. Il discorso di Massimo
parve dare ai nervi anche di don Aurelio, cui era più facile manifestare il suo
animo con un inquieto agitarsi di tutta la persona che con parole. Massimo
insisteva; egli pure, come don Aurelio, accompagnando parole rotte con moti
diversi della persona e del viso, con segni visibili di argomenti invisibili.
«Insomma» esclamò il suo amico, mezzo serio, mezzo ridente,
«stando in casa mia tu mi faresti più male di quell'altro ch'è scappato e non
ti voglio! Devi accontentare il signor Marcello.»
Massimo ebbe il senso, con una gran vampa nel petto, di qualche
cosa di grave che maturasse in quel momento, per lui. Gli si alzarono in mente,
con un debole moto, le parole «allora vado a Milano» e ricaddero. Tacque.
Lelia non aveva mai aperto bocca dopo incontrato lo sguardo che
diceva «prende interesse a me?». Non si perdonava lo sguardo proprio. Capiva il
dispiacere del signor Marcello; non capiva che don Aurelio non desiderasse il
suo amico a Sant'Ubaldo. Questo era un enigma, per lei. E si lavorava in cuore
un artificiale disprezzo per Massimo, che, volendo veramente partire, avrebbe
dovuto, invece di parlarne a colazione, scendere più tardi colle sue valigie
fatte e dire al signor Marcello: «Non c'è più ragione che lo stia qui, me ne
vado». Naturale, il signor Alberti preferiva una bella camera, una bella casa,
una buona tavola alla stamberga e alla cucina penitenziale del curato di Lago.
Anche modernista, era, dunque! Di modernismo Lelia sapeva meno che
niente. Le era antipatico il nome, antipatico il senso che gli attribuiva nella
sua ignoranza. Ella non aveva mai considerato il perchè del suo fedele seguire
automatico. Le pratiche religiose. Creatura d'istinti e di passioni piuttosto
che di ragionamento, non si sentiva legata per niente da quelle pratiche nei
moti della fantasia e delle idee. Concepiva il modernismo non come uno sforzo
di adattamento del cattolicismo tradizionale all'ambiente moderno ma come una
dottrina che agli obblighi religiosi antichi della tradizione cattolica ne
sostituisse di nuovi, più estesi, più indeterminati, più pesanti.
Qualche volta pregava di cuore, sempre nelle forme tradizionali e
non mai mentalmente, per obbietti immediati particolari e non per amore divino,
per elevazione dello spirito; ma con impeto sincero. Le piaceva di poter
pregare così. Si figurava, e le era odioso, che il modernismo fosse
inconciliabile colla preghiera tradizionale. Il solo carattere del modernismo
che potesse sedurla era quello di sorgere come una ribellione; ma lo giudicava
una ribellione a mezzo, un aborto di ribellione. E il signor Alberti era un
modernista! Ciò l'aiutava nei suoi propositi di disprezzo.
Le frutta erano state servite. Ella si alzò.
L'ostinato
silenzio di lei dopo lo sguardo di fuoco, che gli bruciava nel cuore sempre più
forte come una ferita nel raffreddarsi, si accordava nella mente di Massimo con
quello sguardo, continuava la rivelazione lenta, paurosa della Sfinge marmorea.
Nell'alzarsi cogli altri all'alzarsi di Lelia, il giovine ricordò certe parole
volgarucce di un amico, di cui si seccava ancora nella memoria: «Tu non hai
ancora preso cotte ma quando ne prenderai una, sarà fulminea e terribile».
Entrando nel salone dietro a lei, le vide sulla nuca bianca un lieve spruzzo di
minuti rossori. Gli fece bene di vederli; gli parve che almeno l'attrazione
fisica di quella strana creatura ne fosse un poco diminuita. E prese a
braccetto don Aurelio, si dolse affettuosamente che non lo volesse a Sant'Ubaldo.
Don Aurelio aveva trovato la scappatoia buona. «Mi comprometti, mi
comprometti!» diss'egli, ridendo di quel suo riso che gli faceva sobbalzare la
persona. «Non è vero, signorina?»
«Tanto» diss'ella, senza guardare nè l'uno nè l'altro, «oramai mi
pare lo stesso.»
E si dispose a servire il caffè. Don Aurelio era tardo a
raccogliere le scortesie e non raccolse neppure questa che feriva Massimo più
di lui. Mormorò umilmente: «Scherzo, scherzo» e soggiunse nella sua innocente
inesperienza di certi sottintesi:
«Povero Massimo, non può compromettere nessuno.»
Massimo rimase un po' male ma non fiatò. Lelia ebbe un lievissimo
sorriso che rivelò a don Aurelio il suo fallo.
«Ah! sì, bene, mio Dio, che sciocchezze!» diss'egli, rispondendo,
con un riso quasi di compassione, a parole non dette. «Io parlo semplice,
bisogna intendere!»
Il signor Marcello chiamò tutti al terrazzo per vedere un effetto
di nubi temporalesche. A settentrione il sole batteva le cime di Rotzo in Val
d'Astico, dorate nel limpido azzurro; e il ciglio dello stesso altipiano era
sfolgorato a levante da un continuo lampeggiar muto del cielo turchino. Lelia
corse al richiamo, avida, fingendo dimenticare che non aveva servito ancora il
caffè ad Alberti. Quando, un momento dopo, questi e don Aurelio uscirono pure
sul terrazzo, ella se ne ritrasse, scivolò nella sala da pranzo, fino alla
soglia dell'uscita in giardino. I temporali le mettevano nei nervi un tripudio
folle.
Allora voleva essere sola a goderne, a risponder loro come
un'altra piccola nube satura di elettrico. Se il vento avesse soffiato, sarebbe
corsa fuori ad ogni patto, come faceva qualche volta la notte sciogliendosi i
capelli. Poichè non si moveva foglia e udì il signor Marcello domandar di lei,
ritornò sul terrazzo.
«Il caffè, cara?» disse il vecchio. «Alberti e io non l'abbiamo
avuto.»
Ella si scusò. Nel servire Massimo non fu propriamente sgarbata;
però qualche cosa di poco gentile nel suo viso e nei suoi atti ci fu. Don
Aurelio, che mansuetamente ma finemente notava, pensò, nel suo ingegnoso
ottimismo, che la memoria del fidanzato non fosse più tanto viva nel cuore di
lei s'ella si mostrava tale verso il suo amico prediletto.
«Lei» disse ex abrupto il signor Marcello, rivolgendosi a
Massimo, «quel Benedetto di Subiaco, dove lo ha conosciuto?»
«A Jenne.»
«E com'era?»
«Senta; non dirò che l'ho adorato perchè la parola non mi piace,
dirò che l'ho amato come non ho amato nessuno al mondo, fuori di mia madre.»
Massimo non si attendeva una parola dalla Sfinge.
«Ma era proprio un Santo?» diss'ella.
«Scusi, signorina» rispose, «non ho affatto bisogno che le persone
cui voglio bene sieno sante.»
Ella insistette.
«Non è vero che faceva miracoli?»
«No, signorina; non faceva miracoli.»
«È vero che morì nelle braccia di una signora?»
Don Aurelio, stupefatto che una giovinetta si esprimesse così, non
potè reprimere una esclamazione di protesta.
«Lelia!» fece il signor Marcello, severamente.
Massimo esclamò, infiammato nel viso:
«È una calunnia vilissima! Non l'ho intesa mai!»
«Io l'ho letta» disse Lelia tranquillamente.
Don Aurelio intervenne.
«Senta, signorina. L'uomo di cui parla potè errare in cose di
dottrina, di questo non rispondo. Del resto sarebbe stato il primo a
riconoscerlo se la Chiesa
glielo avesse detto. Quanto a vita, dopo la sua conversione, è stato purissimo.
Di questo rispondo.»
Il signor Marcello, che seguiva la discussione con un moto
inquieto di tutti i muscoli, di tutte le rughe del viso parlante, la interruppe
con autorità. Allegò un suo desiderio di conferire con don Aurelio e propose a
Lelia una passeggiata in giardino con Alberti. Lelia lo guardò, attonita, e
guardò Massimo, come cercando appoggio:
«Fa tanto caldo!» diss'ella.
Il giovine osservò che poteva benissimo andar solo. Ma il signor
Marcello non accettò le scuse. Una flotta di grandi nuvole in corsa oscurava
rapidamente il verde intorno alla villa. Era più a temere la pioggia che il
caldo.
«Lei conosce bene la Montanina?» disse Lelia
uscendo dalla porta di mezzogiorno, che si affaccia al pendio verde, sparso di
abeti, di larici e di faggi, coronato, in alto, di castagni. «Lei ha visto la Meridiana, il beato
Alberto Magno, la testa di caprone che butta l'acqua della Riderella?» Aveva
l'aria di recitare una lezione noiosa recitata cento volte. Non parve
accorgersi, camminando davanti a Massimo, ch'egli non rispondeva. Si avviò per
il sentiero che sale a tergo della villa. «Conosce anche Fonte Modesta?»
diss'ella, passando presso il piccolo cavo e il mormorio sommesso della fonte.
E procedette senza curarsi del mutismo di Alberti, indicando, secca secca, ora
questo ora quello, come un cicerone indifferente.
Mentre stava dicendo «la sorgente della Riderella», Massimo, che
soltanto aspettava di essere abbastanza lontano da casa, la interruppe.
«Signorina» diss'egli, «non ho insistito col signor Marcello
perchè vedevo che gli avrei fatto dispiacere, ma ora Le dico ch'Ella non deve
disturbarsi per me. Se permette, vado solo.»
Lelia rispose gelida:
«Come vuole.»
E si fece da banda sullo stretto sentiero, aspettò ferma, cogli
occhi bassi, marmorea, ch'egli passasse.
«Grazie» disse il giovine e passò, senza guardarla, fremente. Cosa
si era messa in capo, questa signorina, per trattarlo così? Ch'egli volesse
farle la corte? Altro non era possibile supporre. Perchè anche le sciocche
domande su Benedetto erano state impertinenze volute. Farle la corte? Una bella
presunzione!
Però, quello sguardo di fuoco! Collo sguardo di fuoco, Massimo
ripensò anche la musica della notte. Cos'aveva nell'anima, la misteriosa
creatura? Le rigidezze, le noncuranze, le impertinenze tacite, le impertinenze
espresse, erano ostentazioni, a ben considerarle, incomprensibili. Perchè, come
poteva ella supporre in lui la intenzione di farle la corte? Che segno ne aveva
egli dato? Gli passò per la mente un sospetto. Don Aurelio si era fitto in
testa ch'egli dovesse prender moglie presto. Possibile che avesse pensato a
questa signorina? Che qualche cosa ne fosse trapelato a lei stessa? No,
impossibile, per cento ragioni. Non foss'altro, per l'amicizia che legava don
Aurelio al signor Marcello. E allora? Allora una sola cosa era chiara: la
voluta ostilità della fanciulla. Si poteva interpretarla come una difesa contro
l'amore nascente, se l'amore avesse avuto il tempo di nascere. Ma così?
Sostò a un sedile rustico sotto il castagno dove la costa gira. Le
grandi nubi veleggiavano al Torraro, le ombre degli alberi si movevano al vento
sulle rive fiorite, la villa bianca rideva laggiù nel sole, il fragore sordo
del torrente e delle turbine di Perale saliva nel silenzio del castagneto.
Massimo non godeva l'ombra, nè il vento fresco nè la bellezza gentile e grande
delle cose. La sentiva straniera al suo cuore amaro, si sentiva straniero ad
essa. Meditò che dovesse fare. Rimanere alla Montanina, no. O persuadere don
Aurelio a ospitarlo, o ritornare a Milano. Si rimescolò volontariamente nel
cuore tutte le amarezze, quelle posate al fondo, quasi fuori della memoria,
insieme alle ultime. Fermò il pensiero sul caso doloroso di don Aurelio.
Perchè, infine, non valeva proprio la pena di turbarsi per le impertinenze
della signorina Lelia. Ma don Aurelio! La tentazione antica ritornava scura,
violenta: non era da romperla una buona volta con questa gente che perseguitava
uomini come don Aurelio, sale della Terra? Subito sentì sopra di sè lo sguardo
severo dello stesso don Aurelio, del perseguitato mansueto ai suoi persecutori;
e quell'impeto di ribellione cadde. Lasciare però di combattere per la Chiesa contro i nemici di
lei, incrociare le braccia davanti al conflitto: questa non era una tentazione,
questo era un consiglio buono, da seguire. E che fare, allora, nel mondo?
Dimenticarlo, il mondo, farsi eleggere medico condotto, perchè no?, in un bel
paese perduto fra le montagne, comporsi un focolare di amore, non sarebbe la
felicità? Chiuse gli occhi, immaginò due braccia morbide che gli cingevano il
collo, due labbra che s'imprimevano sulle sue, due roventi labbra che gli si
affondavano nell'anima, le labbra di una giovinetta semplice, dallo spirito
gentile, punto Sfinge, ch'egli stesso formerebbe al senso delle cose belle e
dell'alto Divino, all'amore squisito. Riaperse gli occhi, sospirando, nel gran
verde. Le ombre mosse lentamente, in qua e in là, sull'erba fiorita, le voci
lievi del vento, il tremolio brillante dei pioppi nel prossimo valloncello non
gli erano stranieri come prima, lo blandivano di un assenso pio. Vide don
Aurelio uscire dalla villa, guardare in su, movere verso lui. Si alzò, gli
discese incontro. Don Aurelio parve sorpreso di vederlo solo.
«E la signorina?» diss'egli.
Massimo rispose che l'aveva pregata di non incomodarsi per lui. Si
affrettò a soggiungere, che, rimasto solo, aveva pensato ai casi propri. Era
risoluto di lasciare la
Montanina quella sera stessa. Sperava ancora nella camera del
protestante. Don Aurelio rispose, dolente ma fermo, di avere promesso proprio
allora al signor Marcello ch'egli resterebbe alla Montanina un paio di
settimane almeno, se non tutto il tempo di cui aveva prima disposto per Lago di
Velo. Massimo replicò che restare alla Montanina gli era del tutto impossibile.
Se don Aurelio non lo voleva ospite in quegli ultimi giorni del suo ministero
pastorale, sarebbe ritornato a Milano. Don Aurelio colse l'occasione propizia.
«C'è qualche interesse» diss'egli «per qualche persona che ti
richiama a Milano?»
Massimo negò vivacemente, sorridendo.
«No davvero? Me lo assicuri?»
«No, ecco!» rispose il giovine, porgendogli la mano.
Don Aurelio la strinse.
«Allora» diss'egli «non devi assolutamente dare un tal dispiacere
a questo povero vecchio!»
Poichè Massimo resisteva, intuì che qualche cosa di increscioso
doveva essere accaduto. Gli domandò se l'avessero offeso le domande della
signorina su Benedetto. No, la signorina non sapeva, aveva riferito calunnie di
un giornale. — Ma forse ne avevano riparlato dopo, in giardino? Neppure. — Don
Aurelio insistette tanto che Massimo, finalmente, confessò il vero. La
signorina non lo poteva soffrire e glielo aveva fatto intendere. Don Aurelio
non voleva credere, si fece raccontare le ostilità di Lelia, ben poca cosa a udirle
riferire. Ammise che certe cose si vedono poco e si sentono molto. Ottenne a
stento che il giovine differisse la sua partenza all'indomani. Poteva partire
l'indomani sera, se proprio si confermasse nelle sue impressioni. E gli
consigliò una immediata visita di congedo, per ogni evento, al villino delle
Rose. Gl'indicò il villino, la casina, rossa come una fragola, sull'orlo del
piano di Arsiero che guarda Seghe. Volle che si mettesse in cammino subito,
senza rientrare in casa, per esser sicuro di trovare la signora.
Quando lo ebbe perduto di vista, andò diritto dal signor Marcello,
ebbe con lui un lungo colloquio; dopo il quale si congedò per ritornarsene a
Sant'Ubaldo. Il signor Marcello fece venire Lelia. Le disse che il giovane
Alberti gli era molto caro ed ella ne intendeva bene il perchè. Desiderava si
trattenesse alla Montanina un po' a lungo; la pregava quindi a essergli assai
gentile. Parlò così con voce sommessa, con dolcezza grande, come chi vuole
infondere in una preghiera molta gravità di cose sottintese. Lelia lo ascoltò
in piedi, livida, immobile. Mormorò che non sapeva di essere stata poco
gentile. Il signor Marcello la guardò senza rispondere. Poi disse soltanto,
colla stessa dolcezza di prima:
«Ti prego.»
Ella rispose, appena udibilmente:
«Sì, papà.»
Salì a chiudersi nella sua camera e vi ebbe una violenta crisi di
lagrime.
IV
Massimo ritornò dal
villino delle Rose poco prima dell'ora di pranzo. Il signor Marcello gli andò
incontro, lo prese amorevolmente a braccetto, gli parlò con tenerezza della
propria consolazione di averlo alla Montanina. Si proponeva di mostrargli tante
vecchie preziose lettere, nelle quali era parlato di lui. Solo pochi giorni
prima non si sarebbe creduto in grado di farlo. Adesso si sentiva forte. C'era
forse qualche altra cagione di questo mutamento, ma la prima cagione n'era la
presenza sua. Massimo, turbato, commosso, non sapeva come riavviare il penoso
ma necessario discorso della partenza. Cercava, cercava, quando suonò la
campanella del pranzo. Non osò più parlare, rimise le parole difficili a più
tardi.
Lelia venne a pranzo in ritardo. Vestiva di nero e portava alla
cintura un mazzo di fiori della memoria. Pallidissima, non toccò, quasi, cibo.
Rivolse a Massimo, con visibile sforzo, qualche domanda intorno a ciò che aveva
veduto e fatto nella giornata, senza prestare attenzione alle risposte di lui.
Il signor Marcello le guardava spesso quel nero e quei fiori con un misto di
tenerezza e di rincrescimento. Parlò molto di donna Fedele, con ammirazione
affettuosa e riverente. Parlò della sua passata bellezza, della gioventù
sopravvivente nei grandi occhi bruni, nella voce dolcissima. Si dolse,
guardando Lelia, che non frequentasse la Montanina come in passato.
«Per verità» disse la fanciulla, «si dovrebbe andar noi da lei.»
Il signor Marcello, irradiato di piacere, di gratitudine, le prese
e strinse una mano, che rimase inerte nella sua.
La conversazione si voltò alla cacciata di don Aurelio. «Chi è
questo arciprete?» domandò Massimo. «Gesummaria!» esclamò il signor Marcello. E
si coperse gli occhi colle grandi mani ossute, significando un mondo di cose.
Più di «Gesummaria!» non disse nè Massimo domandò altro. Lelia teneva gli occhi
bassi, ma il viso non era di Sfinge; era piuttosto di persona che non approva e
si rattrista. Massimo ne fu punto a dire di don Aurelio come di un prete che
gli intransigenti non avevano ragione alcuna di perseguitare. Era un
rosminiano, non sospettato di modernismo neppure a Roma, quando vi dimorava.
Qualche domanda del signor Marcello condusse facilmente il giovine a discorrere
del suo soggiorno in Roma, di Subiaco e di Jenne, a raccontare l'origine delle
sue relazioni con don Aurelio, con don Clemente, con Benedetto, a dire i casi
di quest'ultimo, dalla notte in cui era scomparso dalla sua casa di Oria in
Valsolda e dal mondo per donarsi a Dio, fino alla sua morte in Roma, nella
casina del giardiniere di villa Mayda. Fece la storia delle sue ultime ore e
mise in chiaro la parte presavi da Jeanne Dessalle. Aveva cominciato a parlare
alle frutta. Quand'ebbe finito, imbruniva. Non si era pensato a prendere il
caffè nè a far accendere le lampade. Il signor Marcello e Lelia tacevano,
Giovanni entrò a chiedere se dovesse accendere. «No» disse Lelia, pronta,
sottovoce. Domandò a Massimo se avesse conosciuta la signora Dessalle. Egli
rispose che appunto l'aveva veduta quella sera, a casa Mayda.
Era bella? Non poteva dirlo. Gli era passata davanti un momento,
in un'anticamera. Non era notte ancora ma pioveva forte, nell'anticamera c'era
poca luce. La figura gli era parsa elegante. Lelia domandò ancora cosa fosse
avvenuto di lei. Nessuno ne sapeva niente. E Benedetto, dov'era sepolto?
Massimo esitò un momento.
«Per ora... a Campo Verano» diss'egli.
«Per ora?»
La stessa domanda stupefatta venne alle labbra di Lelia e del
signor Marcello. Massimo non rispose.
«E don Aurelio» chiese Lelia, «che farà? Dove andrà?»
«Non lo so.»
La sala era piena d'ombra. I tre si alzarono da tavola in
silenzio.
Giovanni,
avuto l'ordine di accendere nel salone, accese quella delle quattro grandi
lampade ad acetilene ch'è più vicina al camino. Il signor Marcello pregò Lelia
di mettersi al piano, di far udire all'ospite qualche cosa. In pari tempo suonò
perchè si accendesse la lampada più vicina al piano. Lelia lo trattenne, quasi
con impeto:
«No, papà, La prego.»
Preferiva quella mezza oscurità. Il signor Marcello non
insistette, andò, curvo, a sedere sul terrazzo, a guardare, verso ponente, le
tenebre punteggiate dai lumi brillanti di Arsiero.
«Che musica desidera?» disse Lelia. «Seria? Allegra?»
«Signorina» rispose Massimo, «non vorrei che Ella s'incomodasse
per me.»
Lelia pensò, ricordando il dialogo nel giardino: non sa dire
altro.
«Forse non ama la musica» diss'ella.
«Forse no.»
Rispondendo così, il giovine ebbe un lieve sorriso che la ferì
come un buffetto sulla guancia. Ella era in piedi, teneva la mano sopra una
catasta di musica. Non disse parola, aperse bruscamente il piano, suonò a
memoria un pezzo del Carnevale di Schumann.
Lo eseguì troppo nervosamente, senza dolcezza. Quand'ebbe finito,
non si mosse. Massimo ringraziò, asciutto. Quello sarebbe stato il momento di
avvicinarsi al signor Marcello, di ritornare sul discorso della partenza.
Esitò. Il contegno della signorina gli veniva prendendo un altro carattere. Il vestito
nero, i fiori della memoria lo avevano urtato come un avvertimento, fuor di
proposito, a lui; ma le domande rivoltegli durante il pranzo, l'interesse posto
ai suoi racconti, e ora quel modo di rispondere al suo «forse no», quell'avere
inteso il suo sentimento e la sua ironia, la scelta dell'autore e del pezzo
appassionato, la stessa nervosità dell'esecuzione, quella successiva
immobilità, gli davano l'idea di uno stato d'animo che non fosse nè ostilità nè
indifferenza. E non poteva a meno di trovare un po' strano anche il signor
Marcello, che li metteva insieme e poi si appartava così. Lelia passò un
momento, piano, la mano destra sugli acuti, gli domandò, con voce indifferente,
se desiderasse altra musica.
Gli venne in mente la melodia belliniana che aveva udito la notte.
«Vorrebbe farmi sentire: Sola furtiva al tempio?»
Lelia lo guardò.
«Norma?» diss'ella.
Cercò lo spunto colla mano destra, dopo le prime note ne toccò una
falsa, ne tentò altre, a caso, mormorò «non la so», tolse la mano dalla tastiera.
Massimo fu per dire «stanotte la sapeva». Intanto la fanciulla ritentò
distrattamente la prova. Le fallì una seconda volta.
Allora disse, quasi sottovoce, guardandosi nel palmo della mano:
«Non era un eretico, il Suo Benedetto?»
«No» rispose Massimo. «Può aver detto degli errori, ma è vissuto
nell'obbedienza della Chiesa e l'ha predicata sempre.»
«Vorrebbe spiegarmi allora perchè lo combattevano come un
eretico?»
L'accento della domanda fu ostile. Però Massimo rispose:
«Volentieri. Subito.»
«No no. Domani, dopodomani. Adesso suono per papà.»
Lelia chiuse con quattro accordi il dialogo rapido e sommesso,
attaccò uno studio di Heller. Massimo pensò che la signorina non desiderava le
sue spiegazioni, ma che, a ogni modo, era impossibile interromperla per dirle
che dopodomani sarebbe stato troppo tardi.
«Per papà, sa» disse Lelia, suonando. «A me non piace.»
Egli stette un poco ascoltandola e poi si alzò per andare dal
signor Marcello. Si fermò davanti al camino, dove la luce dell'acetilene
batteva in pieno sul fregio di margherite, corso dal ripetuto motto: «Forse che
sì, forse che no». Il motto rispondeva tanto alle sue incertezze ch'egli si
accostò al camino per vedere come finisse. Pensò: se è troncato e finisce col sì,
parto. Se non è troncato e finisce col no, resto. Aveva l'idea così,
pensando, che, ragionevolmente, dovesse finire col no. Il motto finiva:
Forse che...
Massimo restò lì a guardare, attonito. C'era un'altra via da
prendere. Le margherite si vengono, sul fregio, sfogliando. Quella dove il motto
muore troncato ha tuttavia qualche foglia. Si poteva sfogliarla idealmente,
vedere se l'ultima foglia fosse un sì o un no.
Una voce piana e soave sussurrò alle spalle di Massimo.
«Lei consulta l'oracolo?»
Il giovine si voltò. Donna Fedele gli sorrideva, col dito alla
bocca perchè lo studio di Heller non era finito. Ella era giunta mentre Lelia
stava suonando Schumann e aveva tenuto compagnia al signor Marcello fino a che,
visto Massimo in contemplazione davanti al camino, gli era venuta alle spalle.
«Sono qui per Lei» diss'ella, sorridendo sempre. Il piano tacque
ed ella si staccò dal camino per movere verso Lelia che si era alzata.
L'abbracciò affettuosamente come se il freddo di un'ombra non avesse mai tocca
l'amicizia sua per la fanciulla. La felicitò per la musica, ritornò, tenendola
a braccetto, verso il camino, mentre il signor Marcello, lasciata la sua
poltrona, si affacciava al salone.
«Sai» diss'ella a Lelia «che la madre del signor Alberti e io
siamo state amiche? Domani pranza da me, perchè ne dobbiamo parlar molto, di
sua madre. Era tanto cara, poveretta!»
Massimo, sorpreso, commosso, seppe dire solamente:
«Grazie, ma...»
«Pensa» continuò donna Fedele, come se non avesse udito il ma,
«che il signor Alberti oggi ha avuto la bontà di venire al villino e io, che
avevo tanto in mente, fino da ieri sera, d'invitarlo, non gli ho detto niente,
distratta come sono. Stasera sono venuta invece di scrivere, perchè, tanto, ho
dovuto andare ad Arsiero e avevo la carrozza. Adesso è tardi e vado.»
Abbracciò ancora Lelia, strinse la mano al signor Marcello, la
stese a Massimo dicendogli col suo sorriso dolcissimo e con un lieve piegar del
mento al seno:
«Alle sette.»
«Per un giorno» disse il signor Marcello, lietamente,
«concediamo.»
Donna Fedele uscì con Lelia che l'accompagnò fino alla carrozza,
rimasta fuori del cancello grande.
Massimo si acquietò
all'idea di rinunciare, almeno per l'indomani, alla partenza, persuadendosi che
n'era contento perchè ne sarebbe stato contento don Aurelio. Il signor Marcello
se lo fece sedere vicino sul terrazzo, gli posò una mano sulla spalla, ve
l'aggrappò.
«Caro Alberti» diss'egli, sospirando. Il giovine gli prese l'altra
mano con ambedue le proprie, rispose:
«Non dimentico, sa.»
La vecchia mano strinse, convulsa, le giovani. Seguì un lungo
silenzio. Non si udivano passi sulla ghiaia. Il signor Marcello guardò nel
salone. Non c'era nessuno.
«Le avrà parlato, vero» diss'egli a voce bassa, «della famiglia di
Lelia?»
Massimo, sulle prime non si raccapezzò, non intese a chi alludesse
il suo interlocutore. Poi, colpito, esclamò:
«Ah, sì, più volte.»
«E cosa Le diceva, proprio?»
«Diceva che Lei era contrario appunto per questo motivo, ma
ch'egli era sicuro della ragazza e che, dopo il matrimonio, avrebbe saputo
tener lontani i suoi genitori.»
«Li conosceva proprio bene, i genitori? Domando perchè, parlando
con me, pareva che non li conoscesse bene.»
«Sì sì, li conosceva bene. Mi diceva che il padre era corrotto,
copertamente, quanto la madre che ha una storia pubblica.»
Il signor Marcello stette ancora in ascolto e quindi parlò di
Lelia ch'era una smentita vivente alle teorie sull'eredità. Ne lodò la purezza
adamantina, il cuore ardente che la spingeva non di rado a follie di carità e
la faceva idolatrare dalle persone di servizio, malgrado qualche scatto brusco.
Ricordò il fatto di un bambino, orfano di madre, che un giorno ella si era
portato a casa per sottrarlo alle brutalità del padre ubbriacone, disposta a
prenderne cura ella stessa, benchè non sapesse, povera ragazza, da qual parte
cominciare. Ammise certe singolarità più apparenti che reali del suo carattere,
la scusò del linguaggio talvolta, per una fanciulla, crudo, ricordando le sue
passate esperienze tristi della vita, così precoci.
Ora, pensando all'avvenire, pensando a quei genitori, il suo
cruccio di lasciare Lelia senz'appoggi era grande. Sperava solo in Dio. Non gli
chiedeva più niente di terreno se non questo: un buon appoggio per lei che gli
era più cara di una figliuola.
«Lei vivrà lungamente» disse Massimo.
«Caro Alberti, Le pare una cosa da desiderarmi? E poi...»
Il vecchio s'interruppe.
«Scusi» fece Massimo, «e poi...?»
«E poi, caro, so qualche cosa che non dico.»
Passi sulla ghiaia, dal ponte della Riderella. Il signor Marcello
tacque. I sonagli di un uscio annunciarono Lelia ch'entrava nel salone dalla
veranda aperta. Ella uscì sui terrazzo, diede al signor Marcello il bacio della
buona notte salutò Massimo abbastanza gentilmente e si ritirò.
Erano passate le
dieci. Giovanni portò al signor Marcello il caffè e la lucernina accesa. Quando
l'uscio della sala del biliardo si fu chiuso dietro a lui, Massimo s'indugiò
sul terrazzo a contemplare le grandi ombre delle montagne, respirando il vento
freddo della notte e riflettendo ai discorsi alquanto stranamente confidenziali
del signor Marcello; il quale non aveva pensato, senza dubbio, che potevano
avere il senso più ripugnante al suo cuore di padre. Confessò in pari tempo a
se stesso che all'udire il passo di Lelia sulla ghiaia, qualche fibra aveva
vibrato dentro di lui e che il saluto gentile di congedo gli aveva dato
dispiacere e dolcezza. Meglio non pensarci tanto. Rientrò nel salone per andare
a letto.
Passando davanti al camino, alzò involontariamente gli occhi al
fregio di margherite, al misterioso Forse che. Non era più il caso
d'interrogare la margherite sulla partenza e la dimora. Fu tentato
d'interrogarle su altra cosa, non volle. Si allontanò dal camino, e invece di
salire le scale, andò, senz'averne coscienza, verso il piano. Accortosene, se
ne domandò il perchè, guardò il fascicolo di Heller aperto sul leggio, come se
fosse venuto là per quello. Ma sentiva e assorbiva l'aura di Lelia, di una
femminilità spirante dalle cose, come una fragranza sensibile allo spirito non
all'odorato. E vide sul sedile del piano un fiore della memoria, certamente
caduto dalla cintura della signorina. Si chinò per raccoglierlo, se ne
ritrasse, si allontanò, prese a salire la scala, resistendo alla tentazione
insistente di ridiscendere. Giovanni capitò, udendone i passi, nel salone, gli
domandò se potesse spegnere l'acetilene, spense. Massimo, lì per lì, ne fu
contento. Entrato nella sua camera, si disse che se avesse raccolto il
fiorellino della memoria, lo avrebbe posato presso la fotografia del suo povero
amico. E provò rincrescimento di non averlo raccolto.
Malgrado gli
scongiuri di Teresina, Lelia si era empita la camera, per la notte, di rose, di
fiori di madreselva e di acacia. Era una sua mania. Si faceva portare in camera
quanti fiori poteva, all'insaputa del signor Marcello, prediligendo gli odori
più acuti. Quella sera ne aveva un mare. Infisse più fasci di acacie fra la
spalliera del letto e la parete, un fascio di rose fra la parete e la immagine
sacra. La sua delizia, stando a letto, era di sentirsi cadere sui capelli, sul
viso, petali di fiori. Teresina la supplicò di tenere tutti aperti i tre fori
della finestra invece di uno, come soleva. Acconsentì. Appena uscita Teresina,
spense la luce, si coricò sul fianco ascoltando le fragranze come parole mute,
carezzevoli, di vite amorose, guardando per la finestra la nera lunata corona
del bosco, le Dolomiti aguzze nel cielo notturno; non pensando, non volendo
pensare.
|