VERSO L'ALTO E VERSO IL PROFONDO
I
Il quattro
luglio, alle dodici e tre quarti, donna Fedele arrivava, nel solito biroccino
tirato dal solito cavalluccio, alla stazione di Seghe. Si divertì a far
conversazione, nella sala d'aspetto, con un vecchio mandriano puzzolente, dal
quale l'ostessa del villaggio si era allontanata con una smorfia di schifo.
Udito il fischio del treno da San Giorgio, uscì nel sole ardente senza curarsi
di aprire l'ombrellino. Prima ancora che il minuscolo treno si fermasse, vide
Massimo affacciato al finestrino dell'ultima carrozza, gli mosse incontro,
sorridente. Massimo la trovò tanto pallida, tanto sofferente nell'aspetto,
ch'ella gli lesse in viso la sua impressione. Nessuno dei due, nel primo
momento, cercò parole a quel moto dell'anima che li univa nel senso della
recente sventura. Uscendo dalla stazione, ella gli domandò quando intendesse
ripartire. Subito, col treno successivo, per ritornare direttamente a Milano.
Avevano due ore di tempo. Lo invitò a salire nel biroccino che in pochi minuti
li avrebbe portati a San Giorgio, dov'è il cimitero. Si avviarono lungo
l'Astico grosso e sonante per una gran pioggia caduta nella notte. Ella parlò
della sventura, ricordò i segni premonitori, i particolari dell'ultima sera, il
temporale, i fiori portati all'aperto, il denaro deposto sulla scrivania, la lucerna
trovata accesa, l'aspetto del cadavere. Parlava quieta quieta, nel triste rombo
delle acque correnti, che stringeva il cuore. Stringeva il cuore anche il riso
dei prati e dei pioppi nel vento. Di Lelia non fu detta una parola, perchè il
vetturino avrebbe udito. A San Giorgio il custode del cimitero indicò loro una
macchia nera di terra smossa e si tenne in disparte. Donna Fedele, che aveva
portato con sè due rose, ne diede una a Massimo. S'inginocchiarono nell'erba,
posarono le rose sulla terra smossa, senza sfogliarle, pregarono in silenzio,
mentre il custode era alle prese con una frotta di fanciulli curiosi,
sdrucciolati dentro il cancello. Quelle voci disturbavano, parevano offendere
anche il povero morto. Donna Fedele si alzò, ordinò ai fanciulli di
inginocchiarsi e di stare zitti. Obbedirono, affascinati dal suo impero dolce.
Ella ritornò dove Massimo l'aspettava. Rimasero ancora due minuti. Egli ebbe
l'impressione di un sentimento, in lei, più forte del suo proprio. Del passato
non sapeva niente e questa impressione lo distraeva, lo faceva pensare più a
lei che al morto.
Prima di risalire nel biroccino, ella gli disse che desiderava
parlargli di cose delicate. In carrozza non era possibile per la presenza del
vetturino. Nella sala d'aspetto di Seghe non era piacevole. Propose di passare
il ponticello di legno che congiunge Seghe alle case dette gli Schiri e di
prendere il sentiero ombroso che scende sulla sinistra dell'Astico.
«Devo parlarle di Lelia» diss'ella quando, lasciato il biroccino
presso l'ufficio postale di Seghe, si misero per un viottolo fra casupole nere.
«Devo?» pensò Massimo. Perchè, deve? Ha un incarico? Tacque, si mise in difesa.
«Devo domandarle consigli» riprese donna Fedele «non tanto per
Lelia quanto per me, riguardo a lei.»
Il discorso fu interrotto per l'incontro di una brigata di signori
e signore, conoscenti di donna Fedele, che salivano dal ponte. Intanto,
all'uscita dalle casupole, apparvero le correnti larghe, irritate, dell'Astico
e il gran verde, il cielo aperto fra le due ali della valle scendenti al piano.
«Questo punto» diss'ella «piaceva tanto al povero signor
Marcello.»
«Consigli per Lei?» chiese Massimo.
«Eh sì, per me» rispose donna Fedele. «Sa che Lelia è in casa mia,
adesso?»
Massimo si fermò su due piedi. Donna Fedele guardò l'orologio.
«Abbiamo un'ora e un quarto» diss'ella. «Andiamo a sedere.»
Passarono il ponte, svoltarono a destra, sedettero sur una
muriccia, nelle ombre mobili e rotte dei carpini che porgevano frondi agitate
sopra la corrente luccicante di sole, in faccia alle casupole nere, alte nel
verde, oltre il fiume. Donna Fedele cominciò a dire del testamento, dell'errore
in cui era stato il povero signor Marcello circa l'età della ragazza. Suo
figlio gli aveva detto che toccava i diciott'anni quando ne aveva solamente
sedici. Forse era stato ingannato anche lui.
«Il padre di Lelia» proseguì donna Fedele, «informato subito, non
si sa come, fece sapere per telegrafo che la ragazza era minorenne e che
veniva, naturalmente, a prendere il suo posto di padre. Lelia ebbe una crisi
terribile. Rifiutò di vedere suo padre. Egli mi fece pregare di andarla a
prendere. Me la portai a casa. Si fecero i funerali. Ella non vi andò. Neppure
avrebbe potuto. Passò la intera giornata a letto, con una emicrania violenta. Andai
io. Il padre c'era.»
«Che uomo è?» interruppe Massimo.
Ella ebbe un'esclamazione di ribrezzo.
«Ah! Schifoso, all'aspetto. Si figuri una testa di cera da
parrucchiere, vecchia, mal dipinta, sporca. Parla come uno stupido, duro duro.
Si direbbe paralizzato dalla soggezione. Di me, almeno, ha mostrato una gran
soggezione. Dice sempre di sì a tutto, pare incapace di dire di no. Se non si
sapesse ch'è un volpone, lo si crederebbe un cretino. Dopo il funerale è venuto
a farmi visita: "a far un dovare, un dovare. Pronuncia così.
Domandò se si potesse vedere Lelia, come lo avrebbe domandato un fattore e non
un padre. Ella non volle saperne e lui "povareta, povareta" se ne
andò contento egualmente. Un tipo unico. Stamattina mi mandò un biglietto per
farmi sapere che partiva coll'agente, che sarebbe stato fuori tre o quattro
giorni e che sperava, ritornando, di trovare Lelia alla Montanina. Ma Lelia...»
Donna Fedele pronunciò queste due ultime parole piano piano e
tacque, segnando lentamente nell'erba una domanda che non venne.
«Lelia mi dà un gran pensiero» diss'ella, ancora sottovoce, ancora
segnando geroglifici nell'erba, «e vorrei un consiglio, vorrei avere qui don
Aurelio, domandarlo a lui.»
Massimo prese a parlarle di don Aurelio, delle sue condizioni
presenti, delle sue speranze. In altri momenti donna Fedele lo avrebbe
ascoltato avidamente, gli avrebbe fatte mille domande. Adesso lo ascoltò
malvolentieri, sentendolo renitente a parlare di Lelia.
«Dovrebbe domandarglielo Lei, per me» diss'ella.
Massimo rispose freddamente, che, se lo desiderava, lo avrebbe
fatto.
«Ma bisognerebbe che Lei la vedesse, Lelia.»
Il giovine trasalì. Com'era possibile se non mancava più che
mezz'ora alla partenza del treno?
«Si fermi» mormorò donna Fedele.
Fermarsi? Oh no! La dura risposta fu data con veemente commozione,
parve una protesta, quasi un rimprovero.
«Le farebbe piacere.»
Malgrado il rifiuto veemente, donna Fedele pronunciò queste parole
con imperturbata placidezza. Massimo era intrepido quanto lei nel non udire
tutto che non voleva udire, nel non intendere tutto che non voleva intendere.
«Lei le ha scritto, però» riprese. «Lo so perchè le hanno portata
la lettera al villino mentre stava a letto. La ricevetti io. Cosa le ha
scritto?»
«Non vorrei perdere il treno» disse Massimo, facendosi sordo alla
sua volta. «Ho poco più di venti minuti.»
«Lo perda!»
Adesso donna Fedele si accalorò alquanto. «Lo perderebbe certo»
continuò «se avesse udita la confessione che Lelia mi ha fatto stamattina.»
«Che confessione?»
«Se vuole saperlo, si fermi.»
Massimo si alzò, pallido per il violento assalto della tentazione,
per la violenta ripulsa che gli batteva nel cuore: no, no, no, no.
«Non devo!» diss'egli. «E Lei, scusi, non dovrebbe domandarmelo.
Sarebbe una tale viltà, dopo l'insulto! Adesso perdo il treno davvero. A
rivederla!»
«Vada» rispose donna Fedele, senz'alzarsi, «ma è un gran bambino,
Lei.»
«Un bambino?»
«Eh sì, un bambino. Non conosce l'amore, ancora. Non sa che,
quando si ama, si ama. Non c’è viltà, non ci sono insulti. Quando si ama, si
ama.»
Il treno fischiò nella stazione di Arsiero. Massimo salutò e corse
via. Donna Fedele sapeva che il treno fischiava sempre, in stazione, prima di
partire, manovrando. Si alzò pian piano anche lei, ripensò le proprie parole: —
Quando si ama, si ama.
Un lontano momento là nei boschi di Lavarone, il momento in cui se
Marcello avesse voluto gli si sarebbe data a occhi chiusi, dimenticando tutto,
le risalì dal fondo dell'anima, non già in forma di memoria, ma proprio vivo,
caldo di giovinezza, di amore, di dolcezza, di terrore. Ella pose gli occhi,
smarrita, nelle acque sonanti, piangenti. E il momento passò.
Raggiunse Massimo alla stazione, quando il treno vi entrava, ebbe
il tempo di dirgli sottovoce:
«Si fermi, Lo ama, me lo ha quasi detto.»
«Lo ama.» Le due parole lo trapassarono come una saetta di gelo e
di fuoco che lo configgesse al suolo. Non potè muoversi nè parlare. La signora
sperò che rimanesse. Egli si spiccò da lei a un tratto e salì nel treno senza
sapere che si facesse. La macchina si staccò per andare a raccogliere dei carri
e donna Fedele potè parlargli ancora, sotto il finestrino della carrozza di
prima classe, dov'erano altri viaggiatori. Gli domandò, per norma della
corrispondenza, se intendesse passare il luglio a Milano. Egli rispose che una
lettera da Roma gli affidava un incarico molto pio e molto caro, per il quale
avrebbe dovuto allontanarsi da Milano subito, recarsi sul lago di Lugano. E per
l'avvenire aveva altre idee. La macchina fu riattaccata. Donna Fedele accostò
il viso al finestrino, vi gittò un ultimo sussurro:
«Lo ama.»
Il treno si mosse. Preso da vertigine, Massimo chiuse gli occhi,
anche per non esser costretto di salutare un viaggiatore, suo conoscente. Finse
di dormire. Vide Lelia che gli porgeva le labbra. Subito aperse gli occhi, per
non vederla più, sul verde fuggente della valle incantevole. E li richiuse per
vederla ancora. Vide l'ovale biondo della testa chinata sul petto, come a
nascondere il viso. Vide poi le due piccole bianche mani che si alzavano, che si
alzavano lentamente, lentamente restando immobile l'ovale biondo, che gli si
posavano sulle spalle. Riaperse gli occhi trasalendo, gli parve che le mani si
ritirassero, ma non vide il verde lucente, vide ancora l'ovale biondo. Il treno
entrò tuonando nella galleria di Mea. Si sentì allora le dolcissime braccia
intorno al collo, il dolcissimo viso sul viso, e baci, e lagrime, e un ripetere
«ti amo, ti amo, ti amo». Il respiro gli si fece greve. Pensò, accorgendosene:
«Che stupido sono! E la mia torre di orgoglio?». Mise il viso al finestrino,
guardò il fuggire dei rami e dell'erba, dicendosi nel cuore: «Stupido stupido
stupido!» Aveva poi detto «quasi» donna Fedele, la prima volta. Era lei, era
lei, che cercava di accomodare. Però, se fosse! Gli si riapersero in mente gli
occhi magnetici, dalle subite fiamme. Tolse il viso dal finestrino, si cercò in
tasca un giornale che non c'era più, salutò il viaggiatore scusandosi di non
averlo riconosciuto e parlò con lui della ferrovia che sarebbe salita un giorno
da Rocchette ad Asiago.
A Vicenza dovette aspettare due ore. Non vi conosceva nessuno.
Andò camminando su e giù lentamente per i viali che mettono alla Stazione e
sotto i platani volti in colonne oblique dal Caffè Turco al ponte sul Retrone.
Erano le cinque, faceva caldo, radi oziosi camminavano, com'egli, in silenzio
per le ombre afose. Ebbe l'idea di venir a vivere in quella piccola città
pacifica, ignoto. No, Velo era troppo vicina. Rientrò alla Stazione mentre vi
si gridava: «Thiene-Schio!».
Prendendo quel treno sarebbe arrivato prima di notte al villino
delle Rose. Addio addio, verdi valli, correnti limpide, rose ondulanti al vento
delle montagne! Entrò nel caffè, vi lesse il Corriere della Sera fino
agli annunci, si tuffò anche in quelli. Vi trovò questo:
«È aperto a tutto agosto il concorso alla condotta
medico-chirurgica dei Comuni consorziati di Valsolda. Stipendio L. 3500.
Rivolgere istanze e documenti al sindaco di Drano (Como).»
Mezz'ora dopo fu gridato: «Verona-Brescia-Milano!».
Massimo si alzò trasognato, tenendo ancora in mano il Corriere.
II
Prima di
ritornare al villino, donna Fedele visitò un povero giovine di Seghe, tisico
all'ultimo stadio, che l'adorava come un essere celeste. L'aveva conosciuta
lavorando al villino da garzone di pittore. Si era guadagnato il male con ogni
sorta di stravizi, e ricordando allora la dolcezza grave degli avvertimenti di
donna Fedele, gli si erano aperti gli occhi sulla sua vita pessima, aveva fatto
dire alla signora, sapendola visitatrice di afflitti, che andasse anche da lui.
Le si era quasi confessato, se n'era lasciato facilmente persuadere a
riconciliarsi con Dio e colla Chiesa, si mostrava tanto felice delle sue
visite, tanto riconoscente, ch'ella andava spesso a vederlo, a leggergli, a
mostrargli libri illustrati e fotografie. Ora lo trovò triste, inquieto. Il
cappellano di Velo gli aveva veduto in camera gli Evangeli pubblicati dalla
Società di San Girolamo, dono della signora, e lo aveva sconsigliato dal
leggerli dicendo che non li poteva intendere. Donna Fedele nascose il proprio
interno bollire, promise al povero ammalato di leggergli e spiegargli il
Vangelo ella stessa e se ne andò lasciandolo contento, portandosene via la
tristezza, un altro peso sul suo cuore amaro. Realmente Lelia non le aveva detto
di amare Massimo. Le aveva solamente offerto di lasciare il villino se, posto
che il signor Alberti era tanto irritato contro di lei, la sua presenza fosse
di ostacolo a una visita desiderata. Le parole non erano state che queste, ma
la voce, il modo, il viso avevano detto altro. Se Massimo avesse ceduto, se
fosse rimasto, forse...
Massimo era partito, nel cuore di donna Fedele speranze
scendevano, angoscie salivano. Nello stato d'animo di Lelia ella vedeva il
pericolo di un sinistro. Con lei la ragazza non aveva tenuto propositi che
potessero dar sospetto. Aveva detto invece, più di una volta, alla cameriera
Teresina, in passato, che se fosse costretta di vivere con suo padre, si
ammalerebbe. Ai rimproveri di Teresina, seriamente religiosa, aveva risposto che
vivere con suo padre voleva dire per lei odiarlo a morte, perdere il senso
morale; e che, in quel caso, si sarebbe ammalata non già con disprezzo della
legge divina, ma proprio per obbedire alla voce del Signore il quale, pure non
permettendo, di regola, il suicidio, era certamente in facoltà di comandarlo.
La povera Teresina, tutta sgomentata, la credette pazza. Donna Fedele ne fece
un giudizio diverso. La giudicò strana, sì, ma sopra tutto vittima di un
concetto storto della religione, frutto in parte d'ignoranze, in parte di
congenite anomalie dell'intelletto, in parte d'istruzione cattiva e di pessimi
esempi. Sperava che i discorsi tenuti alla cameriera non avessero un carattere
serio, ma temeva particolarmente i lunghi, scuri silenzi attuali. Non avrebbe
voluto che uscisse sola. Perciò quando seppe, arrivando al villino, che Lelia
era uscita sola, rabbrividì. Cercò rassicurarsi pensando all'offerta che la
ragazza le aveva fatto di lasciare il villino se fosse venuto Massimo. La gente
di casa non sapeva dove la signorina fosse andata. Era uscita dal cancello
grande. Poteva essere andata verso Arsiero, poteva essere andata verso la Barcarola. Donna
Fedele, inquietissima, andò a interrogare il custode. Il custode, operaio della
cartiera di Perale, era al lavoro. Sua moglie rispose tranquillamente che la
signorina l'aveva incaricata, uscendo, di dire alla padrona ch'era andata alla
Montanina a pigliarsi certe cose e che ritornerebbe dopo le sei. «Ritornerebbe
dopo le sei.» Evidentemente Lelia aveva pensato che Alberti, se venisse al
villino, ripartirebbe con quel treno. Il suo messaggio significava ch'ella non
voleva essere d'impaccio. A ogni modo donna Fedele mandò la cameriera alla
Montanina col pretesto di aiutare, se occorresse.
Lelia ritornò alle
sei colla cameriera del villino e con Teresina, che aveva chiesto di
accompagnarla per vedere il villino dove non era entrata mai. Salutò
affrettatamente donna Fedele, non le chiese nè di Alberti nè della visita al
cimitero, andò a chiudersi nella sua stanza. Donna Fedele rispose con un
sorriso grazioso al desiderio espressole da Teresina; ma il viso della
cameriera, oscuratosi di pena e d'imbarazzo appena uscita Lelia, le apprese
ch'era successo qualche cosa e che il desiderio di vedere il villino era un
pretesto per parlarne con lei.
«Cominceremo dal mio studio» diss'ella.
Lo studio, nell'angolo del villino fra mezzogiorno e ponente, era
la stanza più sicura dalle intrusioni e dalle curiosità delle persone di
servizio. Appena donna Fedele n'ebbe chiuso l'uscio dietro Teresina, le
domandò, a bassa voce, se fosse accaduto qualche cosa di male. Per tutta
risposta, la cameriera si coperse il viso colle mani e si mise a piangere.
Incoraggiata dolcemente a spiegarsi, protestò, con voce rotta dalla commozione,
di non essere in colpa, di aver creduto far bene, di avere detto, in fin de'
conti, la verità. Donna Fedele non capiva. Cos'aveva fatto, dunque, cos'aveva
detto? Poco a poco la donna si chetò e prese a parlare.
«Io non mi aspettavo» disse «di vedere la signorina. Stavo al
lavatoio dietro la cucina, quando udii camminare nel passaggio fra la cucina e
la casa. Guardai chi fosse. Era lei, mi salutò affettuosamente. Pareva serena,
mi disse ch'era venuta a prendersi le fotografie del povero signor Andrea che
erano rimaste nella camera del povero padrone e quella che il padrone aveva
posto nella camera del signor Alberti. "Viene a prenderle?" dico io.
"Ma non ritorna, Lei, alla Montanina?" Mi risponde fiera: "No
no". Ho capito bene il suo pensiero perchè Lei sa quello che mi ha detto
di suo padre, dello stare con suo padre, anche prima, quando si serviva di me
per mandargli denaro. Ho capito ma non osai dir niente. "Devo venire
anch'io?" dico. "No, no" dice. "Lei stia pur qui a lavare.
Vado sola. C'è nessuno, in casa?" Risposi che non c'era nessuno perchè il
signor da Camin è partito stamattina col fattore e il domestico aveva le sue
ore di libertà. Era fuori anche la cuoca. Andò e intanto io stavo un poco
inquieta, pensando che le potesse occorrere qualche cosa. Non ritornava mai. Mi
decisi di entrare. Aspettai un pezzo fuori della stanza del povero padrone,
credendo che fosse lì. A un tratto udii camminare al piano superiore, appunto
verso la camera dei forestieri. Passai nel salone. Ella discendeva la scala di
legno. Quando mi vide arrossì, ebbe un movimento d'impazienza. Mi scusai, le
domandai se non volesse prendere un caffè o qualche altra cosa. Neppure mi
rispose. "Parte subito?" dico. "Sì" dice,
"presto." Andò nella camera del povero padrone dove credevo che fosse
andata per la prima cosa. Stette pochi minuti e uscì colle fotografie. Rientrò
nel salone, si buttò in una poltrona senza dir niente. Io non sapevo se star lì
o andarmene. Pensai che fosse meglio andarmene. Quando ero per uscire, mi
richiamò. "Sa" dice, "che il signor Alberti abbia avuto il
permesso di portarsi via la fotografia?" Io resto stupefatta.
"No" dico. Lei allora fa una smorfia. "Che vergogna!" dice.
"Ma" dico, "scusi, la fotografia c'è. L'ho posta io in un cassetto
del tavolino. Mi sono scordata, poco fa, di dirglielo." E andai a prendere
la fotografia, gliela portai. Poi, cosa vuole, siccome ho saputo tante cose, mi
sono permessa di dire una parola, così in generale, a favore del signor
Alberti. Lei si arrabbia. "Cosa mi viene a contare, adesso? Non si ricorda
cosa mi ha detto del signor Alberti?"»
Qui Teresina interruppe il suo racconto, si scusò umilmente delle
parole che stava per riferire, e riprese:
«"Sarà stata donna
Fedele" dice "a farle la lezione." "No" dico
"donna Fedele, dopo il funerale, non la ho più veduta." È verissimo
che Le ho raccontato delle brutte cose del signor Alberti, ma poi ho saputo che
non erano sicure."»
A questo punto Teresina riferì, confusa e dolente, il primo
discorso fatto da lei a Lelia sugli amori milanesi di Alberti e le sue scoperte
posteriori. Il giorno del funerale, la cognata dell'arciprete, parlando di
Alberti con certa Angela, sarta, le aveva detto che quel giovine amico del
curato di Lago e del signor Marcello era un individuo diabolico, un nemico
mortale dei sacerdoti, che il merito di averlo fatto partire era stato di suo
cognato; che il cappellano aveva ricevuto una lettera d'un sacerdote milanese
conoscente di una signora, affezionata alla signorina Lelia, la quale era in
gran pena per la presenza qui di questo diavolo di giovine, che si credeva, a
Milano, in relazione con una donna maritata; che suo cognato aveva trovato il
modo di far sapere alla Montanina di questa relazione, che allora il giovine,
venuto appunto coll'idea di fare un matrimonio ricco, vistosi scoperto e
scornato, aveva preso la ferrovia; che l'arciprete aveva in mente un conte di
Vicenza fatto apposta per la signorina, ma che questo era un segreto. L'Angela
sarta si era poi tenuta in obbligo di riferire ogni cosa all'amica Teresina.
«Le ho detto queste cose con buona intenzione» continuò costei,
«perchè avevo capito che c'era stato un complotto contro quel povero signor
Alberti e mi pareva quasi di esserci entrata anch'io, ne provavo rimorso.»
«E allora?» chiese donna Fedele, commossa.
«Sentirà» rispose Teresina sospirando. «Prima la vedo scura, Gèsu,
nera. Ma, parlare, non parla. Dopo comincia a farmi domande, mi fa ripetere
cento volte quello che mi ha detto l'Angela. Finalmente si alza, sale la scala
di corsa, prende a sinistra, verso la sua camera. Aspetto un poco e poi vado su
anch'io, pian piano, entro nel corridoio, chiamo: "Vuole qualche cosa,
signorina?". Sento chiudere l'uscio a chiave con un colpo rabbioso, non
sento altro. Sto lì un poco e poi, per paura che si arrabbi peggio se vien
fuori e mi trova, mi allontano. Non avevo fatto ancora due passi che sento un
grido, piuttosto un urlo soffocato che un grido, e poi certe voci che fa lei,
che le ho udite fare un'altra volta per una lettera di suo padre, voci che non
sono nè gemiti nè grida, nè pianto nè riso: ah-ah-ah, come se le mancasse il
respiro. Si quietò presto, però, e io pensai bene di scendere ad aspettarla in
salone.
Infatti, pochi minuti dopo, vedo scendere anche lei. Era bianca
come la bianca Morte, ma composta. Mi disse che partiva. Le chiesi il permesso
di venire con lei a vedere il villino. Pareva indecisa se rispondermi di sì o
di no. In quel momento capitò la
Sua cameriera. Si partì insieme. Prima di arrivare al ponte
del Posina, guardi che destino, vedo l'arciprete che viene verso di noi. Quando
siamo a due passi l'arciprete dice "servo" sorridendo; e giù una
grande scappellata, come fa lui. La signorina, Gesummaria se l'avesse veduta!,
si drizza come quei militari che salutano colla sciabola. Ma non saluta mica
no. Fissa bene il prete con due occhi freddi come il ghiaccio e passa. Io non
ho più detto niente, lei non ha più detto niente e così siamo arrivate qua.»
Donna Fedele sorrise «povera Teresina!» come se provasse pietà di
una commozione esagerata, e offerse alla cameriera di continuare la visita del
villino, con tanta flemma che Teresina ne sentì un freddo. «Scusi» diss'ella
«se mi sono permessa...»
Donna Fedele capì, e, uscita da quell'apparente apatia che in
fatto era un dilungarsi di pensiero in pensiero dal senso delle persone e delle
cose presenti, abbondò di parole buone, senza entrare in alcun commento
dell'incidente. Chiese poi del padre di Lelia. Appena uditone il nome, Teresina
esclamò:
«Gesù, che mi dimenticavo!» Aveva un peso sul cuore per causa di
quel brutto uomo. Prima di partire col fattore egli l'aveva presa a parte, le
aveva domandato, con un risolino mezzo stupido mezzo malizioso, dei gioielli
della povera padrona. Ell'aveva risposto di non saperne niente. Figurarsi! In
quelle mani! Sapeva benissimo che c'erano molti anelli e braccialetti, un vezzo
di perle e zaffiri, un fiore di brillanti. Il povero padrone non aveva scrigno,
li teneva in camera da letto, in un segreto della scrivania.
«Sa perchè me ne ha domandato?» esclamò Teresina. «Lo giurerei;
perchè li ha già presi! Per un giorno intero non ha fatto che passar carte e
passar carte nello studio, avrà trovato qualche nota, qualche indicazione. Il
fatto è che stanotte l'ho udito andar in camera del povero padrone e non ne è
venuto fuori che dopo un gran pezzo. Giurerei che i gioielli della povera
signora sono in viaggio, adesso. E me li domanda a me! Capisce il pensiero che
ho io, le accuse che quell'uomo è capace d'inventare!»
Donna Fedele cercò di rassicurarla e, congedatala, andò a riposare
perchè non poteva più reggersi. La quiete benefica del corpo le acuì le
inquietudini dell'animo. Quel benedetto Alberti, pensava, se fosse qui, ora!
Altro che amore, altro che passione! E lui fa l'orgoglioso! E magari sarà
capace di fare l'orgogliosa lei, se quest'altro piega!
Vedeva dalla sua finestra l'aperto levante, il grande arco di
cielo fra le due ali di montagne distese al piano. Il suo sguardo passava sopra
il cimitero di San Giorgio. Amara cosa, pensare la Montanina in mano di
quell'uomo che fruga, che ruba, che infetta, e lui, il suo povero vecchio
amico, impotente a tutto, escluso da tutto, buttato là in un angolo, per
sempre. Interrogò la propria fede per potersi dire ch'egli stava in pace, che
vedeva l'ordine di tutte le cose, diretto a un Bene finale ed eterno attraverso
mali di ogni specie. Ma la sua fede aveva momenti paurosi di eclissi, ella
temette di sentirne venire uno e non volle più pensare al cimitero di San
Giorgio. Ripensò invece un'idea venutale la notte, nel suo letto insonne: chiedere
al padre di Lelia il permesso di portarsi la ragazza in Piemonte, allontanarle,
così, almeno per qualche tempo, l'incubo della convivenza con lui.
Respirerebbe, intanto; e poi potevano succedere tante cose. Sì, appena colui
ritornasse, andrebbe a parlargli. Non pensò più a niente, chiuse gli occhi,
sperando poter dormire.
III
Dormiva infatti
quando, mezz'ora dopo, venne la cameriera per annunciarle ch'era servito il
pranzo. Domandò se la signorina Lelia fosse stata avvertita. La signorina stava
già abbasso. Donna Fedele fu tentata di non scendere, tanto si sentiva ancora
spossata e tanto le ripugnava di prender cibo. Fece uno sforzo e discese. Il
pranzo era apparecchiato nella veranda, sulla fronte del villino. Lelia pareva
tanto serena che donna Fedele, consolata, le parlò della visita di Massimo,
delle notizie di don Aurelio. E si aperse, parlando di don Aurelio, sulle sue
necessità spirituali, disse quanto sentiva la mancanza di quella parola savia e
mansueta.
«Perchè sono cattiva, sai» diss'ella, «avrei bisogno di essere più
mite, più caritatevole verso i preti che non somigliano a lui.»
Lelia lasciò cadere il discorso. Parlò, invece, del piccolo
cimitero, dove non era stata mai. Aveva pensato di recarvisi l'indomani
mattina. Sperava che ci potesse venire anche l'amica. Porterebbero con sè delle
rose, tante rose. Avrebbe desiderato delle rose bianche ma in quel momento il
villino dal nome grazioso non aveva che poche rose rosse. Parlarono di rose.
Donna Fedele non era contenta delle sue. Le pareva che il villino meritasse
allora di venir chiamato dalle spine. Bisognava mettervi molti rosai di più. Il
villino doveva parere posato sopra un canestro di rose, esser fasciato di rose
fino al tetto.
«Faremo una corsa a Milano» diss'ella, «andremo da tutti quei
floricultori, sceglieremo il buono e il meglio. Vuoi?»
Lelia parve contenta, disse di confidare che suo padre le ne
avrebbe dato il permesso. Tanta mansuetudine fece stupire donna Fedele.
«Avrei anche necessità» diss'ella «di vedere certi miei affari in Piemonte.
Vuoi che gli domandiamo di lasciarti venire in Piemonte con me per tre o
quattro settimane?»
Lelia rispose di sì, aspettò che la cameriera se ne andasse dopo
aver servito il caffè, prese a giocherellare col cucchiaino, disse sorridendo
di un sorriso livido:
«Adesso che tutto è finito, posso sapere se proprio non era
combinato che quel signore venisse alla Montanina?»
Donna Fedele trasalì alzando le sopracciglia, offesa da quel
dubbio sulla sua sincerità.
«Adesso che tutto è finito» rispose vibrata, «ti assicuro che non
mento mai e che non era combinato niente! Quando Alberti è venuto pensava a
sposar te come io penso a sposare Carnesecca.»
Lelia rise forte, d'un riso forzato.
«Come Le viene in mente Carnesecca?» diss'ella.
«Perchè lo vedo!» rispose donna Fedele. «Eccolo là ch'è venuto dal
cancelletto piccolo, dimenticato aperto dal signor custode, come il solito.»
Lelia si guardò alle spalle. Infatti l'amico Carnesecca, più
scarno e giallo che mai, avanzava a passi lenti, col cappello in mano, verso la
veranda. Giunto agli scalini si fermò malgrado il sorriso incoraggiante di
donna Fedele.
«Avanti, Carnesecca!» disse questa e si affrettò a correggersi:
«Oh scusi scusi! Ismaele!».
«Ma di che mai si scusa, Dama bianca delle Rose?» fece il
venditore di Bibbie. «Ma di che mai? Mi hanno posto un nome di scherno perchè
predico Gesù e i migliori servi di Gesù. Così mi hanno assicurato un piccolo
posto tra i beati. Beati
estis cum dixerint omne malum. Io mi glorio di quel
nome!»
Donna Fedele protestò che non aveva voluto schernirlo lo invitò a
salire e sedere, gli fece portare il caffè. Poi gli domandò come mai fosse
ritornato in quei paesi tanto infausti per lui. Rispose che andava a Laghi,
disposto a subirvi da capo il martirio giù subito a Posina.
«A questa stagione» disse donna Fedele con molta gravità,
«probabilmente, patate.»
«Magari!» rispose colui. «Ma se a Laghi vi è un Caifasso simile a
quello di Velo, ho paura che saranno "pere" come dicono nel Suo paese
di Piemonte.»
«Dica; mi pare che dovrei forse, in coscienza, gettargliene una
anch'io!»
A questa uscita, fra seria e scherzosa, di donna Fedele,
Carnesecca alzò le braccia al cielo, mostrando per alquante scuciture il bigio
di una camicia poco pulita.
«No, Dama bianca delle Rose. Ella non mi deve gettare il menomo
sassolino. Io non offro Bibbie a Lei perchè Lei ne ha già una, io ne sono
certo. Io non cerco che Lei si faccia protestante, perchè Lei è una cattolica
veramente cristiana. Io sono venuto questa sera per ringraziarla ancora della
carità che mi ha fatto accogliendomi sotto il Suo tetto.»
Donna Fedele gli domandò se intendesse andare a Laghi quella sera
stessa. No, era stanco. Veniva da Vicenza, aveva camminato sette ore. Donna
Fedele lo compianse molto ma gli tolse una cara illusione. Se lo aveva ospitato
colle ossa rotte, non intendeva però di ospitarlo quando si disponeva a farsele
rompere ancora. Egli parlò, rassegnato, di una vaga speranza, per la prossima
notte, nel fienile della Montanina. Non sapeva della morte del signor Marcello
nè conosceva Lelia. Questa restò muta e impassibile mentre l'amica gli dava,
quasi esitando, quasi sottovoce, la lugubre notizia. Carnesecca ne rimase
interdetto, e, preso congedo, se ne andò senza dire se avesse cambiato idea,
per la notte, o no.
Le due signore scesero a un angolo del giardino, dov'erano
disposte delle sedie.
«Dama bianca delle Rose» disse Lelia. «Un bel nome!»
«Troppo bello, per me» osservò donna Fedele, «ma Carnesecca
farebbe certo meglio a inventar nomi che a predicare Lutero o Calvino o non so
chi.»
Lelia le domandò distrattamente chi fosse quest'uomo e come avesse
abbracciato il protestantesimo. Donna Fedele le ne fece la biografia. Andò
molto per le lunghe, e si accorse assai tardi che Lelia non l'ascoltava più.
Lelia fissava una sedia vuota. Donna Fedele tacque e l'altra continuò a fissare
la sedia vuota. Benchè fossero quasi le nove, benchè il cielo si andasse
annuvolando, su quel piano del giardino, alto, scoperto, bianco di ghiaia,
faceva ancora chiaro. Lelia si accorse alla sua volta che donna Fedele la
osservava. Cessò di guardare la sedia ma non ruppe il silenzio. Cominciò a
cadere qualche gocciolina e donna Fedele propose di rientrare. Vista la
cameriera che sparecchiava, le ordinò di mandare il custode a chiuder bene il
cancelletto per il quale era entrato e uscito Carnesecca. Lelia si affrettò a
dire che desiderava fare due passi e che andava lei.
Il custode stava per coricarsi quando ella entrò nella casina
attigua al cancello grande. Fu ricevuta da sua moglie, chiese di vederne un bambino
ammalato, s'informò di tante cose, a proposito di questo bambino, con tanto
affettuosa premura che la donna ne fu intenerita. Rimase forse dieci minuti e
ritornò al villino senz'avere parlato del cancello. Entrò nel salotto, al buio,
udì la voce di donna Fedele: «Hai mandato?». Rispose franca: «Sì».
Donna Fedele la pregò di suonarle qualche cosa. Così al buio? Sì,
così al buio. Il vecchio piano del villino dormiva in pace da molti mesi,
perchè la sua padrona, discreta musicista in gioventù, aveva abbandonato
l'arte, non lo toccava più che qualche rara volta, per divertire dei bambini.
Lelia suonò una composizione del povero signor Marcello, l'unica sua, una
barcarola scritta trent'anni addietro. Terminato che ebbe il pezzo, aspettò in
silenzio una parola dell'amica, una domanda di altra musica. L'amica non parlò.
Non parlarono che il tic-tac frettoloso di un orologio a sveglia e, dalla
finestra aperta di ponente, un lieve mormorio di pioggia sulla ghiaia.
«La conosce, vero, questa musica?» disse Lelia.
La dolce voce rispose piano, dall'ombra:
«Oh sì.»
Quel piano, dolce «oh sì» disse alla fanciulla tante cose già
vagamente da lei pensate. Si alzò dal piano, andò verso l'angolo del salotto
ond'era venuta la voce, si chinò su donna Fedele, le cercò le mani e senza
proferir parole, gliele baciò, una dopo l'altra. Donna Fedele si concedette
dolcemente a quei baci che dicevano: «Son donna e ti ho intesa». Avevano anche
un secondo significato, ancora segreto.
«Non suoni più?» mormorò donna Fedele, subito. Era stata contenta
dei baci; avrebbe avuto orrore di una parola. Lelia non rispose. Le teneva
sempre le mani, le stringeva.
«Vuoi che andiamo a letto?» riprese la prima. Allora Lelia lasciò
andare le mani. «Lei» rispose, «deve andare a letto. Io, se permette, resto un
poco a suonare.» E accese la luce. Donna Fedele si alzò dalla sua poltrona,
sorridendo. «Brava!» diss'ella. L'abbracciò e, suonato per la cameriera, si
ritirò.
Lelia attese immobile, in piedi, che si perdesse sulla scala il
rumore dei passi. Poi si mise al piano, suonò a caso, come le mani andavano,
fino a che la cameriera ritornò e si accinse a chiudere l'uscio pesante, a due
battenti, che si apre sulla veranda. Lelia la pregò di lasciarlo aperto.
Chiuderebbe lei. Prima, forse, uscirebbe un poco a pigliare il fresco.
«Piove, signorina» disse la cameriera, «e adesso si leva anche il
vento.» Poichè Lelia riprese a suonare senza darle risposta, la donna stette un
momento incerta e poi pensò bene di andarsene lasciando aperto. Lelia
s'interruppe, tese l'orecchio, la udì salir le scale, camminare al piano
superiore. Si alzò, andò ad assicurarsi che avesse lasciato aperto, si fermò un
momento a guardar nella notte, colle mani ai due battenti. Non c'era, quasi,
vento, ma pioveva forte, le tenebre erano nere. Ritornò al piano, si chiuse il
viso nelle mani, come cercandosi nella memoria, pensando cosa dovesse suonare.
Le mani le discesero sui tasti a un accordo, vi rimasero affondate,
piegandovisi su il viso cogli occhi fissi. Si alzò da capo, andò da capo a guardare
nelle tenebre mormoranti, vi si trattenne a lungo, a lungo. Accostò i due
battenti, tirò i chiavistelli rumorosamente, chiudendo e riaprendo. Spense la
luce e salì nella sua camera, posta in un angolo dell'ultimo piano. L'unica
finestra, nella parete di mezzogiorno, guardava il piano di Arsiero, la Priaforà e la Montanina. Era
aperta. Là in faccia, fra il piano di Arsiero e la Priaforà, correva,
invisibile, il Posina. Lelia stette in ascolto. No, la voce del fiume non si
udiva. Ebbe la visione del ponte che lo cavalca, delle acque rumoreggianti in
profondo per la ghiaia biancastra, della roggia che corre a fianco di esse più
alta, e poi gira, ombrata da robinie, verso settentrione, silenziosa e rapida.
Una folata di vento le soffiò la pioggia in viso. Chiuse in fretta la finestra
e poi sorrise di se stessa, di avere temuto uno spruzzo d'acqua. Guardò
l'orologio. Erano le dieci e mezzo. Mancavano due ore all'ora in cui aveva
stabilito di uscire per andare a gittarsi dal ponte nella roggia silenziosa e rapida.
Sedette al tavolino, sotto la luce, colla persuasione che fosse
conveniente di scrivere due parole. Scrisse:
«Cara amica, vado a morire non so perchè, ma so ancor meno perchè
dovrei vivere.»
E adesso? Chieder perdono? Di che? E se non era per chieder
perdono, a che scrivere? Per un saluto? Donna Fedele ricorderebbe i suoi ultimi
baci. Neppure le venivano in mente parole opportune, non era più nel suo
interno che duro gelo di volontà, tesa per l'azione. Lacerò lo scritto, si alzò
dal tavolino e cambiò vestito. Quello che indossava, di stretto lutto, glielo
aveva prestato donna Fedele. Mise il vestito grigio che aveva messo per venire
al villino. Prese quindi la borsetta di rete di argento, regalo del povero
Andrea, dove teneva pochi altri ricordi di lui. Nella rete era inserta una
piccola piastra col nome incisovi: Leila. Gli occhi le caddero sulla piccola
piastra, sul nome che le ricordava una disputa. Depose e riprese la borsetta
più volte, incerta se lasciarla o portarla con sè. Un impulso interno la
costrinse a lasciarla. E in quello istesso istante tutto il gelo del cuore le
si fuse in una subita tempesta di desiderio. Tornò ad aprire la finestra,
disfrenò il desiderio, gittò l'anima là, là, dovunque egli fosse: ti amo, ti
amo, mi dono, prendimi, prendimi intera prima che io vada a morire, baciami,
baciami, fammi male con i tuoi baci! Aperse e distese le braccia, si torse
tutta in uno spasimo. Si raccolse e calcò un braccio sulla bocca, lo morse
ansando, vi tenne i denti fino a che non le si chetò il batter violento del
cuore e delle arterie. L'orologio di Arsiero suonò le undici. Tolse dalla
borsetta di argento una fotografia del povero Andrea, vi scrisse sotto:
4 luglio... Vengo.
La posò sul tavolino, presso il calamaio, per modo che fosse
veduta subito. E risolse, per un altro impulso opposto al primo, di prendere la
borsetta con sè. Si lavò accuratamente col sapone una piccola macchia
d'inchiostro che si era fatta sull'indice. Poi, guardatasi attorno col pensiero
di lasciare ogni cosa in ordine, levò dal tavolino da notte il Journal
d'Eugénie de Guérin, datole a leggere da donna Fedele e lo posò sul
cassettone, pensando che il lasciarlo sul tavolino da notte fosse un atto
d'ipocrisia. Sentiva di non avere niente di comune con Eugénie de Guérin. Posando
il libro sul cassettone, pensò quale orrore avrebbe provato la Guérin, in quel
momento, di lei e quanto invece fosse lontano da lei ogni turbamento di
carattere religioso, quanto le fossero indifferenti le proibizioni del Dio dei
preti. Ebbe uno slancio di preghiera grata e dolce verso un Ignoto col quale si
sentiva in pace. Guardò l'orologio. Non erano che le undici e un quarto. Ma chi
poteva andare attorno in quella notte piovosa, tenebrosa? Incontri non erano a
temere, decise di non aspettare più oltre. Tagliò il cordoncino di una tenda
per toglierne con sè un pezzo da legarsene, prima del salto, le sottane che non
le si rovesciassero così da scoprire le gambe. Mise le soprascarpe di gomma,
per non far rumore scendendo le scale. Spense la luce e uscì.
Attraversò pian piano, al buio, una stanza vuota, tremando di fare
scricchiolare l'impiantito di legno ed essere udita dalla cameriera o dalla
cuoca, le camere delle quali mettevano, come la sua, in quella stanza vuota.
Giunta sulla scala si sentì più tranquilla. Nel discendere, colla visione ai
suoi piedi della roggia profonda e delle robinie verdi-chiare che vi sporgono
sopra da sinistra, le vennero in mente certi grossi pali neri, vedutivi nel
ritorno dalla Montanina. Erano piantati nella roggia o fuori? Non sapeva più.
Se cadesse dal parapetto del ponte, a perpendicolo, nella roggia, batterebbe
probabilmente sui pali, e vi si sfracellerebbe. Non voleva morire così
scomposta. Bisognava dunque saltar lontano, il più possibile. Le passò un
brivido nella persona. E riprese a discendere. Giunta in fondo, si arrestò
ancora. Aveva dimenticato di distruggere o di portare con sè i pezzi dello
scritto stracciato. Risalire a prenderli? Si strinse nelle spalle, attraversò
il salotto ascoltando i battiti precipitosi dell'orologio nelle tenebre,
regolandosi da quelli nel movere verso la veranda. Aperse adagio adagio i
battenti accostati, uscì rapidamente. Fatti due passi, si gittò di slancio a
sinistra, rovesciando sedie, perchè una forma umana era balzata in piedi davanti
a lei. Non gridò, saltò sugli scalini che scendono al giardino, disparve.
Intanto donna Fedele, che aveva le finestre aperte, secondo la sua abitudine,
udito il rumore delle sedie rovesciate, chiamò: «Chi è?». Rispose la voce di
Carnesecca: «Una donna! È uscita una donna!» — «Che donna?... Dov'è?» gridò
ancora donna Fedele, angosciata, dalla finestra. «Non so! È fuggita! È
sparita!» — «La insegua! È sonnambula!»
Carnesecca sparve di corsa, nel buio, verso il cancello piccolo.
Mortale silenzio. Un grido! Donna Fedele, ravvolta in un accappatoio, scendeva
già gli scalini della veranda, avendo intuita la cosa terribile. Udì la voce di
Carnesecca, blanda, carezzevole: «Si svegli, signora! Si svegli, signora!». Ah,
era salva! Le mancarono le forze, cadde a sedere sull'ultimo scalino, nella
pioggia. Lelia, raggiunta sul pendio erboso imminente al cancelletto, aveva
gridato nel sentirsi afferrare ed era caduta come morta.
«Fortuna, signora» disse Carnesecca riportando in casa la svenuta
coll'aiuto della cameriera e della cuoca, «che non ho trovato da mettermi al
coperto in nessun luogo e che allora mi sono permesso di venir a passare la
notte sulla Sua terrazza! Altrimenti poteva andarsi a rovinare, questa creatura
del Signore, se è sonnambula!»
«Sì sì, fortuna!» disse donna Fedele, ancora tutta tremante. La
cameriera e la cuoca ripetevano sottovoce:
«Gesusmaria Signore, Gesusmaria Signore!»
|