NELLA TORRE DELL'ORGOGLIO
I
L'ingegnere
Luigi Alberti, zio di Massimo, discendente da un vecchio ceppo della media
borghesia milanese, abitava un quartierino al terzo piano, in via S. Spirito.
Modesto, ordinato all'antica, arredato di vecchi mobili, di vecchi quadri assai
buoni, ricco di vecchi libri, sfornito di comodità moderne, di acqua potabile,
di gaz, di luce elettrica, l'alloggio rendeva immagine del padrone. L'ingegnere
Alberti era veramente nella struttura monolitica del carattere, nella solidità
delle convinzioni religiose morali, nella ferrea coerenza delle azioni colle
idee, nei criteri del giudicare uomini e cose, nella fede alla tradizione, un
superstite di generazioni antiche. Egli stesso si qualificava nel modo milanese
che segue, coll'aria di appartarsi contento dal mondo moderno in un suo ideale
angolo solitario, spregiato e caro: — sont on andeghee — sono un antiquario, un
uomo del passato. Nella umiltà del cuore, nella noncuranza dei beni e dei
piaceri terreni, nella purezza verginale del costume, nella dissimulata
generosità, era un cristiano dei tempi evangelici. Parsimonioso per sè, era
largo al nipote Massimo, orfano e in cattive condizioni di fortuna. Gli voleva
bene piuttosto per un dovere di coscienza che per impulso del cuore. Il suo
cuore era tutto raccolto in un culto sacro, nella memoria della sua povera
moglie, morta da qualche anno senz'avergli dato figli, donna di esemplari virtù
cristiane, di vivace intelligenza, di modi soavi, che aveva fedelmente amato il
marito malgrado le sue scarse attrattive fisiche, le inettitudini alla vita
sociale, certe piccole stranezze incomode, le resistenze a quel ragionevole
spirito di modernità cui ella avrebbe volontieri aperta la casa e conformate le
abitudini del vivere. Non prese il nipote presso di sè per non dover modificare
il proprio antiquato regime di vita e quello dei suoi vecchi domestici, un
cuoco e una cameriera, che gli erano affezionatissimi. Gli assegnò invece tre
stanze al secondo piano della stessa sua casa, dove la moglie del cuoco gli
faceva il servizio. Nel trattare col nipote, l'ingegnere era sempre un po'
impacciato, non proprio cerimonioso, ma piuttosto gentile che cordiale. Il
padre e la madre di Massimo avevano sciupate le loro sostanze vivendo troppo
signorilmente; e delle abitudini signorili di Massimo lo zio pareva quasi aver
soggezione. Nell'offrirgli, come al parente più prossimo, il proprio benefico
appoggio, un quartiere, un assegno, la mensa quando gli piacesse, se n'era
quasi scusato come di un'offerta inferiore alla sua condizione. Avrebbe
trattato Massimo con più schietta familiarità se non avesse sentita una gran
distanza fra il nipote e sè, distanza sentita pure da Massimo, penosamente. Non
era soltanto distanza di abitudini; era sopra tutto distanza d'idee. In
politica l'ingegnere era un giudice appassionato dei partiti e degli individui
di tendenze opposte alle sue. Discorrendone nell'intimità andava facilmente, se
contraddetto, fuori dei gangheri, una irascibilità strana gli divampava così da
inceppargli, quasi la parola. Modernismo e riformismo religioso gli
dispiacevano più ancora che socialismo e radicalismo. Non era però clericale.
Lettore assiduo della Perseveranza, votava secondo le indicazioni della Perseveranza,
era sempre andato alle urne politiche anche quando l'Autorità ecclesiastica non
lo permetteva. Voleva i preti in chiesa e in sagrestia, non nella vita
pubblica, non nella stampa politica. Ma in chiesa e in sagrestia ne riveriva
l'autorità con soggezione intera. Perciò quando udì parlare di Massimo come di
un discepolo di Benedetto e di Benedetto come di un eretico e di un ribelle se
ne turbò molto. Interrogò qualche prete per averne notizie certe, non osando
aprirsi direttamente al nipote. Ora trovò chi gli disse che suo nipote si avviava
purtroppo per la stessa strada dei ribelli all'Autorità, di coloro che non
ammettevano i dogmi fondamentali del Cattolicismo, i Sacramenti, l'autorità del
Pontefice; ora trovò chi credette di poterlo rassicurare circa tutti questi
punti. Rifuggì sempre dal parlarne a Massimo per paura di esserne tirato a
discutere, ciò che nella sua candida fede, avida di affermazione, non avrebbe
voluto far mai. Una sola volta gli toccò, per lettera, di questi suoi timori.
La risposta del giovine, molto serena, schiettamente ortodossa, lo rassicurò,
ma solo per qualche tempo. Gli dispiaceva pure che Massimo non pensasse sul
serio a trar profitto de' suoi studi di medicina. Udiva parlare di altri studi,
religiosi e letterari, di conferenze sulla scienza e la Fede, sul socialismo
cristiano. «Bellissim rob» aveva detto a un tale che gli vantava l'operosità di
Massimo, «bellissim rob che conclüden nient.» Neppure intorno a ciò si apriva
con Massimo. Lo stimava inutile, si rassegnava a non comprendere questo
esemplare della nuova generazione e a non esserne compreso. Ragione voleva che
Massimo fosse il suo erede ed egli intendeva disporre dei propri averi secondo
ragione, ma poi il suo ritornello mentale era: «Troverà quel che troverà».
Dopo la morte della moglie l'ingegnere non teneva nessun conto del
denaro. Viveva con una piccola parte delle sue rendite discrete. Il resto era,
misuratamente per Massimo, senza misura per quanti bisognosi facessero appello
alla sua carità, per Istituti pii e persino per il piccolo Comune dove aveva
villeggiato con sua moglie durante lunghi anni.
Un mese prima del suo viaggio a Velo d'Astico, Massimo tenne due
conferenze all'Università Popolare sui Riformatori italiani del Secolo
sedicesimo. Vi sostenne la tesi che se quegli uomini, alcuni dei quali esaltò
per l'ingegno e la virtù, non si fossero ribellati all'autorità della Chiesa,
le loro idee avrebbero fatto maggior cammino, con vantaggio della Chiesa
stessa. L'ingegnere ne fu scandolezzato al pari di quasi tutti i conservatori
milanesi, che si accordarono con radicali e socialisti nel gridare la croce
addosso al conferenziere. Per i primi egli era un eretico ipocrita, per i
secondi un debole, quasi un vigliacco, per tutti un sognatore. L'ingegnere si
sfogò con qualche amico, fra gli altri con un prete, certo don Santino
Ceresola, generoso uomo, infervorato nelle opere di carità, che appunto allora
ne pensava una molto bella ma superiore anche molto alle sue forze. Egli aveva
già ottenuto dall'ingegnere somme rilevanti per altri scopi e adesso non potè a
meno di pensare che, se avvenisse una rottura fra zio e nipote, ne potrebbe
approfittare il suo futuro Pensionato di studenti delle scuole medie. Quando
aveva in mente una Istituzione di carità da fondare, o almeno da soccorrere,
un'idea buona qualsiasi da porre in atto, se ne invasava e gli pareva che tutti
avessero a diventarne egualmente invasati, a profondergli denaro in proporzione
delle loro sostanze. E nella sua testa le proporzioni ingrossavano facilmente.
L'ottimo uomo non pensava che a quello, non parlava che di quello, riusciva a
infastidire mezzo mondo, a far prendere in uggia lui, le sue opere, il Bene
sociale, morale, intellettuale, ogni altra sorta di Beni seccatori; e anche
però a prosciugare le tasche, con soddisfazione vicendevole, di qualche rara
persona pia, candida, denarosa, come, del resto, si era da un pezzo prosciugate
le proprie. Cipigli di parenti che si tenevano defraudati da lui del proprio,
ne incontrava molti. Qualche figliuolo lo aveva messo, di nascosto dal padre e
dalla madre, alla porta. Ma questi non erano dolori per lui che, toccatone uno,
se ne andava felice del suo minuscolo martirio, pieno di cielo nel cuore,
giustificando il nomignolo di «Beata Ciapasü» procacciatogli dal suo viso di
vecchia monaca, dalla sua voce sottile, dalla eguale beatitudine colla quale si
prendeva quattrini e strapazzate. Egli aveva parlato più volte all'ingegnere
del Pensionato, e l'ingegnere, cuor generoso ma testa quadra, aveva sempre
cercato di persuaderlo che sognava, che neppure sarebbe riuscito a trovare i
quattrini per l'area. Partito Massimo per Velo d'Astico, egli capitò un giorno
tutto gongolante in via S. Spirito colla notizia che una vecchia dama gli aveva
regalato duemila metri di terreno a Porta Vittoria; e siccome l'ingegnere
meravigliato, esclamò «ovèj!», egli rispose tacitamente, nei proprio interno,
con un altro «ovèj!» di rideste speranze e decise di porre l'ennesimo assedio
al forzierino che tante volte gli aveva aperto gli sportelli. Cominciò a
pregare l'ingegnere di allestirgli un progetto, un progettino, uno schizzo, per
ora, con un preventivo sommario, due righette, un numerino. L'ingegnere capì
benissimo dove si andava a finire con tanti diminutivi. Si schermì, sulle
prime. «Ben, ch'El senta!» proruppe finalmente alle insistenze dell'altro «il
progetto, come posso, mi ghel foo, ma denari...!» E rise di un riso eloquente. La Beata protestò — oh dess oh
dess! — che a domandargli denari non aveva mai pensato. Ma intanto l'uncino
prese e le visite di don Ceresola spesseggiarono. L'ingegnere dovette recarsi
più volte con lui a Porta Vittoria. Una volta il prete non lo trovò in casa e
si trattenne colla cameriera, la
Bigin, sua penitente, candida a sessant'anni come lo era
stata a dodici. Don Santino la mise a parte dei suoi disegni con grandi
raccomandazioni di segretezza, le insegnò come dovesse fare per dargli aiuto,
quasi quasi le prometteva il Paradiso se riuscisse a far mettere il Pensionato
nel testamento del padrone. Toccò il tasto delle relazioni fra zio e nipote,
seppe che una volta lo zio aveva detto scioperata la vita del nipote. La Bigin non potè promettere
molto perchè il padrone «dininguarda a parlagh di soeu rob! El dà minga
confidenza». Ma insomma, se si presentasse l'occasione... L'occasione non si
presentò anche perchè la buona creatura non avrebbe capito in cent'anni a cosa
servisse il Pensionato, del quale credette da principio che fosse un impiegato
in pensione, caduto nella miseria. «Minga minga minga!» fece don Santino, senza
ridere. E lei: «Ah no ah no ah no?». Dopo di che si accontentò di stamparsi
bene in testa queste cinque parole: — il Pensionato di don Santino — e di
ripetere al padrone, a proposito e a sproposito, che a don Santino, lei, se
fosse stata ricca, avrebbe dato persino la camicia; cosa che, a dir vero,
avrebbe potuto fare anche essendo povera e non fece.
II
Massimo, partito da
Arsiero alle sei della sera, arrivò a Milano dopo le sei della mattina. A San
Spirito non lo aspettavano. L'ingegnere, lievemente indisposto da due giorni,
riposava ancora. Il cuoco e sua moglie fecero al padroncino accoglienze
insolitamente festose. Sarebbe stato ben difficile intenderne il perchè
recondito. I coniugi avevano presto subodorato la ragione delle visite
frequenti di don Santino: qualche diavoleria da cavar gran danari al padrone.
«Vedaret» aveva detto la moglie del cuoco, la Peppina, al suo Togn:
«quell lì el va adree, el va adree, fina ch'el ghe mangia foeura tusscoss». E
allora veniva in campo la morale: il padrone muore pelato dal prete, le pensioncine
della servitù se ne vanno in Emmaus, Togn e Peppina d'accordo non rifinivano di
dare alla Bigia della stupida perchè magnificava la santità del suo confessore
e non si accorgeva che il confessore l'avrebbe messa sul lastrico. La buona
donna rispondeva tutta scandolezzata: «Gavii minga vergogna de pensà a quii rob
lì? Gavii minga vergogna?»
I due fecero dunque accoglienze insolite a Massimo che
consideravano come un socio del pericolo e nell'intervento del quale ponevano,
perciò, la loro maggiore speranza. Pensarono subito a metterlo sull'avviso. Non
credettero però conveniente di farlo a bruciapelo e prima di aver meditato bene
il modo di entrar in discorso. La
Peppina, più avida, più biliosa, più inquieta, avrebbe voluto
parlare quella mattina stessa. Mentre ne discuteva con suo marito, Massimo uscì
di casa per andare verso Porta Magenta, dove, a due passi dal Monastero
Maggiore, dimorava l'amico di don Aurelio.
Camminava adagio, pensando Velo, il silenzio dei castagneti e dei
prati, il rumore profondo del Posina, pensando Lelia e non volendo pensarla,
sentendosi stringere l'anima fra le facce volgari delle case di destra e di
sinistra come da una rigida morsa, soffrendo anche di mescolarsi alla gente.
Nel suo desiderio di don Aurelio erano pure i ricordi della quiete di Lago,
della piccola chiesa, della umile canonica. Le pietre dei sentieri solitari di
Velo gli erano parse avere senso dell'anima sua. Nelle pietre delle vie di
Milano sentiva uno spirito di ripulsione, lo spirito della lunga lettera ricevuta
alla Montanina poco prima di partire, letta, riletta dieci volte, in viaggio,
coll'amara crudele compiacenza di farsi male a sangue, di tentarsi e ritentarsi
la ferita. Gliel'aveva scritta un amico del quale Massimo dubitava che
oscillasse un poco, segretamente, nelle opinioni e nei sentimenti professati a
voce, che piegasse un poco a ogni assalto di avversari, che si compiacesse un
poco di esagerarsi, con lui, il dovere della schiettezza per riferirgli
spiacevoli giudizi sul conto suo, di fronte ai quali l'amico stesso, in fondo,
aveva tentennato. La lettera era una minuta relazione di atti e di parole
ostili a Massimo, che l'informatore aveva raccolto nel campo dei clericali
intransigenti, in quello dei modernisti, nella società elegante e scettica. La Società di S.
Vincenzo de' Paoli aveva deliberato di espellere il socio che per poco non si
era fatto apologista degli eretici italiani del secolo sedicesimo. Era stato
proibito ai librai cattolici di vendere le conferenze. In una casa clericale si
era asserito che Alberti era a Velo d'Astico per preparare, insieme a don
Aurelio, la pubblicazione di un periodico modernista. Un frate aveva alluso dal
pergamo, poco velatamente, al Discorso sugli eretici come a una opera di
sottile arte diabolica, più pericolosa dei libri apertamente blasfematorii e
delle pubblicazioni oscene. Un giornale clericale aveva commiserato l'autore,
chiamandolo infelice. Si erano anche fatte correre, sempre nel campo clericale,
voci poco edificanti sulle sue relazioni con certa signora. Questa fu la sola
parte della lettera che divertisse Massimo, perchè quella povera signora, una
bravissima donna, era proprio la negazione della bellezza, della grazia,
dell'amabilità. Nel campo modernista si disprezzava Massimo come un povero untorello,
un fiacco, un timido, uno che non sapeva sciogliersi dalle pastoie della
tradizione nè far fronte alla tirannia esercitata sulle coscienze, un giovine
vecchio, rimasto indietro di vent'anni, non proprio un clericale ma poco
diverso da un clericale; e ne ridevano.
La società elegante, scettica, era male disposta verso di lui. Le
donne, salvo poche eccezioni, gli erano ancora più contrarie che gli uomini.
Gli uomini lo giudicavano un indeciso, una mediocrità da mezzi termini. Le
donne, anche talune di quelle che andavano a messa, avrebbero voluto che in
tutto esaltasse i ribelli o in tutto li condannasse. Lo accusavano di
farisaismo e di viltà. L'amico scriveva di essersi trovato solo a difenderlo,
una sera, in certa casa patrizia, contro la Dea Maggiore e la Dea Minore del luogo,
madre e figlia, accanite, invelenite sue accusatrici. Scriveva di averlo difeso
ma non era chiaro se il difensore fosse ben convinto delle proprie tesi, o no.
Pareva piuttosto che lo fosse a mezzo, pareva che ostentasse troppo il suo
zelo, che volesse troppo evidentemente farsene un merito.
Niente di tutto ciò poteva riuscire nuovo a Massimo che appunto
aveva lasciato Milano durante la tempesta; ma poichè gli pareva di esserne
stato lontano un secolo, non si aspettava davvero di ritrovarvela tanto grossa.
Al posto suo, don Aurelio avrebbe mansuetamente pregato per i maligni
offensori, si sarebbe consolato colle parole dell'Imitazione: «Quid sunt verba
nisi verba?». Massimo, che non era un tal santo, discese invece, a ristoro, in una
sua interna onda saliente di orgoglio, si consolò erigendosi nel segreto del
cuore, con tacito disprezzo, su tutte le plebi, sulla plebe clericale fanatica,
sulla plebe modernista presuntuosa, malsicura di quel che pensa, di quel che
vuole, sulla plebe dei salotti aristocratici, delle donnine inverniciate di
cultura o anche gregge, che si arrogavano di sentenziare per dritto e per
traverso, senza intelletto, abituatevi dalla cortesia servile degli uomini. Se
mai negli ultimi tempi aveva dubitato della propria fede, se mai era stato
tentato di appartarsi da qualunque lotta religiosa, adesso, a fronte di tante
facce ostili o ironiche o commiseranti, arse di mostrarsi loro sdegnosamente
fermo sulla propria via.
Non trovò don Aurelio presso il suo amico prete. Erano usciti
ambedue. La fantesca credeva che fossero andati dall'Arcivescovo. Potevano
forse ritornare da un momento all'altro. Infatti Massimo li incontrò sulla
scala, discendendo. Don Aurelio, sulle prime, non lo ravvisò. A Milano? Come
mai? L'altro prete, vedendo Massimo, si oscurò in viso. Era un ottimo uomo,
rigidissimo in fatto di dottrina ma non portato a pensar male, a fiutare eresie
ed eretici dappertutto, pieno di carità, giusto, incapace di spionaggi e
d'ipocrisie. Proteggeva don Aurelio perchè ne conosceva le opinioni rosminiane,
avverse all'agnosticismo, il costume e la pietà esemplari. Di Massimo non
pensava così. Ne aveva disapprovato il discorso, prestava fede, non
conoscendolo che di saluto, a certe calunnie di origine farisaica.
Massimo comprese e invece di trattenersi con don Aurelio lo pregò
a voler passare da lui verso mezzogiorno. Malgrado l'ora mattutina, erano
appena le dieci, pensò di recarsi appunto da quella signora il cui nome era
stato malignamente accoppiato al suo. Ella gli aveva mandato, giorni prima, un
biglietto a San Spirito colla preghiera di passare da lei, a qualunque ora,
appena ritornasse a Milano. Massimo vi andò per cortesia ma non volentieri,
malgrado l'affinità d'idee politico-religiose che lo aveva legato un tempo a
quella signora in una comune azione di propaganda. La buona signora, che aveva
un marito molto accorato delle sue inquietudini idealistiche e quattro grossi
figliuoli, uno più maleducato e sudicione dell'altro, lo accolse con una
esplosione spaventevole di angoscie affettuose. Ma finalmente! Ma finalmente!
Ma, caro Alberti, caro Alberti! Cosa ha fatto? Dove si è cacciato? Perchè è
fuggito? Perchè è stato fuori tutto questo tempo? Cosa Le è venuto in mente? Ma
non sa come le cose sono andate peggiorando qui? Non sa che sono tutti contro
di Lei? Se fosse stato qui, avrebbe potuto difendersi, persuadere, e Lei si
eclissa, non se ne sa più niente! Qualcuno ha persino detto ch'Ella era entrato
in un convento come il Suo maestro. Chi diceva a Subiaco, chi diceva a Praglia.
E non sa questo? E non sa quello? Qui la signora, che professava in teoria un
disprezzo mistico del mondo e in pratica si prendeva una scalmana per ogni
chiacchiera un po' salata che le riferissero, raccontò a Massimo le stesse
cose, su per giù, che gli aveva riferite l'amico. Quando venne alla più
delicata si coperse a due mani il viso quadragenario ed esclamò, fra gemebonda
e ridente: «Oh Dio Dio, Alberti Alberti, ma non sa ch'Ella non dovrebbe venire
da me, che forse faccio male a riceverla? Non sa cos'hanno avuto il coraggio di
dire?».
La signora aveva una cameriera molto bella. Massimo era tanto
seccato da quel torrente di ciarle rotto in mille sprazzi, sentì così acuto il
ridicolo della situazione, che gli scappò detto: «Cosa? Forse che vengo per la Sua cameriera?»
La signora rimase un momento interdetta, ma era troppo buona e
semplice per offendersi, fu anzi contenta dell'equivoco, non suppose Alberti
capace di malignità. Solamente dopo la sua partenza, riflettendo sull'equivoco,
si domandò come mai egli avesse notato la gioventù e le grazie della cameriera,
si disse nel segreto del suo cuore candido: «Guarda on poo!». Allora troncò il
discorso con un frettoloso «Basta basta basta, meglio non parlarne!». E mise in
campo la proposta che le stava a cuore: una terza conferenza. Bisognava tenere
assolutamente una terza conferenza, per spiegare la prima e la seconda,
correggere certe impressioni, sopra tutto quella di un ossequio esagerato
all'Autorità.
Ella ne aveva conferito con alcune amiche. Era in grado di
proporgli un tema bellissimo e opportunissimo: — Da Döllinger a Loisy. — «Cara
amica» rispose Massimo, «se riprendo la penna, non sarà per scrivere delle
conferenze, sarà per farne una striglia. Ma non credo che la riprenderò.»
Ritornato a casa verso mezzogiorno, trovò un telegramma di donna
Fedele coll'annuncio della morte del signor Marcello. Ne rimase esterrefatto,
desolato. Non avrebbe creduto di volergli tanto bene! Andò a salutare lo zio
col telegramma in mano e la faccia stravolta. Di solito i loro incontri erano
penosamente silenziosi e tanto lo zio quanto il nipote, ma il nipote assai più,
si torturavano il cervello per cercare temi di conversazione che permettessero
loro di rompere il silenzio senza contatti sgradevoli d'idee e di giudizi. Il
funebre telegramma diede loro argomento di discorrere e fu, in quel primo
incontro, un sollievo, perchè l'uno e l'altro avrebbero avuto la mente
imbarazzata di troppi temi da non toccare. Il telegramma ne prometteva un altro
col giorno e l'ora del funerale. L'ingegnere domandò: «Vai?».
Massimo esitò un momento. Il sì gli salì fino alla gola. Rispose
«no» risolutamente, per legarsi, togliersi al pericolo di qualche possibile
debolezza. L'ingegnere non parlò ma gli si vide in faccia che quel «no» gli era
parso strano. «Vorrai mandare un telegramma» diss'egli, e offerse di farlo
spedire dal cuoco, dopo colazione. Massimo rispose che non occorreva. Ci
avrebbe pensato egli. Fece colazione collo zio e salì nel suo quartiere, pieno
il cuore di Lelia in lagrime, sola nella villa ottenebrata dalla Morte. Prese
la penna per preparare il telegramma. Ancora lo strinse alla gola il desiderio
di andare, di vederla. Gittò la penna, dicendo forte, rabbiosamente:
«Dio, come son vile!»
E si guardò intorno, atterrito che qualcuno avesse potuto udirlo.
Riprese la penna, pensò. Cercò parole diverse dalle solite, parole espressive
dei suoi particolari sentimenti verso il morto e verso la viva. Non venivano.
Gli parve che sarebbe stato più opportuno un telegramma incolore. E se, invece
di un telegramma, spedisse una lettera? Decise di telegrafare a donna Fedele e
di scrivere alla signorina. Scrisse queste poche parole, rapidamente:
Signorina,
Ella piange, immagino, un uomo che La beneficò paternamente. Io lo
piango più ancora di Lei per il beneficio che n'ebbi, superiore a qualsiasi
altro: per un alto, spirituale, inestimabile beneficio di affetto e di stima.
Sia benedetta, come la memoria del figlio, la memoria del padre.
Dev.mo
Massimo Alberti
Entrò la Peppina
e annunciò don Aurelio. La triste notizia datagli da Massimo lo addolorò, non
lo sorprese. Prevedeva; solo non avrebbe creduto così presto. Povero signor
Marcello! Dopo essersi confessato da lui l'ultima volta, gli aveva parlato
della signorina Lelia, del suo dolore di lasciarla, probabilmente presto, sola,
senz'appoggio, esposta a ricadere in mano di suo padre, a finire Dio sa come.
Don Aurelio non andò più oltre, interrogò Massimo collo sguardo. «Cosa è
successo?» dicevano quegli occhi inquieti, presaghi di una risposta non lieta.
Massimo non aspettò parole, rispose:
«Mi vede qui.» Don Aurelio tacque, addolorato. Poi gli domandò
sottovoce se non andasse al funerale. «No» rispose il giovine. «Scrivo. Anzi ho
scritto. Vuol leggere?» E gli porse la lettera. Don Aurelio lesse, durò a
guardare lo scritto dopo averlo letto.
«Va bene» disse finalmente, «ma capisco che tu abbia scritto affetto,
non capisco che abbia scritto anche stima.
«E la parola che ci vuole»
rispose Massimo. «Lo creda pure»
Don Aurelio gli restituì,
sospirando, la lettera, non chiese spiegazioni che sarebbero state, lo
indovinava, penose. E raccontò la visita fatta all'Arcivescovo cui aveva recato
una lettera di presentazione del Vescovo di Vicenza. Sua Eminenza lo aveva
accolto con molta bontà, gli aveva promesso di accettarlo nella sua diocesi.
Certo un po' di tempo, per metterlo a posto, ci voleva. Intanto, perchè potesse
guadagnarsi un pane, gli si potevano cercare delle ripetizioni. Si avvicinava
l'autunno, c'erano gli esami di ottobre, il momento era buono. Gli consigliò
finalmente di vivere a sè, con grande prudenza. Disse questo paternamente e
paternamente anche sorrise dei preti di Velo d'Astico. — Me li immagino; buona
gente, brava gente, ma che vede eretici dappertutto. Conosco un prete ch'è
venuto a denunciarmi come eretico un collega che abborre tanto il vino da
condire l'insalata col limone invece che coll'aceto. — Don Aurelio era molto
contento. E i suoi libri? Cosa ne succederebbe, ora? Massimo lo rassicurò.
Donna Fedele avrebbe pensato a tutto. Egli era curioso di sapere cos'avesse
detto di lui l'amico di don Aurelio quando si erano incontrati sulla scala.
«Ho visto» diss'egli «la faccia che ha fatto!»
Don Aurelio sorrise.
«Mi ha detto molto male di te, ma in buona fede, pover uomo, per
averlo inteso dire. Mi ha detto che sei teosofo, che non credi nella divinità
di Cristo, che non credi nella Risurrezione, che non credi nella Presenza reale
e via di questo passo. Insomma ho avuto molto da fare a persuaderlo che
s'ingannava. Quando si è persuaso, ne è stato molto felice, però mi ha
consigliato di vederti poco.»
«Ci scriveremo» disse Massimo. «Del resto io non desidero certo di
rimanere a Milano lungamente.»
Informò l'amico dei fastidi e degli sdegni che gli rendevano grave
il soggiorno di Milano. Poi gli si aperse circa certe preoccupazioni di
carattere diverso che gl'impedivano di ripartire al più presto. Di proprio non
possedeva che un capitale di quarantamila lire, investito in un mutuo
ipotecario di prossima affrancazione. Dallo zio aveva l'alloggio e il servizio,
la mensa quando gli piacesse, e un assegno di duecento lire il mese. Le
milleseicento lire che gli fruttava quel capitale erano la piccola rocca della
sua indipendenza. Malgrado l'affetto che sentiva per lo zio, la venerazione che
gl'ispiravano le grandi virtù di lui, temeva sempre che dal profondo disaccordo
latente delle loro idee, delle loro tendenze intellettuali, potesse venire una
crisi nella quale gli riuscisse grave il giovarsi ancora della sua generosità.
Perciò, inclinando poco all'esercizio della medicina, non avendo modo di
campare coi lavori prediletti, gli era necessario di collocar bene quel danaro.
Lo disse a don Aurelio sorridendo malinconicamente delle preoccupazioni
materiali cui non possono sottrarsi neppure i più fervidi idealisti. Nel caso
suo gli s'imponevano ricerche di persone che avessero bisogno di danaro,
pratiche con notai, contratti; oppure indagini sulla solidità di titoli
bancarii, di titoli industriali, negoziazioni di quel genere. Non poteva pensare
alla rendita pubblica che al tasso di allora gli avrebbe reso quasi duecento
lire meno. «Anche duecento lire» diss'egli, «per me possono significar molto.»
I due amici uscirono insieme; don Aurelio per una visita che
avrebbe potuto fruttargli due lezioni la settimana, Massimo per mettere alla
Posta la sua lettera e per telegrafare a donna Fedele.
III
L'indomani
mattina la Peppina
disse a Massimo che suo marito lo pregava di volerlo ascoltare. Il marito venne
e ricomparve anche la Peppina,
si tenne presso l'uscio, quattro passi più indietro del consorte, in
un'attitudine di sostegno. Il Togn, appena oltrepassato l'iniziale «ch'el
senta», s'impelagò in un mare di scuse per quello che intendeva dire in un mare
di — L'à de perdonà — tocariss minga a mi — mi me sta minga ben — el soo — l'è
inscì — ma insomma — eccola — certi rob — mi l'è la premura che goo per Lü — se
po minga tasè — certi rob - vera ti? — La moglie, interpellata così, mormorò
«sì, già» e con un — eccola — finale il Togn chiuse il suo esordio.
Aperse la seconda parte dell'orazione presso a poco nello stesso
modo:
«Donca, ch'el senta.» E volgendosi ogni tanto a raccogliere le
conferme della moglie con dei «vera ti?», si mise a raccontare le gesta della
Beata Ciapasü. Ne fece la biografia, trattenendosi particolarmente sull'ultimo
episodio, sul progetto di fabbrica a Porta Vittoria, sul dono della dama, sulle
visite quotidiane, o quasi, all'ingegnere. Preparò così una uscita di effetto
nella quale innalzò anche un pochino il linguaggio, colorendolo colla cantilena
speciale degli avvertimenti profetici. «E ben, io ci dico che quel Ciapasü lì
el sarà la rüina di questa casa. Mi L'avvertissi, io L'avvertisco, perchè l'è
il mio dovere che giüsta sem d'accordi anca cont la donna chì — vera ti? — E Lü
ch'el se fida de io. Adess el sentirà.»
Massimo non udì il racconto profetico delle macchinazioni che
minacciavano il gruzzolo dell'ingegnere, perchè, quando gli parve di avere
afferrato il senso intimo del discorso, interruppe l'oratore. Come? Non era padrone
dei suoi danari, il signor ingegnere? Che ragione avevano loro di dolersi che
li spendesse in un modo o in un altro? Vista la mala parata, i due
s'infervorarono a protestare che si erano decisi a quel passo unicamente per il
suo interesse. Allora Massimo andò tanto sulle furie che i due malaccorti
coniugi — ch'el scüsa ch'el scüsa ch'el scüsa — infilarono l'uscio.
Egli si recò, più tardi, dal suo notaio. Ritornando a casa,
incontrò l'amico che gli aveva scritto la famosa lettera. Costui era andato a cercarlo
a San Spirito, lo voleva portare a colazione da una dama di conoscenza comune.
Massimo rifiutò. L'amico insistette. Aveva un biglietto napoleonico della dama:
— So che Alberti è a Milano. Me lo porti domani a colazione, vivo o morto. —
Egli stesso era invitato da tre giorni, supponeva che vi fosse molta gente. La
dama, un'egoista intelligente, sentimentale, colta, si prendeva talvolta il
gusto d'invitare una quantità di persone delle più opposte tendenze,
accontentandosi, se erano stupide, che fossero ricche o titolate, se erano
intellettuali, che avessero la camicia pulita, pigliandole anche colla camicia
sudicia se celebri. Qualcuno si seccava e non ci ritornava più. La maggior
parte ci ritornava, chi per la conversazione arguta della dama, chi per
l'eleganza delle sale, chi per l'abilità del cuoco, chi per la squisitezza dei
vini, chi per vantarsene e vantare ogni cosa, chi per vantarsene e dir male di
ogni cosa. Massimo immaginò che la dama ci tenesse tanto ad averlo, per darlo
in pasto ad avversari suoi. Gli pareva già di udirla giustificarsi. «La ho
desiderata per amicizia, perchè Ella potesse dire le Sue ragioni», mentre in
fatto il solo suo fine era di divertirsi, mettendo alle prese fra loro della
gente d'ingegno. Ella lo sospetterebbe forse di viltà, ma che gliene importava?
In nessun caso e da nessuno avrebbe accettato un invito a colazione mentre il
povero signor Marcello giaceva ancora sul suo letto funebre. L'amico trovò
esagerato questo riguardo, ma non lo potè discutere.
Massimo fece colazione collo zio che trovò perfettamente bene e in
colloquio con don Santino, il quale, al comparire del giovane, sgattaiolò via
quasi a precipizio. Lo zio non parlò di questa visita se non dopo che fu
portato il caffè, quando la
Bigin, che aveva servito, se ne fu andata a far colazione per
conto proprio. Allora ne parlò, sottovoce, esagerando il tono della confidenza,
come se il dire solo «t'è vist quel pret?» fosse già mostrare un segreto della
cassaforte. La confidenza continuò, sempre sottovoce, bonaria, insolitamente
affettuosa, un po' confusa però, per la preoccupazione di un fine premeditato,
per il dubbio di urtare in qualcheduno o in qualche cosa prima di arrivarvi. Il
viso dell'ingegnere era ilare; anzi, sulle prime, furono più le risatine che le
parole. Le risatine andavano al cuoco e alla moglie del cuoco, che non potevano
vedere il prete. Il padrone se n'era accorto, aveva indovinato i loro timori
segreti e rideva; perchè la sua grande indulgenza per i domestici non gli
toglieva di giudicarli per quello che valevano e forse anche per meno. Aveva
dunque indovinato che vedevano di mal occhio il prete «perchè creden de restà
in camisa lor.» Il cuoco gli aveva detto una volta, quasi aspramente: «El sa
quell ch'el fa, quel pret lì, a vegnì chi!». La cameriera no. La cameriera era
tutta cosa di don Santino. Alla cameriera l'ingegnere aveva detto un giorno,
sicuro ch'essa lo avrebbe riferito al cuoco, che a quel sant'uomo egli sarebbe
disposto di dare tutto il suo. Qualcosa di simile aveva detto anche alla
Peppina. «Foo a posta!» diss'egli piano, in falsetto, spalancando la bocca con
una risatina di soddisfazione per la propria malizia feroce. Poi parlò sul
serio dei progetti del prete e delle proprie disposizioni. Intendeva dare per
niente l'opera propria d'ingegnere e cinquemila lire. Il prete sperava molto di
più ma, quanto a questo, conchiuse l'eccellente uomo, «l'è matt». Soggiunse che
conosceva i propri doveri e non soltanto quelli verso i domestici. Massimo
pensò ch'egli avesse saputo delle informazioni dategli dal Togn e che tutto il
discorso avesse lo scopo di rassicurarlo. Ne fu molto seccato. Protestò di non
conoscergli altri obblighi oltre a quelli verso i domestici. Mentre parlava
così, lo zio borbottava continuamente: «Ma ma ma ma ma», tenendo gli occhi
sulla tovaglia e scotendo le mani, come per allontanar da sè le parole del
nipote. Messo fuori, quando potè, un «te vedet?», fece, con certo suo
particolare tono di fermezza blanda, una dichiarazione di principii
testamentari. Di quello che aveva guadagnato colla professione poteva disporre
liberamente; quello che aveva ereditato da parenti doveva andare a parenti.
Siccome Massimo protestava più che mai, si oscurò nel viso, parve volergli fare
intendere che non era questione di affetto ma di coscienza, esclamò concitato:
«Pientèmela lì, pientèmela lì, perchè adesso io devo fare i miei mille passi
per la mia digestione» e, alzatosi da tavola, congedò il nipote. Quando faceva
i mille passi per la digestione percorrendo cinquanta volte in su e in giù
quattro stanzette in fila, voleva esser solo. Massimo uscì, risoluto di
abbandonare Milano, di provvedere a se stesso, di fare quanto stava in lui
perchè lo zio non lo considerasse un ostacolo, un limite, alle sue buone opere.
IV
Prima di pranzo
quel tale amico venne a cercare di lui. La dama, desolata di non averlo avuto a
colazione, sperava vederlo la sera. Non era una sera di ricevimento. Alberti
non avrebbe trovato che pochi intimi.
Vi andò alle nove e mezzo. Trovò la dama sola con una sua
figliuola nubile, una signorina sui venticinque anni. La dama non l'aspettava
così presto e quasi ne parve inquieta, tanto temè in cuor suo che fosse venuto
presto per partirsene anche presto, ciò non essendo nei disegni di lei. Fu
molto gentile, gli parlò di questa morte che lo aveva turbato, s'informò del
morto, della villa, del paese. In breve il povero signor Marcello fu da lei
sepolto e dimenticato. Passando dallo stile compunto allo stile scherzoso, ella
domandò, sorridendo senza dirne il perchè, se Praglia fosse molto lontana da
Velo d'Astico. Massimo diventò rosso e stava per rispondere che era lontana
quanto tutte le lingue milanesi, meno la sua propria, messe in fila, quando,
per fortuna, sopraggiunsero due signore e due signori, accolti molto
festosamente dalla signorina, che con Massimo era stata quasi impertinente,
aveva persino letto un giornale mentr'egli parlava della Montanina e del signor
Marcello. Le due signore erano straniere. Una di esse, giovine e bella, era
russa; l'altra, vecchia e brutta, era svizzera. Il più anziano dei due signori
era un professore di Pavia, grande e grosso, mal tagliato, rumoroso e galante.
L'altro, giovine e piccolo, era un uomo politico, molto curioso di cose
intellettuali, galante anch'egli, ma con assai maggiore finezza del professore.
Massimo li conosceva più o meno tutti e quattro. Il nome della bella russa, una
teosofa mistica, era stato accoppiato qualche volta, nelle conversazioni
milanesi, al suo. In fatto ella gli aveva mostrato simpatia e Massimo le
perdonava la sua mitologia teosofica in grazia della bellezza, dell'ingegno e
anche del misticismo. La vecchia svizzera, fredda positivista, parlava di lui
come di un bigotto, di un retrivo. L'uomo politico, benchè lontano dalle idee
religiose, da ogni religione positiva, era fortemente inclinato a stimare
questo giovine pieno d'idealità, che tanti vituperavano; ma, privo di coraggio
civile, non avrebbe osato prenderne le difese.
Massimo sentì subito, vedendo entrare quella gente, che appunto la
dama si era proposta di dare a sè, e anche a loro, lo spasso di un torneo
intellettuale. Fu contento di vedere la vecchia svizzera e il professore, che
gli eccitavano l'estro bellicoso. Nessuno dei sopravvenuti si occupò, sulle
prime, di lui. Il professore e la vecchia svizzera furono subito alle prese fra
loro. Avevano in tutto le stesse idee, ma se in una discussione la svizzera si
trovava a fronte una donna giovine e non troppo brutta, il professore si
metteva subito con questa. Allora l'altra se ne stizziva tanto, gli diceva tante
ingiurie ch'egli ci si divertiva un mondo. Non mancava mai, quando ne aveva
l'occasione, di provocare discussioni a questo fine. In principio la vecchia
abboccava; poi si accorgeva del tiro e si chiudeva in un silenzio gelido.
Allora egli blandiva ed ella si liquefaceva; in parole grosse, ma si
liquefaceva; e la commedia ricominciava. L'esca che il professore adoperava
spesso per accendere il fuoco era qualche stramberia sull'amore. Oramai, però,
l'amore non serviva più. La vecchia capiva subito. Questa volta il professore
aveva adoperato un'altra esca, troppo grossa: la Russia dovrebbe dichiarare
la guerra alla Svizzera per causa dei rifugiati nihilisti. La vecchia lo
investì in malo modo: «Sono vecchia» diss'ella, «ma crede Lei di essere
giovine? Crede di essere seducente? Crede di piacere a questa signorina,
dicendo stupidità di orso? Lei starebbe bene nella fossa di Berna. Si vergogni,
brutto uomo. È facile che la
Russia sia conquistata dalla Svizzera con sue piccole mani,
piuttosto che da Lei con Sua grossa pancia»
Tutti risero, la signorina russa e il professore più degli altri,
mentre la vecchia continuava in francese il suo sfogo contro «cet homme
insupportable» rivolgendosi alla dama. L'uomo politico, al quale la Russia piaceva molto, si
offerse negoziatore di pace a Pietroburgo. La vecchia s'inviperì anche contro
di lui, facendosi applaudire dal professore; tanto che la padrona di casa alzò
faticosamente la sua vocina velata come gli acuti di un piccolo piano chiuso
dentro un grande imballaggio e suonato da spiriti: «Basta, basta, la pace la
detto io! E lei cosa dice, Alberti? Dica qualche cosa!».
Non l'imperioso — basta — ma il nome Alberti fece l'effetto
dell'olio sulle onde. Quel silenzio improvviso parve significare: — Che c'entra
lui? Cosa può dire?— Infatti Alberti rispose che non aveva proprio niente a
dire e che, in ogni caso, poichè c'erano conflitti, egli si atteneva alla
neutralità armata. «Allora ci avrà tutti contro» disse la Svizzera. La Russia,
che non aveva quasi ancora aperto bocca, disse piano: «Oh sì» e la signorina di
casa ebbe un sorriso significativo. Il professore prese nota, tutto contento,
di questi brutti segni: — Ò ò ò, qui va male, caro Alberti! — «Ma è armato,
Alberti» osservò con simpatia l'uomo politico. La dama, contenta ella pure
della piega che prendeva la conversazione, le diede la spinta definitiva.
«Lei ha fatto bene ad armarsi, Alberti» diss'ella ridendo, «perchè
la signorina Grüssli ha delle intenzioni bellicose.»
«Oooh siii, oooh siii» esclamò la sessantenne signorina Grüssli.
«E ho piacere di dirlo al signor Alberti perchè in passato avevamo discorso
insieme, e, benchè non abbiamo le stesse opinioni, non ero malcontenta di lui
come adesso. Oooh nooo!»
«Ma perchè, perchè?» domandò la dama, avida di soffiar nel fuoco.
«Inutile dire! Tutti questi signori sanno e anche il signor
Alberti.»
«Io veramente no» rispose Alberti, con un sorriso freddo. «Ma del
resto...»
«Lei vuol dire che non importa di me? Ma importerà forse di altri,
credo. Se Lei non sa, io dirò. Io sono stata a Sue conferenze, signore, su
eretici del secolo XVI. Non è piaciuto niente nè me nè altri, come Lei ha detto
che quelli dovevano tacere, obbedire. Domandi questi signori.»
Il professore protestò. Dichiarò di essere un positivista troppo
lontano dalle idee di Alberti, da qualunque idea religiosa, per aver piacere o
dispiacere che si parlasse degli eretici in un modo o nell'altro. Egli non
faceva differenza fra eretici di qualunque tinta e cattolici di qualunque
scuola. Tutt'al più poteva dire che per lui i cattolici intransigenti erano i
più logici e perciò i più simpatici. La svizzera lo rimbeccò aspramente. Anche
per lei eretici, modernisti e papisti si valevano, ma poi c'era una questione
morale, una questione di dignità, di sincerità. «Mi pare!» fece la damigella di
casa. Ma la bella Làlina, la russa, rincarò la dose. «Io non sono positivista»
diss'ella, parlando francese, «e ho avuto una disillusione molto maggiore di
quella della signorina Grüssli e ho piacere di dirlo direttamente al signor Alberti.
Io ho le idee di Annie Besant, ma forse non sarei stata lontana dal farmi
cattolica se le idee che ho letto negli articoli del signor Alberti fossero
state accolte dalla sua Chiesa. Io ero entusiasta di quegli articoli. Credevo
che il signor Alberti sarebbe stato un apostolo pieno di fede e pronto al
martirio. Invece la sua conferenza mi ha fatto intendere ch'egli non era questo
apostolo, che neanche un piccolo rogo freddo era di suo gusto.»
Qui la damigella di casa rise, cercando metter nel riso tutta
l'insolenza possibile; e sua madre credette medicare le ferite russe, gemendo,
non senza ilarità negli occhi:
«Oh povero Alberti, come me lo maltrattano!»
«Quanto a rogo» disse l'uomo politico, «mi pare anzi che il signor
Alberti lo abbia cercato e che in questo momento vi stia proprio sopra. Non
sarà il rogo della Santa Inquisizione, sarà un rogo di "bois de
sandale" ma però io sento odore di arsiccio. Del resto, signorina Grüssli,
ardo anch'io senza il rogo.»
«Oh» esclamò la
Grüssli «ma Lei non sa di bruciato, Lei sa di cotto!»
Intanto Alberti pensava: «Non dirò il fatto loro a queste sciocche
perchè sono signore? Ancora un po' e lo dico.» La dama lo apostrofò:
«E Lei, Alberti, non dice nulla! Non si difende?»
«È bruciato!» esclamò allegramente il professore. «Rispettiamo
almen le ceneri!»
«No» rispose Massimo, contento di avere trovato una risposta dura.
«Non mi difendo. Avrei paura di persuadere. Ho fatto il vuoto intorno a me.
Ella non può credere quanto mi sia delizioso di esser solo. Non sento proprio
nessun bisogno di difendermi. Mi lasci tacere. Se parlassi, direi forse parole
troppo poco umili e troppo poco gentili.»
«Ma non Le si domanda umiltà, non Le si domanda gentilezza»
ribattè la dama. «Le si domandano ragionamenti.»
«No no, cara signora, non ho udito che nessuno mi domandi
ragionamenti.»
«Ma io» esclamò la donna, «io, li domando!»
«Ah, Lei!» fece Massimo. Tacque un poco e riprese sorridendo:
«Domando qualche cosa anch'io. Non ho voluto il piccolo rogo freddo della
signorina Làlina perchè non mi poteva servire neanche per il thè. Domando se
quest'altro terribile rogo sul quale ho udito che sto, mi possa scaldare una
tazza di thè».
«Non sia così rabbioso, Alberti!» replicò la dama.
La damigella mormorò:
«A momenti ci morde.»
«Oh no, signorina» rispose Massimo ridendo «In avvenire, si
guardi; ma per ora ho la museruola.»
Il thè fu servito in un'altra sala. La dama si prese Massimo in
disparte.
«Perchè non si è difeso?» diss'ella. «È stato male. Il professore
ha fatto un gran chiasso contro di Lei, persino in iscuola.»
«E che me ne importa?» rispose Massimo. E andò a conversare colle
due straniere, fu molto amabile. Non si curò invece di essere amabile colla
damigella di casa. La
Grüssli e la
Làlina erano persone poco equilibrate, poco riflessive, ineguali,
intellettualmente, alla parte che volevano rappresentare, ma sincere e
appassionate per le loro idee. L'ostilità della damigella di casa era meno
rispettabile, era l'attitudine presuntuosa di una donna superiore per natali e
ricchezze, mediocre per ingegno e cultura, che, pigliando sul serio gli omaggi
resi alla sua femminilità aristocratica, alla sua istruzione più appariscente
che solida, si erige a giudice di uomini e d'idee senz'averne la competenza,
sentenzia secondo un suo semplicismo sentimentale, con gran sicumera, di cose
che mal conosce e poco è atta a comprendere. A Massimo che l'aveva udito
proclamare, in fatto di religione, di non creder questo, di non creder quello,
cose grosse, e poi la vedeva correre a messa la domenica, ella irritava i nervi
assai più delle altre due avversarie. Non le parlò più per tutta la serata.
Nell'uscire gli
si accompagnò l'uomo politico. «Senta senta, caro Alberti» diss'egli quando
furono in strada, prendendolo a braccetto. «Lei ha fatto benissimo a non discutere.
Quella è gente che ragiona poco e male. Il professore è fine come un
rinoceronte e le donnette, poverine, fanno quel che possono. Anche la russa.
Carina tanto, ma non è di religione che vorrei discutere con lei. Carina tanto,
del resto. Ma lasciamo andare. Illumini un poco me che mi trovo al buio. Mi
risponda proprio sul serio, proprio secondo il suo pensiero intimo e io
prometto di non tradirla. Crede Lei davvero che questa vecchia barca di San
Pietro non deva fatalmente andar a finire in un magazzeno del Ministero della
Marina? O almeno crede Lei che possa andare avanti a remi o a vela, che anche
San Pietro non sia costretto, un giorno o l'altro, di prendere un motore? Lei
non mi risponda come risponderebbe in pubblico. So bene come risponderebbe. Si
capisce, Lei si professa cattolico. Tanto sarebbe fare una domanda simile al
cardinale di Milano. Io Le domando la
Sua convinzione intima, qui, a quattr'occhi. Vuol dirmela?»
«Perchè no?» fece Massimo. «Le risponderò come Pio IX ai cardinali
che gli parlavano della barca sicura fra le tempeste. La barca non affonda, nè
si arena, nè finisce in un magazzeno. Quanto ai barcaiuoli, è un altro affare.»
«Via via» rispose il suo interlocutore, malcontento. «Questi sono
dei motti. Io non Le domando dei motti.»
«Ma, scusi, anche il magazzeno, i remi e il motore sono dei motti.
Del resto, se desidera, Le risponderò diversamente. Se io credessi che la Chiesa, nella quale sto,
potesse cadere, non aspetterei il terremoto, ne uscirei subito. Ma Le assicuro
che neanche un terremoto me ne farebbe uscire, tanta è la mia fede nelle sue
fondamenta e nella coesione delle sue pietre.»
«Beato Lei!» esclamò l'onorevole deputato fermandosi e sciogliendo
il suo braccio da quello di Massimo. «Dica un po'. Non ci avete, oltre la Chiesa visibile, anche la Chiesa invisibile, voialtri
cattolici? Sì, vero? Ebbene, io, se fossi Lei, pensando al terremoto, mi
sentirei più sicuro nella Chiesa invisibile.»
Erano davanti al caffè Cova. L'uomo politico era aspettato lì, da
un gruppo di amici. «Senta» diss'egli, «Ella è giovine, io sono quasi vecchio;
ho molta simpatia per Lei, mi permetto di darle un consiglio. Non si occupi
tanto di religione. Si accontenti delle Sue credenze, delle Sue pratiche, ma
non si occupi di questioni religiose per il pubblico. Il nostro pubblico, a
parlargli tanto di religione, si secca. Non capisce che un giovine come Lei si
perda intorno a cose che riguardano un altro mondo e non questo. Ha inteso?» In
quel familiare, sorridente «ha inteso?» l'uomo politico mise l'accento caldo
della sua simpatia e anche un accento gentile di autorità, dell'autorità di
quel mondo che non comprendeva Massimo, di un grande e potente mondo, composto
di uomini arrivati a comodi seggi, esperti della vita, persuasi che il problema
dei problemi è viverla il più gradevolmente possibile; composto di altri uomini
non arrivati ancora, presi dalla politica, avvezzi a considerarla come la
suprema realtà, a stimar poco, non a parole ma in cuor loro, tutto che non ha
valore politico, ch'è fuori della contesa per il potere politico.
«Non ho capito» rispose Massimo, ridendo. «Io ho piacere, sa, di
seccare il pubblico.»
«Gusti, caro!» disse l'altro, entrando nel caffè.
Massimo, rimasto solo, si avviò a casa. Era contento di sè,
amaramente, fieramente. Si stava bene, a fronte di Lelia a fronte dello zio, a
fronte del mondo nemico, del mondo schernitore, del mondo indifferente, nella
sua torre di orgoglio. Se la innalzò, nel pensiero, fino alle nuvole, se la
rivestì di acciaio e d'oro, si compiacque di stare nella Inespugnabile, solo.
Invece di svoltare da via Manzoni in via del Monte Napoleone, proseguì
distratto fino agli archi di Porta Nuova. Adesso la questione era di scegliere
il posto, fuori di Milano, dove portarsi la sua torre. Pensando, cercando, passò
anche gli archi. L'idea di concorrere a una condotta medica in montagna,
balenatagli fra i castagni della Montanina, lo riprese. E andò intanto fino al
Sottopassaggio, dove il senso della realtà topografica lo riafferrò.
Rientrato in casa, scrisse a donna Fedele per giustificarsi di non
andare al funerale. Scrivendo gli venne l'idea di fare invece, fra qualche
giorno, una visita al cimitero di Velo. Si poteva andarvi dalla stazione di
Seghe fra un treno e l'altro. Stracciò la lettera e ne scrisse un'altra
coll'annuncio che il quattro luglio, al tocco, sarebbe sceso a Seghe per questa
visita, esprimendo la speranza di avervi compagna l'amica.
|