CONTRO IL MONDO E CONTRO L'AMORE
I
Donna Fedele,
sofferente, riposava sul letto, leggendo. La cameriera le annunciò la ragazzina
che prendeva lezione di francese da lei. Pensò un poco e rispose che non si
sentiva proprio in grado, quel giorno, di darle la lezione. La cameriera
ritornò con un fascio di rose delle Alpi, che la ragazzina aveva portato per la
sua maestra. La maestra s'intenerì, fece richiamare da una finestra la piccina
che s'incamminava già verso il cancello.
«Ti farò leggere» diss'ella, poi che l'ebbe ringraziata, con un
bacio, dei fiori. «Prendi il libro.»
Il libro era La
Fontaine. La bambina lesse male, con una pronuncia
detestabile, la favola della cicala e della formica. Donna Fedele doveva
correggerla ogni momento. Durò molta fatica a farle intendere l'allegoria della
favola. S'indispettì con lei, e anche con se stessa, perchè quella, interrogata
se avrebbe preferito essere la cicala o la formica, rispose «la formica» e non
ci fu verso che capisse il brutto e l'odioso nella risposta della bestia
previdente; segno che la maestra, spiegando, non le aveva dato modo di
rilevarne l'egoismo villano.
Appena uscita la ragazza, entrò Lelia e trovò l'amica esausta.
«Come potrei lasciarla sola» diss'ella, sedendole accanto, «fino a
che sta così?»
Donna Fedele stese la mano, le recitò sottovoce, sorridendo, i
versi di La Fontaine:
«La cigale ayant chanté
Tout l'été
Se trouva fort dépourvue
Quand la bise fut venue.
«Ho telegrafato» soggiunse «a una formica buona.»
Lelia piegò sul letto il viso lagrimoso, vi soffocò il grido
dell'anima:
«Non vado, non vado, non vado!»
Aveva ricevuto nella mattina, due lettere; una di suo padre, una
dell'arciprete di Velo. La lettera del padre, riveduta da Molesin, era una
revoca del permesso di partire con donna Fedele. Tanto la cameriera Teresina,
scriveva il sior Momi, quanto la governante si erano improvvisamente
licenziate. La prima voleva andarsene subito, la seconda era già partita. La
sua salute si guastava ogni giorno più, il ritorno della figlia s'imponeva in
modo assoluto. La lettera dell'arciprete, suggerita dal cappellano, era un
appello al cuore di Lelia in favore di una povera famiglia di Lago di Velo, che
aveva bisogno di aiuto morale quanto di aiuto materiale. Era stata soccorsa dal
povero signor Marcello e l'arciprete sperava che la signorina ne continuerebbe
l'opera, aggiungendovi il beneficio di qualche visita. Che fra le due lettere
vi fosse un nesso, nè Lelia nè donna Fedele sospettarono. Sotto il colpo della
lettera paterna Lelia aveva vibrato come una piccola fiera di cuor gentile sotto
la sferza. Donna Fedele lasciò che si sfogasse e poi cominciò pian piano,
dolcemente, a consigliarle di riflettere. Il solo consiglio di riflettere fece
scoppiare Lelia in pianto. Allora l'amica la consolò di tenere carezze e,
toccato appena dell'obbligo legale di obbedire, le mostrò il bene che poteva
fare a suo padre purificandone la casa, l'ambiente morale, essendogli esempio
di dignità, di vita cristiana. Se in casa ci fossero scandali, nessuno potrebbe
costringerla a rimanervi. Ritornerebbe al villino. Ci penserebbe lei, donna
Fedele, a proteggerla. Fra pochi mesi, diventata maggiorenne, sarebbe libera di
sè, suo padre non potrebbe restare alla Montanina che col beneplacito di lei.
Qui Lelia le confessò, turbatissima, che era suo proposito di rifiutare, appena
fosse maggiorenne, l'eredità del signor Marcello. Donna Fedele trasalì all'idea
di una offesa simile al povero morto, rimproverò acerbamente Lelia, l'accusò di
irragionevole fierezza. Lelia si accese alla sua volta, difendendosi. La prima
parola offensiva sfuggì ad essa.
«Che diritto ha Lei, finalmente» diss'ella, «di parlarmi così?»
Donna Fedele tacque, colpita. Allora la fanciulla ebbe un impeto
di dolore, le gittò le braccia al collo, mormorò piangendo:
«Farò come vuole.»
II
Era un sabato.
Fu deciso che Lelia ritornerebbe alla Montanina fra un paio di giorni quando
fosse arrivata al villino la formica cui donna Fedele aveva telegrafato, una
sua vecchia cugina di Santhià. Con questa cugina donna Fedele si recherebbe a
Torino per farsi visitare da Carle, appena fosse in grado di sostenere il
viaggio. In quei giorni non lo era. Vedendola così prostrata, Lelia ebbe un
ritorno di ribellione alla volontà paterna:
«Non vado, non vado, non vado!»
Ma erano, si capiva, le ultime ondate di un fortunale cadente.
La sera stessa, donna Fedele aveva dato la buona notte alla
fanciulla che, per volontà di lei, ritornava alla sua vecchia camera, quando la
richiamò e, fatta uscire la cameriera, la pregò di accostarsi al letto.
«Senti» diss'ella. «Ho ricevuto una lettera di Alberti. Sono stata
molto in dubbio se fartela leggere o no. Decido di dartela. Non so se faccio
bene o male. Cerca tu che io non mi penta di avertela data. Desidero che tu
conosca quell'anima, una buona volta.»
Stese le braccia alla fanciulla, la trasse, la tenne stretta in
silenzio, a sè, le indicò il posto dove avrebbe trovata la lettera.
«Non leggerla, qui» diss'ella. «La leggerai nella tua camera. Me
la renderai domattina.»
III
Lelia sedette sul
suo letto, colla lettera in mano. La posò, cercò pensar qualche cosa che le
chetasse il tumulto del cuore. Pensò la favola di La Fontaine, ripetè i versi
recitatile dall'amica. E posò la mano sulla lettera. Il cuore, che si era
chetato alquanto, ricominciò a tumultuare. Allora, vergognando di sè, si decise
a leggere.
Non seppe farlo di seguito. Prima guardò quante pagine fossero.
Dodici. Poi lesse la data: Dasio. Dasio? Dov'era questo Dasio? Corse alle prime
parole: «Le scrivo da un paesello solitario fra montagne austere che le nebbie
fasciano». Saltò alle ultime.
«Mi preghi pace. Ne ho forse più bisogno in questa vita che non ne
avrò nell'altra e spero averne trovata la via; ma il cammino è lungo.»
Rabbrividì e reagì, pronta, contro i brividi. Sfogliò le dodici
pagine rapidamente, cercando se vi fosse il suo nome. C'era, c'era; sentì
terrore e sete delle parole non lette in cui stava. Vi corse sopra sfiorandole
con terrore e sete, leggendo e non leggendo. Vi si parlava di lei, sì,
lungamente di lei. Il dolce vi era misto coll'amaro. Questo Lelia lo capiva ma
correndo così sulle pagine non poteva farsi un'idea dello stato d'animo dello
scrittore, delle sue attuali disposizioni verso di lei. Dio, meglio sfiorar
così le parole, meglio non legger bene se dovesse troppo soffrirne, poichè
aveva promesso di vivere! Alzò gli occhi, abbandonò sulle ginocchia le mani che
tenevano la lettera. Le si riaccese la sete di leggere, le si irrigidì la
volontà di resistere. Mancarono insieme l'una e l'altra rapidamente,
annientandosi a vicenda. Risollevò le mani senza volere nè disvolere, da
automa, e lesse, cominciando là dove aveva prima visto il proprio nome.
«Lelia! Ne ho sdegno e vergogna, cara mamma Fedele, ma il
vero è che mi sentii gelare, posai la penna, mi presi la testa fra le mani e
stetti lì non so quanto, lottando col desiderio d'immaginare lei, che fosse
qui. Ella crede forse che la immaginassi mia, umile, appassionata. Sì, questo
era il mio desiderio, ma lo schiacciai e invece la immaginai d'altri, umile ad
altri, appassionata per altri, volendo meglio irritarmi contro di lei,
strapparmela del tutto dall'anima. Ora l'accesso è passato e me ne resta un
disgusto amaro di me stesso, di non saper costringermi all'equità verso una
bambina che non è in colpa se mi ha giudicato falso e basso, se non possiede le
qualità native di mente e di cuore che io le attribuivo nella mia folla
idealizzazione perchè ha una personcina elegante, un viso simpatico, due occhi
pieni di dolcezza e di fuoco.»
A questo punto Lelia vibrò tutta, dai capelli ai piedi, strinse la
lettera da sformarne gli orli. Superata la tempesta interna, procedette
avidamente.
«Ma io arriverò all'equità verso la signorina da Camin. Anzi un
giorno le sarò persino grato di avermi respinto, perchè mi sarà ben chiaro che
non avrei potuto essere felice con una donna tanto lontana, in tante cose,
dalle mie idee. Oggi la mia pericolosa inclinazione sarebbe di non cercare
nell'amore il consenso delle idee, di non cercarvi che l'amore stesso; oggi mi
piacerebbe che la donna amata mi domandasse solamente amore, che per noi non
esistesse passato, non esistesse futuro, non esistesse che un presente
infinito; che non esistessero idee nè ragione ma solamente sentimento e senso,
in un palpito unico. Ma so che se afferrassi questo folle sogno, la vita mi
spezzerebbe presto d'un colpo e sogno e cuore, con ignominia. La Scrittura dice: — Guai
al solo! — No no, io dico fortezza e gloria al solo!
«Io non ho soltanto a curare nella solitudine le ferite riportate
nel mondo. E perchè non sarebbero da tenere aperte? Sono esse che mi hanno
fatto uomo. Ma poi la solitudine mi conviene per rimeditare nel silenzio quella
soluzione del problema religioso per la quale ho combattuto e ch'è diventata
incerta nella mia mente. Amica mia, cara mamma Fedele non potrei confessare ad
altri che a Lei questa incertezza terribile e forse neppure a Lei la
confesserei se non sentissi orrore insieme e bisogno di vedermela qui in
faccia, scritta da me.»
Lelia corse avanti collo sguardo per vedere se ci fossero ancora
parole di amore e di lei. Trovò i nomi di don Aurelio e di Benedetto, cessò di
guardare avanti, rilesse il solo passo: «Oggi la mia pericolosa
inclinazione...» fino alle parole «sentimento e senso in un palpito unico»
sulle quali si fermò, tremante, ansante, fatta carne di quelle parole. E se le
appressò, combattendo contro avverse onde di orgoglio alle labbra, che vi posò
semiaperte, per un tocco lieve, per il principio di un bacio cui non si umiliò
a compiere. Le rilesse ancora, vi tenne fissi gli occhi fino a che tutto il
resto della lettera le diventò nebbia e niente, intorno a un centro di lume e
vita. Non lesse altro, si svestì, si pose la lettera sotto il guanciale, si
coricò, non felice, non dolente, non temendo, non sperando, non pensando, tutta
nel senso delle parole che premeva colla guancia, nel senso che il tempo si
fosse arrestato e con esso tutti i moti delle cose tranne il suo anelito. Verso
l'alba si assopì per cinque minuti. Sognò un caos di figure agitate nell'aria,
cui ella si mescolava volando, trepida per l'orrore di una corrente bruna, in
profondo, sulla quale i volanti erano sospesi. La corrente bruna pareva il
canale dove si era proposta di morire, fatto immensamente più largo. Credette a
un tratto piombar per l'aria e si svegliò. Ritornatale la coscienza, mise la
mano alla lettera. Nel richiamarsene le parole sentì punte di inquietudini non
avvertite prima del sonno, presentimenti angosciosi di un prossimo spegnersi
dell'amore ancora vivo di Alberti. Accese la luce e, postasi a sedere sul
letto, studiò lungamente, parola per parola, le frasi più spiacenti. Il suo
orgoglio risorse in forma di sdegno e anche di ambita vittoria sopra i
disprezzi e gli avversi propositi del signor Alberti. Quindi prese a leggere
per intero, dal principio, la lettera, in tanta parte appena corsa collo
sguardo. Diceva:
Dasio...
«Cara amica.
«Le scrivo da un paesello solitario fra montagne austere che le
nebbie fasciano. Non creda che ci sia venuto per sfuggire il caldo di Milano.
Ho rotto con Milano e col mondo, per ora. Le dirò tutto, perchè mi sento
filiale, con Lei. Se non Le dispiacesse questa ideale maternità, vorrei
chiamarla mamma Fedele. Me lo permette? Dunque Le dirò tutto. In casa di mio
zio mi trovavo a disagio da un pezzo. Mio zio è un sant'uomo che ha sciolto il
problema di fondere insieme intransigenza religiosa e carità. Se tutti
gl'intransigenti fossero come mio zio, costringerebbero il mondo a venerare le
loro dottrine. Ma egli non ha nessuna cultura religiosa e, sulla fede di
persone che mi conoscono male, mi giudica, in religione, un traviato. È anche
necessario dire che le nostre tendenze intellettuali sono diametralmente
opposte. Inoltre egli mi ha fatto intendere, con accenni rari e blandi, che mi
disapprova di non essermi procacciato un'occupazione regolare, stabile e
proficua.
«Dispiaceri gravi, dei quali Le avrà parlato don Aurelio, furono
causa che io cercassi pace e silenzio a Velo d'Astico. Ella sa quale pace vi
abbia trovato. Ritornato a Milano, vi conobbi ragioni urgenti di non vivere più
a carico dello zio. Dopo la nostra pietosa visita al cimitero di Velo, lessi
nel Corriere un avviso di concorso alla condotta medica di Valsolda, in
provincia di Como. Ne fui colpito perchè in quel paese avrei dovuto a ogni modo
recarmi per un ufficio pio verso la persona e la memoria dell'uomo che ho più
amato al mondo. Partii subito per la Valsolda, dopo aver detto a mio zio che intendevo
prender parte a quel concorso e perciò visitare il paese, a me interamente
sconosciuto. Non gli dissi il mio proposito di abbandonare definitivamente Milano
se colà o altrove, con un posto di medico condotto o senza, avessi trovato un
rifugio solitario, rispondente ai bisogni dell'anima mia.
«Un battello del lago di Lugano mi portò al villaggio che mi fu
indicato come il centro della Valsolda. Compresi al mettervi piede che quello
non era paese per me, che non vi avrei trovato la solitudine desiderata. Seppi
di un albergo decente nel paese più alto e remoto della valle. Ed eccomi in
questo romito Dasio, seduto nel fresco umido verde cui rocce colossali incombono
da tramontana e da levante. Eccomi apparentemente a quattro o cinque ore da
Milano, realmente a una distanza infinita. Il mio albergo, dove per ora non è
anima viva di ospiti, si chiama Pension Restaurant du Jardin. Le scrivo
da una stanzetta quadrata, pulita, dove non manca un tavolino quasi elegante.
Ma io ho portato carta e calamaio sul davanzale della finestra che guarda un
gran verde scendente verso lo specchio profondo del lago, un gran silenzio. Se
avessi l'anima in pace e fossero troncati per sempre tutti i miei legami col
mondo, potrei meglio sentire questa pace delle cose, questa intesa delle
montagne grandi colle chiesine della valle in un richiamo delle anime umane a
Dio. Presso al mio albergo tace la chiesa del villaggio. Vi leggo da qui sulla
facciata: Divo Bernardino. Sarà quello di Siena? Vorrei. Non so, del
resto, se ne esistano altri. A destra, in basso e da lontano, un campanile
taglia lo specchio, ancora più basso, del lago. Potrei, se avessi pace in me,
sentir meglio la pace di queste chiese antiche, di queste pietre ignare delle
nostre lotte, custodi dello spirito cattolico dei nostri padri. Ahimè, cara
mamma Fedele, l'anima mia non entra in colloquio nè colle montagne nè colle
valli nè colle chiese, l'anima mia non sente la quiete delle cose perchè non è
in lei quiete ma una continua faticosa vicenda di moti che vanno e tornano. Se
restano non è quiete, è atonia mortale. Dalle atonie mortali passo alle
amarezze irritate, dalle amarezze a terrore che mi gelano. Non mi vi abbandono senza
resistervi ma questa lotta esclude la pace. Il primo effetto del silenzio di
Dasio è di farmi sentire più dolorosamente le voci del mondo che ho fuggito.
«E conviene dire che anche qualche spirito maligno si intrometta
per ricordarmele. La mia finestra guarda sul sagrato di San Bernardino. Dei
bambini vi giuocano. Ho udito testè una voce infantile gridare:
«Lelia!»
Ben prima di giungere a questo punto dove cominciavano parole già
lette e rilette le mani e il cuore della fanciulla tremavano. Ella tremava di
non potersi reggere sul suo risorto orgoglio, tremava di trovar miti le
espressioni della lettera più acerbe contro di lei, tremava d'intravvedere
imminente l'estinguersi di quell'amore che ancora vi ardeva. Saltò le parole
conosciute, riprese la lettura là dove Massimo diceva come la fede religiosa
per la quale aveva combattuto fosse diventata incerta nella sua mente e come
sentisse il bisogno di confessarlo a donna Fedele anche per vedersi scritto
sulla carta il suo tormento interno. La lettera continuava:
«Il mio presente stato d'animo riguardo alla fede cattolica ha una
origine lontana. Solamente adesso me ne rendo conto. Vede, amica mia venerata e
cara, mi confesso a Lei anche per aggrapparmi alla fede Sua, alla preziosa
vecchia fede Sua, inesperta del moderno criticismo e delle battaglie
teologiche, ferma, io credo, come lo fu quella di mia madre, più del marmo e
del bronzo. Dubbi, da giovinetto, mi assalivano spesso e venne un momento in
cui non seppi soffocarli nel loro nascere. Ero come un'alga sradicata in balia
dell'onda, quando, essendo studente a Roma, conobbi, in un paesello del Lazio,
l'Uomo la cui salma verrà, fra poco, a riposare qui. L'ho adorato e, finchè
egli visse, l'ombra di un dubbio non mi turbò. Avrei dato lietamente la vita per
la mia fede e per la
Chiesa. Potei desiderare che l'Autorità della Chiesa tenesse,
in questo o in quel campo, una via diversa, ma la possibilità di ribellarmi ad
essa non si presentò mai alla mia mente. Durai così per qualche tempo dopo la
morte del Maestro. Poi le ingiuste accuse di volontari dissensi dalla dottrina
cattolica mossegli con evidente mala fede da persone non chiamate a giudicarlo,
le ostilità che io stesso ebbi a subire come suo discepolo da una plebe di
farisei e, dall'altra parte, il contatto corrodente di certa ipercritica, di
certi novatori negativi, naviganti senza bussola e senza timone, ipercritica e
novatori onde il mio Maestro mi aveva sempre tenuto lontano, vennero preparando
un disfacimento della mia compagine di credenze, che progredisce ogni giorno.
Non creda, cara amica, che io perda la fede come la perdono certe persone, meno
intelligenti e meno colte di quanto si figurano essere, che prendono a
disprezzare il Cattolicismo per certe particolarità del culto che loro
dispiacciono, per certe oscurità del dogma che loro paiono chiaramente assurde
e anche risibili. Queste sono miserie di gente presuntuosa che del Cattolicismo
sa ben poco e si arbitra di giudicare, da scranne pusille, la religione di San
Agostino, di Dante e di Rosmini. No; la mia fede si viene disfacendo per altre
ragioni. Il dubbio che ingrandisce nell'anima mia è che questa divina Religione
sia per subire la sorte subita dalla Religione divina di Mosè, che l'elemento
divino sia per uscirne come da quella uscì, preparato dai profeti, il
Cristianesimo, lasciando dietro a sè la spoglia morta di tutto l'antiquato, di
tutto il superato. Come il Cattolicismo ha compiuto Mosè, una forma religiosa
superiore compierà forse il Cattolicismo. La Chiesa uscì della Sinagoga che le vive misera
accanto, un quid superiore uscirà dal Cattolicismo. Vi devono essere dei
Precursori che si sacrifichino? Devo io sacrificarmi, predicare questo Verbo in
opposizione al Verbo che ho predicato fin qui? Ecco l'angoscia mia. I miei
amici di Roma vorrebbero che io parlassi nel cimitero di Oria quando vi sarà
tumulata la salma del mio maestro, di Benedetto. Temo di non poterlo fare senza
ipocrisia perchè Benedetto credeva irremovibilmente nella immortalità della
Chiesa Cattolica e nel dovere dell'obbedienza. Se mi persuado ch'egli si è
ingannato, come oggi dubito, ne offenderei, parlando sulla sua tomba, la
venerata memoria, dovrei cedere il posto a un discepolo più fedele.
«Don Aurelio, ch'è tuttora a Milano in attesa di lezioni ignora lo
stato dell'animo mio. Non ebbi il coraggio di parlargliene, non avrò quello di
scrivergli. A che gioverebbe dargli un così gran dolore? Non ne spero aiuto
perchè so fin d'ora cosa mi risponderebbe. Egli è per sè un argomento a favore
della Chiesa Cattolica, più forte di quelli che potrebbe addurmi parlando o
scrivendo; argomento, però, che non basta, perchè anime nobili, pure e
convinte, si trovano in ogni Chiesa e anche fuori di ogni Chiesa.
«Eccole la dolorosa verità sullo stato dell'anima mia. Il mio
soffrire di questo stato viene dalla convinzione che, se rompo col
Cattolicismo, non avrò più in me una sola certezza religiosa positiva, e come
vivere allora?
«Poichè questa è una lettera filiale, desidero anche dirle qualche
cosa delle mie nuove condizioni economiche. Finora ho largamente usato della
generosità grande di mio zio. Oggi so che mio zio, parsimonioso per sè quanto
liberale cogli altri, potrà disporre per un'opera benefica del danaro che gli
costava questo nipote, agli occhi suoi semireprobo. Vivrò del frutto d'un
piccolo capitale cui si ridusse l'eredità di mio padre e di mia madre. Sono, su
per giù, da quattro a cinque lire il giorno che qui o in un altro paese simile
a questo mi basteranno per le necessità della vita, le quali per me si
riducono, fortunatamente, a piccola cosa. Da quanto mi dicono, sarà forse
inutile che io concorra alla condotta medica della Valsolda perchè eleggeranno
il medico che la tiene adesso provvisoriamente. Questo è il punto nero della
mia situazione. Non posso vivere senza libri e periodici e ho quindi bisogno di
guadagnare qualche cosa coll'opera mia personale. La clientela che riuscissi a
fare qui mi aiuterebbe certamente assai poco. È un punto nero ma Le assicuro
che il senso nuovo della mia povertà, povertà relativa e lontana dalla miseria,
mi è dolce. Non è che io goda di sentirmi indipendente da un benefattore; godo
di sentirmi quasi indipendente dalle cose e anche di sentirmi disceso fra gli
umili, disceso da un mondo nel quale imperano le forme e la simulazione a un
mondo più schietto. Sarebbe una gioia se oggi l'anima mia fosse capace di
gioia.
«Mi scriva, cara amica. Diriga a Dasio, per San Mamette, provincia
di Como. Meglio non mi parli della piccola persona da dimenticare.
«E adesso addio. Un brigadiere di finanza mi fa pregare, in questo
momento, di vedere un suo bambino che ha mangiato troppa frutta. Capisce che
col mio primo cliente non mi sarà difficile farmi onore! Le bacio la mano.
Suo devoto figliuolo
Massimo»
«P. S. - Pensi, ora soltanto mi colpisce la immagine sacra
appesa alla parete sopra il mio letto. Rappresenta Gesù che sul mare di Galilea
porge la mano a Pietro, pauroso di scendere nell'abisso. Pietro dubitò di
Cristo e Cristo gli porse una mano pietosa. Non la porgerà Egli a chi dubita di
Pietro se Pietro stesso non la porge? Comunque sia, è un caso singolare che in
questo periodo della mia vita interiore, qui in Dasio, sopra il letto di
albergo dove stanotte passai ore insonni pensando Cristo e Pietro, io mi trovi
proprio il rimprovero: Modicae fiidei, quare dubitasti?
«Ma non sono
superstizioso.»
Lelia era venuta
leggendo le pagine di argomento religioso senza comprenderne altro che il fondo
di dolore e colla torbida pena di questa sua impotenza. Sorse in lei anche il
senso di una colpa della persona che aveva comunicato ad altri confidenze fatte
strettamente a lei, il rimorso di approfittarne. E tuttavia continuò a leggere
e leggere con avidità irresistibile. Le parole sulla gioia della povertà,
scritte dall'uomo ch'ell'aveva accusato di sordide mire, la trafissero. Fu
presa da tremiti. Le spalle, le braccia, le mani le sussultavano. Piegò sul
fianco, appoggiò il capo al marmo del tavolino da notte, si recò la lettera
alle labbra, ve la premette, stavolta, forte.
La lettera sulle labbra, e nella mente s'impresse questo:
«Sono indegna di lui, e come indegna non devo turbarlo, devo
lasciargli credere che lo penso con disprezzo, come prima.»
Questo proposito la confortò un poco, la rialzò nella sua propria
stima. Sollevò il capo dal marmo e finì di leggere. Alle parole «piccola
persona da dimenticare» ebbe un moto interno, non di sdegno ma di consenso.
E rientrò sotto le coltri. Di tempo in tempo tremiti la scossero ancora, di
tempo in tempo flutti di lagrime le gonfiarono il petto. Non ne versò una sola.
Discese nella
camera dell'amica a mattina inoltrata. Salutò e posò la lettera, con aria
indifferente, sul tavolino da notte. L'amica stava a letto scrivendo. Alla
domanda della fanciulla, come avesse passata la notte, non rispose. Le lesse in
viso come l'aveva passata lei. Le chiese un bacio, l'abbracciò e nello staccar
le labbra dal suo volto marmoreo le sussurro:
«Ho fatto male?»
«Che!» fece Lelia, fredda. «Sapevo.»
«Sapevi?» esclamò donna Fedele, sorpresa. «Tante cose di quella
lettera non le sapevi certo.»
«Lasciamo, La prego» disse la fanciulla.
Donna Fedele aveva troppo sentito, abbracciandola, quanto battesse
l'orgoglioso piccolo cuore, per credere alle parole fredde.
«Gli ho risposto» diss'ella. «Ti prego di leggere anche la
risposta.»
Il primo impulso di Lelia fu di schermirsi come da una inutile
noia. Poi temette dir parole imprudenti e lesse.
L'amica aveva scritto
«Caro figliuolo,
"Accetto la maternità
ideale che mi offri e ti scrivo addirittura col tu. Veramente sono tanto giù di
tono che aspetterei domani a scrivere se non desiderassi farti sapere subito
quattro cose. La prima te l'ho già detta: accetto il grado di tua madre
onoraria. La seconda è che t'inganni molto sul conto di Lelia e de' suoi
sentimenti.»
La ragazza s'interruppe e, colla rapidità del lampo, afferrata la
penna, la strisciò sulle due ultime righe.
«Lelia, sei pazza?» esclamò donna Fedele, stupefatta, stendendo la
mano per afferrare la lettera. La fanciulla diede un passo indietro e continuò
a leggere senz'aprir bocca, tenendo ancora la penna nella mano tremante.
«Credi aver diritto» esclamò ancora la corrucciata amica «di fare
la suscettibile?»
Ella pensava, ingannandosi, che l'atto violento della fanciulla
fosse stato una reazione di collera contro le parole acerbe della lettera di
Massimo. Lelia non rispose e continuò a leggere silenziosamente:
«La terza è che Pietro ha dubitato, sì, ma che, sentendosi
sommergere, ha gridato: Signore, salvami! La quarta è che la tua madre onoraria
avrebbe bisogno di te più che l'abbia il bambino del brigadiere di finanza e
che domani al villino delle Rose vi sarà maggiore solitudine che a Dasio,
perchè Lelia ritorna alla Montanina. Così vuole suo padre. Addio, figliuolo.
Scrivi a don Aurelio. Le tue ragioni di tacere con lui non mi persuadono. Ti vedo
con un piede fuori della via dove io cammino umilmente senza sentire i sassi,
le spine e la polvere che vi senti tu colla tua scienza e la tua filosofia. Ma
non sono capace di discutere con te che hai tanto ingegno e tanto sapere.
Scrivi a don Aurelio. Addio.
Mamma Fedele»
Finito di leggere, Lelia porse lo scritto tacendo, a donna Fedele
che la guardava cogli occhi spalancati, aspettando invano una parola.
«Ma ti pare?» diss'ella. «Come la mando adesso?»
«Scusi» rispose la fanciulla gelida. «Ho fatto bene.»
E uscì dalla camera.
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