IN GIUOCO.
I
L'amico Molesin non
credette sillaba del racconto che gli fece Momi; nè che non avesse veduta la
figliuola nè altro. Tuttavia il buon dottore mostrò di abbrancare e di tenere
lietamente saldi i due infiniti: aspettare, sperare. Non c'era dubbio, non
c'era dubbio, le cose si accomoderebbero. A colazione mangiò poco, allegando
ch'era troppo tardi, che l'appetito gli era passato. Però si mostrò assai di
buon umore, parlò del paesaggio e del «Cason» con qualche maggiore benevolenza,
riferì il discorso fatto in canonica sull'ufficio funebre, persuase, molto
facilmente, Momi a mandar subito un rigo pregando che l'ufficio si celebrasse
nel più breve termine possibile. Espresse bonariamente la cortese intenzione di
assistervi, se per questo non dovesse rimanere che due giorni e se la sua
prolungata dimora non riescisse d'incomodo. Il luogo gli veniva piacendo ed
egli stesso aveva tanto bisogno, povero dottore, di riposo. Il sior Momi fece
«figurarse, figurarse!» ma battè molto le palpebre. Dopo colazione Molesin
volle fare due passi, salire coll'amico il sentiero ombreggiato dai castagni.
Sedette sulla prima panca che trovò e vi fece sedere Momi con piglio solenne:
«Oh, qua.»
Lasciati passare pochi momenti, rese finalmente omaggio alla
bellezza della natura:
«Belo belo belo belo.»
E tirò su Momi a bruciapelo:
«La senta, Momi. Femo un afare.»
Il sior Momi rispose coll'aria sua più stupida:
«Ah? Cossa Ca senta? Un afare?»
Raccapezzatosi mentre tirava in lungo queste esplosioni, capì che
Molesin intendeva proporgli una cifra per il famoso accomodamento e si armò.
«Adesso» riprese il dottore parlando l'italiano, venetamente
rammollito, delle grandi occasioni, «Ella, signor Momi egrejo, è padre e
padrone, diremo così, di una bella sostanza. Di un sostanzone, diremo così.»
«Aho aho!» fece il sior Momi, con un ineffabile accento ironico.
L'altro continuò imperterrito:
«Adesso, per avere la
Sua pace in perpetuo, anche quella della coscienza, Ella
potrebbe dare il cento per cento.»
«O'l d'un!» esclamò Camin, con un'altra risatina grottesca.
«Cossa gàla?» fece Molesin, ricascando per un momento nel
dialetto. «Non la xe cussì? Ma via? Voglio esserle amico. M'impegno di far
accettare ai miei clienti il settantacinque per cento.»
Il sior Momi non seppe tenersi dall'esclamare:
«Brao putèlo!» Bravo ragazzo! Tributata questa lode al candore
infantile dell'amico, il sior Momi si colorò per la prima volta nel viso e
nell'eloquenza. Non pareva più il sior Momi. Due roselline infuocate gli
spuntarono sugli zigomi gialli. Aggrottò le ciglia. Il capo gli sussultava,
parlando, sul collo, quanto glielo potevano consentire quelle vertebre lignee,
tutte d'un pezzo; e gli fluiva di bocca, a scatti gorgoglianti, come l'acqua da
una bottiglia capovolta, la parlantina rapida, non interrotta da un solo — aho
—, o piuttosto, se si vuole, simile a un impetuoso fiume di aho aho, che
travolgesse rottami di consonanti. Gli si domandava il settantacinque per cento
quando egli non poteva più dare nemmeno il venti offerto una volta. Si
meravigliava che Molesin non lo capisse. Egli aveva offerto il venti quando si
poteva ritenere che sua figlia, diventata erede di una buona sostanza, avrebbe
fatto dei sacrifici per il padre. Qualcuno glieli avrebbe prestati, allora, i
denari per dare il venti. Ma ora che la ragazza si mostrava come si mostrava,
ostilissima al padre, renitente persino a convivere con lui, ora gli si
domandava il settantacinque! Aveva offerto il venti appunto perchè sapeva di
non poter fare grande assegnamento sull'aiuto di una ragazza bizzarra che non
gli aveva mai mostrato il menomo affetto. E n'era venuta la prova. Grande
assegnamento? Nessun assegnamento! E dove li pigliava i quattrini, per dare il
venti? Doveva rubare, dunque? Rubare alla propria figlia? Aveva un conforto,
sì, quello di potersi mostrare, alla prova, galantuomo, contro le calunnie di
certa gente. E un altro conforto, aveva. Lo ammetteva volentieri; non gli
sarebbe mancato un pane, perchè sua figlia, lo desiderasse o no, era in obbligo
di fornirglielo, per legge.
«Basta basta basta» fece Molesin. Si alzò e passò dal Lei al Voi,
stroncando anche all'amico il falso da del cognome.
«Sentì, Camin. Intanto ve
aviso che go a casa tuti i numeri de le cartele de rendita che gavea sto sior
qua.»
Il sior Momi esclamò che non gliene importava e offerse il cinque.
«Basta, basta, basta!»
Molesin si avviò per la discesa. Fatti due passi si fermò in
isbieco puntando il bastone a terra e guardandosi alle spalle colla coda
dell'occhio.
«Femo el settanta» diss'egli.
«Femo el sette» disse
Camin.
La conversazione, per quel momento, finì. Nel cervello del sior
Momi spuntò la speranza che, modificando i suoi piani, Molesin levasse il campo
quella sera stessa. Scesero ambedue in silenzio dai castagni fino alla piccola
custodia che copre la sorgente della Riderella.
«Cossa xe quel maledeto baùl?» chiese Molesin con un viso ed un
accento di burbero benefico, che fecero subito comprendere al sior Momi come
l'avversario, invece di levare il campo, meditasse altre mosse. Avuta la
risposta, l'eccellente dottore dichiarò che quell'acqua gli era piaciuta e che
intendeva, nel suo breve soggiorno, farne una cura. Il sior Momi non disse
niente e battè molto le palpebre mentre la Riderella rideva piano giù fra i sassi e l'erba.
II
Verso le cinque,
Molesin ricevette un biglietto di don Tita. L'arciprete lo pregava di recarsi
alla canonica. Molesin vi andò subito e vi fu ricevuto da don Emanuele.
L'arciprete era partito per Seghe lasciando libero il campo al suo cappellano,
il quale desiderava questo colloquio e non aveva voluto chiederlo direttamente
per non mettere sè avanti all'arciprete in un argomento d'interesse spirituale.
Gli doleva che il Superiore non avesse fatto valere abbastanza, parlando con
Molesin, la necessità morale di strappare a ogni costo la signorina Camin alla
influenza funesta della Vayla. L'animo del giovine prete era pieno di livore
verso donna Fedele; di un livore ch'egli giustificava nella propria coscienza
col cambiargli nome, col chiamarlo zelo sacerdotale, doveroso zelo contro una
persona della quale si conoscevano biasimevoli indipendenze, in materia
religiosa e morale, dall'Autorità ecclesiastica, che aveva permesso un ballo di
contadini nel suo giardino, che si arrogava di leggere e spiegare il Vangelo ai
suoi dipendenti, che si era legata di tanta amicizia con un prete sospetto come
don Aurelio, che proteggeva un modernista facinoroso come il giovine Alberti.
Se una punta del compresso rancore personale gli scattava su a bucare queste
sante fasciature, don Emanuele si sforzava sinceramente di ricacciarla sotto,
se ne assolveva pregando per l'eterna salute di quell'anima pericolante e
pericolosa quanto più pareva irreprensibile nella vita e nelle pratiche del
culto. Intendeva mettersi egli stesso all'impresa di strapparle quella giovine,
perchè l'arciprete era troppo molle, troppo bonario.
Quando la serva gli annunciò il signor dottor Molesin, don
Emanuele, che stava leggendo il breviario, ebbe la visione dell'incontro colla
Vayla in sagrestia, della scenata sulla strada di Mea, e si fece il segno della
croce per cacciare da sè ogni spirito vendicativo e disporsi a far del male per
la causa del bene. La compunzione interna, fredda e dura, gli si leggeva sulla
fronte, nei tristi occhi acquosi e persino nell'incedere tardo, composto,
dell'allampanata persona.
«Cossa vorla» pensò Molesin, «sta anima longa?» E gli fece un
profondo inchino cui l'anima lunga rispose con un piegar lieve del capo e un
gesto della mano, pieno di degnazione prelatizia. Molesin gli domandò subito,
ossequiosamente, dell'arciprete, soggiungendo qualche parola di compiacenza
commossa per la sua prossima esaltazione nella Chiesa. Don Emanuele non
incontrò affatto il discorso dell'esaltazione, scusò il Superiore assente, si
disse incaricato di rappresentarlo. L'arciprete aveva intese con grande
compiacenza le buone intenzioni del signor da Camin verso la sua chiesa e i
suoi poveri. I bisogni dell'una e degli altri erano grandi ma l'arciprete si
rallegrava sopra tutto di queste inclinazioni pie del suo nuovo parrocchiano.
Egli avrebbe cercato di mostrargli la propria gratitudine nel modo più
conveniente per un sacerdote in generale e per un parroco in particolare,
aiutandolo nelle sue difficoltà domestiche, interponendosi fra il genitore e la
figlia perchè avessero pace fra loro, con grande vantaggio dei loro interessi
temporali ed eterni.
Fin qui il buon dottore Molesin, seduto in faccia al cappellano
colle gambe aperte e le mani spiegate sulle ginocchia, non aveva fatto che
alzare e abbassare, come un orso bianco, il capo curvo al pavimento, ora con un
semplice moto di ripetuto assenso, ora collo stesso moto complicato di
dimenamenti a destra e a sinistra, che significavano un soprappiù, uno
sdilinquimento di approvazione. Ma, udite appena le prime parole della seconda
parte del discorso, il capo curvo cessò di frugar l'aria.
Don Emanuele si vedeva costretto a toccare un argomento delicato.
Nè l'arciprete nè egli stesso potevano far niente per la pace domestica del
signor da Camin, se non si toglieva di mezzo uno scandalo. Lo capiva il signor
Molesin? Molesin che non si dimenava più ma configgeva tuttavia gli occhi, fra
le gambe divaricate, nelle commessure dei mattoni, si eresse di scatto, si
portò sulla bocca una mano spiegata, se ne compresse le mascelle, ficcò lo
sguardo in un angolo della camera, aggrottò le ciglia e si tenne immobile,
nello sforzo di capire. Pareva cercare il senso di un vocabolo babilonese o il
nome di un bisavolo di Antenore.
«No» diss'egli, levando gli occhi attoniti a don Emanuele. «Non
capisco.»
Don Emanuele li fissò alla sua volta, quegli occhi attoniti, e
Molesin li strinse, li strinse, per istinto, perchè l'indagatore sguardo
acquoso non gli penetrasse oltre il primo velo dell'anima cipollinea. E ripetè:
«No, La scusi, no. Insomma, no».
«Quella disgraziata creatura» suggerì lento lento, quasi
sottovoce, don Emanuele, «che oggi si trova, credo, anche lei alla
Montanina...»
«Ah! - Sì!» masticò Molesin. «Sì! Capisco! Lei vuol dire la
governante. Sarebbe meglio che partisse. Sì, capisco. La sua presenza potrebbe
guastare la pace fra genitore e figlia. La figlia potrebbe credere, dirò così,
anche lei, eccetera eccetera. Momi la mandi via, dice Lei. Benissimo. La
manderà via. Rispondo io. Quantunque, in verità, non credo...»
«E presto» interruppe don Emanuele.
Molesin fece un inchino di acquiescenza, in silenzio. Allora don
Emanuele, con un gesto da persona attempata, com'erano tutti i suoi gesti,
scarsi e misurati, si appuntò al viso le cinque dita raccolte della mano
sinistra e le considerò attentamente.
«Partita la disgraziata» diss'egli, «è necessario che entri subito
la figlia.»
Sciolto il fascio acuto delle cinque dita, guardò Molesin con una
profonda tristezza negli occhi acquosi. Si fece quindi puntello di una mano
alla gota, reggendosi il cubito coll'altra mano e scosse desolatamente il viso
senza più guardare il suo interlocutore, tutto contrito di riverbero.
«Questa figliuola nelle mani di quella signora» diss'egli, «ecco
la grande spina dell'arciprete. E l'arciprete non sa quello che io so.»
Neppure Molesin sapeva; ma intanto, ad ogni buon conto, dedicò un
sospiro alla spina dell'arciprete. E il sospirone fu tanto profondo da far
alzare un momento gli occhi acquosi. Si abbassarono. Don Emanuele ritornò sulle
ignoranze del principale. L'arciprete ignorava che quella povera figliuola,
nell'ambiente di casa Vayla, era giunta a meditare un delitto orribile.
«Gesummaria, volevela copar Momi?» pensò Molesin esterrefatto all'idea che il
sior Momi gli scomparisse di fra le unghie. Don Emanuele non si spiegò di più,
quanto al delitto. Deplorò invece diffusamente i tossici vapori dell'atmosfera
Vayla. La ragazza, stata sua penitente, era buona e religiosa. Poteva sperarsi
da lei una forte reazione, una di quelle reazioni che portano interamente a Dio
le anime ferite dal mondo. Ma era necessario di coltivarla. Ciò non era
possibile in casa Vayla. Occorreva l'intervento del padre che, usando dei suoi
sacri diritti, la riprendesse colla forza della legge se altrimenti non poteva.
Secondo don Emanuele la renitenza della ragazza era frutto dei suggerimenti di
donna Fedele.
Ritornata a casa, sempre dopo uscitane l'altra persona, la ragazza
cambierebbe. L'arciprete, egli stesso, la cognata dell'arciprete, persona di
gran pietà, porrebbero tutto in opera per coltivare il germe di santificazione,
latente in quell'anima. Era un'anima desiderosa di staccarsi dal mondo,
un'anima indifferente alla ricchezza.
«Creda creda che quella figliuola abbandonerebbe tutto il suo al
padre senza l'ombra di un rimpianto.»
Il cappellano volle che queste parole s'imprimessero bene nel
cervello di Molesin. Molesin non lo lasciò quasi finire, si affrettò a parlare
dell'interesse spirituale in questione, come se l'altro non fosse affar suo.
Ricordò un'antica prozia monaca del sior Momi e, inarcando le sopracciglia col
senso filosofico-religioso dei grandi ricorsi storici e delle arcane leggi
provvidenziali, diede del trombone nel fazzoletto turchino, in segno di essere
pronto a marciare.
III
Durante il
desinare, servito in gran ritardo, il sior Momi espresse a Molesin la cortese
intenzione d'invitargli a pranzo per l'indomani il suo amico arciprete. Molesin
ringraziò, ma certa esitazione e certa fiacchezza nell'accento rivelarono le
sue angustie. Egli aveva appreso dalla cuoca la causa molto spiacevole del gran
ritardo: una scena fra la
Gorlago e Teresina a proposito di certo bicchiere di marsala
che quest'ultima aveva consegnato alla cuoca per i suoi lavori e che la
governante del sior Momi, fatta una scorreria in cucina, si era tracannato per
metà. Teresina si era licenziata e le preghiere del sior Momi non avevano
potuto rimuoverla dal fiero proposito.
Teresina che parte e la
Gorlago che trionfa: belle disposizioni, pensò Molesin, per
invitare l'arciprete! Dopo pranzo il sior Momi, passando nel salone, propose
una partita a foracio. Gli occorreva blandire, non potendo sopprimerlo,
un avversario capace di macchinazioni diaboliche, di spingere i preti di Velo a
influire sulla ragazza in un modo sinistro per lui. Molesin non conosceva il foracio,
non giuocava che il tresette e il terziglio. Entrò Giovanni collo scalone per
accendere le lampade.
«Lassè star quela maledeta scala!» esclamò il sior Checco, da
burbero malefico, stavolta.
«Basta un lumeto, un lumeto da ogio, a mi me piase i lumi da
ogio.» Non c'erano «lumeti» in casa. Furono portate due candele. Il sior Momi
chiese con un timido — aho — se l'amico fosse disposto a un terziglio.
Il terziglio si giuoca in tre e l'amico, sbalordito, fece:
«Ohe?»
Altro timido — aho —. C'era in casa chi conosceva il giuoco.
«Ah no!» sbuffò Molesin perdendo le staffe. «Ah no! Ah no! Ah
corpo de sbrio baco po no! Ah bustegada! Ah grazie!» Soffiò rabbiosamente sopra
una delle candele. «Ciapè quel lume!» diss'egli. Il sior Momi ebbe un bel
ribattere: «Cossa cossa cossa?». L'altro non cessò d'intimargli: «Ciapè quel
lume!» fino a che il sior Momi, borbottando «ben ben ben», prese la candela
accesa. Avrebbe voluto metter fuori un pacifico — aho —, ma non osò. E poi non
capiva.
«E adesso?» diss'egli, guardando Molesin colla candela in mano.
«Adesso andemo in studio»
Il salone
restò buio e silenzioso. Un fioco lume di luna illuminava, in alto, la galleria
cui mettono capo le due scale. Teresina, affaccendata a raccogliere le sue robe
per partire l'indomani, vi passò un momento col lume, si fermò a guardar giù
nell'ombra, pensò al padrone di prima, al padrone di adesso, scappò via cogli
occhi grossi di lagrime, sentendo nelle pareti, nei mobili, nel pavimento,
nell'ombra che si apriva e si chiudeva intorno al picciol lume, la stessa
tristezza mortale che nel suo cuore. Passarono uno, due, tre quarti d'ora.
Passò un'ora. Il salone era tuttavia vuoto e muto. Vi entrò Giovanni con un
biglietto mandato dall'arciprete. Trovando buio, esitò. Uscì nella veranda
aperta. Nessuno. Fossero fuori? Fatti pochi passi fuori, si avvide della luce
che usciva dalle finestre dello studio. Ritornò in casa, entrò nella stanza del
biliardo, udì la voce di Molesin che parlava basso ma vibrato. Bussò pian piano
all'uscio dello studio. Aperse Molesin, irritato.
«Cossa ghe xe? Cossa volèu? No se pole! Andè! Andè!» Giovanni
consegnò il biglietto e si ritirò mogio mogio. Non domandò se ci fosse
risposta. Aveva saputo dal messo che il biglietto annunciava l'ufficio funebre
del signor Marcello per il prossimo lunedì. Andò in cucina a raccontare del
colloquio segreto fra il padrone e Molesin. La Gorlago che gli aveva già
posti gli occhi cupidi addosso, udito da lui di questo colloquio misterioso, lo
prese arditamente per mano, gli disse di condurla a origliare. Perchè il
giovine si mostrava onestamente ritroso, gli domandò con un sorriso equivoco:
«El gà paura del scür?». Giovanni resistette. Ella fece una spallata sprezzante
e andò sola. Quel brutto vecchio Molesin col quale aveva sprecato, nella sua
larga benignità, qualche smorfia, le era odioso. Sbagliò un uscio, urtò delle
sedie, ma giunse alla mèta.
Ella si era ordinato, prima di uscire della cucina, un caffè. Il
caffè era pronto da un pezzo e la
Gorlago non ricompariva. Giovanni andò a prenderne notizie.
Non ritornano nè Giovanni nè Gorlago. Finalmente Giovanni rientra di corsa fra
spaventato e ridente, annuncia che nello studio si fa un baccano d'inferno. C'è
la Gorlago
che strepita come una bestia. Pare che corrano anche dei pugni. Tutta la
compagnia, cuoca, custode, moglie del custode, Giovanni, si precipita allo
spettacolo. Entrano, in punta di piedi, nella sala del biliardo. Odono la Gorlago che strilla il
proprio panegirico: «L'a de savè che mi» questo e «che mi» quello, il sior Momi
che sbraita: «Zitto, tasì, andemo, basta!» Molesin che geme: «Ma sì, benedeta,
lo so, benedeta!». Giovanni scappa in giardino, spia dalla finestra, vede il
sior Momi in piedi fra il tavolo e la poltrona, che scuote le mani verso la Gorlago scongiurando, la Gorlago che avanza, coi
pugni sui fianchi e le spalle curve, contro Molesin come per divorarlo e
Molesin che indietreggia, più bianco della sua camicia, verso la camera da
letto del povero padrone. Giovanni lo vede già afferrare la maniglia dell'uscio
scappare per di là, capitare in salone. Scappa dentro anche lui, dà l'allarme
ai compagni che tempestano via in fuga, tutti in un gruppo, fino alla cucina. E
allora Giovanni, che in parte ha origliato in parte ha indovinato, se li
raccoglie attorno, spiega. La cosa è andata a questo modo. Quando la Gorlago ha messo
l'orecchio all'uscio dello studio, il padrone nuovo e il dottor Molesin stavano
parlando di lei. Il padrone nuovo ne faceva gli elogi. Si capisce che, dopo, il
dottor Molesin ne deve aver detto male. Allora lei dev'essere saltata dentro a
fare il diavolo. Giovanni, che si era allontanato mentre discorreva il padrone,
ritornando l'aveva udita gridare: «Mi? Mi? Mandamm via? Mandamm via mi?». A
questo punto del racconto di Giovanni, la voce di Molesin chiamò: «Ohe!
Qualchedun! Lume!». Il gruppo si sciolse, Giovanni andò cercando il dottore con
una candela, lo trovò in salone, stravolto, tremante. Brontolava: «Che
maledetta casa scura!». Ordinò a Giovanni di svegliarlo l'indomani mattina alle
cinque. E, presa la candela, salì le scale.
La Gorlago capitò in cucina, dura dura, scura scura, prese il suo caffè
senza dir verbo. Il sior Momi capitò in salone suonò, domandò del signor dottor
Molesin. Costui, che si era trattenuto nella galleria per spiare, se gli
riusciva, il padrone e la governante quando per avventura sbucassero insieme
dallo studio e cogliere qualche loro parola, si affacciò al salone fra una
colonnina e l'altra, buttò giù sul naso, levato all'aria, del sior Momi un
rabbioso:
«Son qua.»
«Persuasa» disse il sior Momi, a voce bassa.
Molesin lo guardò, lo guardò, brontolò ch'egli era persuaso, per
conto suo, di partire, l'indomani mattina, alle sei. Ritirò il capo di fra le
colonnine, vi ricomparve un momento dopo colla candela in mano.
«Buona notte» diss'egli.
Allora il sior Momi salì ad affrontarlo.
«No La crede? Persuasa. La va.»
Molesin rispose scuro e pesante come il piombo:
«Vedaremo.»
«La vedarà!» replicò il sior Momi. Allora il dottore ricordò un
altro impegno preso dal sior Momi prima che la furiosa Gorlago facesse
irruzione nello studio.
«E la tosa?»
Colla stessa tranquilla sicurezza colla quale aveva detto parlando
della Gorlago, «la va», il sior Momi rispose, parlando di sua figlia: «La
vien.»
E Molesin ripetè enfaticamente:
«Vedaremo.»
Il sior Momi prese un tono di familiarità affettuosa, allungò la
mano al braccio dell'amico, lo persuase con molli blandimenti di parole e con
frequenti «aho aho» a ridiscendere nel salone, gli propose di chiudere la
serata in pace al tavolino da giuoco. Poichè il dottore non conosceva il foracio,
si poteva fare un piccolo «tresette pizzeghin». Il «tresette pizzeghin» si
giuoca in due e prende il nome da ciò che ciascuno dei giuocatori, ad ogni
giuocata, pizzica e cava per sè, voltandola, una carta delle sedici che restano
in tavola coperte poichè le prime ventiquattro furono partite fra di essi per
metà. Giuocarono, Molesin facendo il cipiglio alle carte cattive che voltava,
il sior Momi facendo aho aho alle carte buone. Nessuno fiatò più dei grossi
«affari». E non pensavano, ambedue, che a quelli. Molesin dimenticava spesso di
pizzicare e di voltar le carte; il sior Momi non dimenticava mai. Infatti
Molesin, pensando che il suo avversario tirava senza dubbio a infinocchiarlo e
leggendogli nel viso come nei modi amabili una maligna fiducia di riuscire,
rivolgeva fra sè quali potessero essere le trappole nemiche e come gli
convenisse navigare per toccar la meta, costringere Momi a patti ragionevoli.
Procedeva nel pensiero verso questa meta, quale di notte procede per acque
infide una nave da guerra, che va lenta lenta, colle artiglierie pronte, e
saetta in giro le tenebre di occhiate elettriche. La Gorlago partirebbe; sì,
n'era persuaso. Partirebbe per finta; questo non importava, purchè partisse. Ma
la ragazza? Verrebbe? E poi, si farebbe monaca? Cederebbe, facendosi monaca,
tutto il suo al padre, come aveva insinuato don Emanuele? Questioni lontane,
pensò il dottor Sottile, e dubbie assai. Venga intanto, madamigella. Poi si
vedrà. Molesin non dimenticò più nè di pizzicare nè di voltare le carte.
Il sior Momi, dal canto suo, accordava il sorriso delle carte
buone, che veniva voltando, col sorriso d'interne visioni. Al convento per sua
figlia, fattogli balenare da Molesin sulla fede di don Emanuele, con una
relazione alquanto fantastica delle parole di costui, non aveva creduto nè
credeva. Giudicava che sua figlia fosse di temperamento amoroso. «Se sbaglio»
pensava egli pure, «si vedrà.» Intanto mostrerebbe di credere al giudizio del
cappellano, seconderebbe, con prudenza, l'azione dei preti. A richiamare la
ragazza non poteva sottrarsi. Se poi resistesse... si vedrà. La Gorlago se ne va
domattina, non a Cantù, come sarà detto, ma a Padova, colla chiave della casa e
della cantina con un buon gruzzoletto di quattrini; e vi conduce vita ritirata
fino a che le faccende si mettano in qualche modo chiaro. Questo è il patto
suggellato nello studio con un tenero abbraccio, dopo l'uscita di Molesin: una
canaglia da giuocare, ha detto Momi alla sua Moma, come la chiamava nelle ore
di effusione.
E si scrive alla figliuola che si è cambiata idea, che si vuole il
suo ritorno a casa. Se la piglia bene, cosa molto difficile, si va avanti, la
strada è buona. Se la piglia male... ci sarà modo di rimediare. Il sior Momi,
seduto sulla soffice bambagia di alquanta rendita al portatore, che dalla
Montanina ha emigrato a Padova, sorride alle carte buone, dall'intimo.
Finito il giuoco, suona per Giovanni, gli ordina titubante,
guardando l'ospite, di svegliare il signor dottor Molesin l'indomani mattina
alle cinque. Giovanni risponde che sa. Molesin alza verso il domestico la mano
aperta.
«Vegnì a le sette» dice. «Son straco. Vegnì a le otto.»
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