INTORNO A UN'ANIMA.
I
L'ufficio per
l'anima del povero signor Marcello doveva cominciare alle dieci. Donna Fedele
non era in grado di recarvisi. Aveva scritto a Camin pregando che Lelia le
fosse lasciata fino all'indomani. Siccome la formica buona di Santhià si era
annunciata solamente per l'indomani, Lelia non aveva voluto saperne di partire
dal villino prima del suo arrivo. Nessuna risposta era venuta dalla Montanina.
Lelia partì per Velo a piedi, colla cameriera, verso le nove e mezzo.
Sollecitata con
insistenza a prender posto accanto a suo padre sulla panca ricoperta di un
drappo nero, rifiutò. Si collocò presso la porta maggiore, per essere pronta a
uscire appena terminate le esequie. Ma, prima ancora che incominciassero, le si
avvicinò, rossa e sorridente, la cognata dell'arciprete, la pregò, con dolce
mansuetudine, di recarsi, dopo la funzione, in canonica perchè don Emanuele
aveva necessità di parlarle. Fatta l'ambasciata, si ritirò senz'altro. Lelia,
assorta in un solo pensiero, indifferente a ciò che avrebbe potuto dirle don
Emanuele, neppure si meravigliò della richiesta. Avrebbe fatto volontieri a
meno di andare, sia perchè i due preti di Velo le erano diventati odiosi, sia
perchè era avida di star sola col suo pensiero dominante. Ma, prevedendo altre
istanze, altre noie, credette bene di rassegnarsi per essere poi lasciata in
pace. Uscì di chiesa quando vide suo padre movere verso di lei per presentarle
Molesin che già si atteggiava a un saluto compunto. La siora Bettina la
raggiunse fuori della chiesa, la introdusse nella canonica con uno zelo di
officiosità e di sorrisi untuosetti, che le costava sforzi e pene incredibili,
accettati a onore e gloria di don Emanuele. Siccome l'arciprete e il cappellano
erano ancora in chiesa, dovette pensare anche a intrattenere la signorina. Le
parlò del decoro col quale si erano celebrate le esequie, della dignitosa
gravità, della edificante compunzione di don Emanuele nella pratica dei riti,
esaltandolo anche sopra il proprio cognato «un santo, ma alla buona». Poi lo
esaltò come conoscitore, malgrado l'età giovanile, e direttore di anime, al
quale ogni coscienza avrebbe potuto tranquillamente affidarsi. Paragonò, con
trepide riserve, suo cognato al curato d'Ars e don Emanuele a Sant'Alfonso.
Lelia non intese una sola di tante parole. Guardava l'uscio attendendo che
questo benedetto prete finalmente comparisse e si sbrigasse. Era stato il suo
confessore. L'aveva confessata due o tre volte e quindi pregata di confessarsi
dall'arciprete, allegando un pretesto, il probabile dispiacere del Superiore
ch'ella non lo preferisse come sarebbe stato naturale. A lei, usa dal collegio
fare confessioni puramente formali, senza partecipazione dell'anima, era
indifferente confessarsi all'uno o all'altro.
Finalmente, quando anche la povera siora Bettina, a corto di
chiacchiere, cominciò a guardare l'uscio, questo si aperse, comparve
l'allampanata figura nera del cappellano. Colei sorrise a Lelia un «complimenti»
e si alzò.
Don Emanuele veniva al colloquio coll'onesto proposito di servire
alla gloria di Dio e alla salute di un'anima. Il suo volto grave, i misurati
moti della persona spiravano tale coscienza di autorità che a osservatori
ostili poteva parere orgoglio. L'orgoglio è veleno tanto sottile, tanto potente
a insinuarsi e dissimularsi nei minimi filamenti del cervello umano, che don
Emanuele si potè ingannare giudicando di esserne scevro, di considerarsi
l'umile servo cui la divisa e il mandato del Signore conferiscono potere,
diritto al rispetto, dovere di esigerlo. Non si accorgeva di compiacersi del
potere immenso della collettività cui apparteneva, dei tanti e tanti che colla
stessa sua veste, per la virtù dello stesso sacramento a lui largito, governano
in ogni parte del mondo quell'elemento superiore dell'uomo sul quale non hanno
potestà nè principi nè governi, nè armi nè catene. Non si accorgeva di
compiacersi di ciò che altri migliori ministri della Chiesa fa umili, non
soltanto davanti a Dio ma pure davanti agli uomini. Mentre quelli usano del
potere sacerdotale con trepidazione e cautela, egli era inclinato, per questa
sua compiacenza, a usarne senza misura. Come il servo arrogante a fronte di
umili dipendenti del padrone facilmente usurpa l'autorità del padrone stesso,
facilmente presume interpretarne la volontà, così troppo facilmente don
Emanuele si persuadeva d'interpretare la Volontà Divina
anche quando interveniva con ordini e consigli nel campo lasciato alla libertà
dei fedeli. Il suo sottile orgoglio s'infiltrava dentro queste mistiche guaine,
tanto più inconscio di sè quanto più l'uomo era solito umiliarsi nella
preghiera in cospetto dei Santi, della Vergine, di Cristo. Fiero nello spirito
contro la propria carne, non lo dominava senza conflitti asprissimi. Altri ne
diventa mansueto ai vinti. Tale era il bonario, ilare arciprete. Invece don
Emanuele, vincitore di sè con tristezza e non con gioia, aveva in dispregio i
vinti e ogni debole. Era un dispregio astioso nel quale la carne soggiogata
pigliava la propria rivincita macchiando lo spirito, a insaputa sua, d'invidia
verso i gaudenti.
Si era scusato di confessare più oltre Lelia perchè il lieve
profumo di essenza di rose ch'ell'aveva portato nel confessionale lo turbava,
lo irritava paurosamente. L'aveva rimproverata fin dalla prima volta: «Non
venga a confessarsi con profumi!». Ella non capì o dimenticò. Ritornatavi, si
udì consigliar l'arciprete per confessore. Alle narici contadine dell'arciprete
l'essenza di rose non avrebbe detto che rose, don Emanuele n'era sicuro; mentre
alle aristocratiche sue diceva rose vive, arte ordinata, lo sapesse chi l'usava
o no, a blandire e movere il senso. Confessando la fanciulla fine, dall'odor di
rosa, egli l'aveva involontariamente pensata, con certe acredini di quel tale
astio, reclusa per sempre in un monastero, tolta all'amore, tolta al piacere
altrui. Ora, se gli fosse capitato di negoziare per essa un matrimonio conforme
alle proprie idee religiose, lo avrebbe fatto; senza letizia, ma con tutta coscienza.
Era invece accaduto che la fanciulla venisse nel disperato proposito di
uccidersi. Le sue informazioni gli facevano supporre che avesse desiderato
sottrarsi così alla convivenza col padre, vizioso e spregevole, che l'aveva
venduta. Da questa supposizione gli balenò l'idea del chiostro. Toglierla alla
perniciosa influenza della Vayla, levar via, servendosi di lei, lo scandalo
della Gorlago, approfittare del suo isolamento alla Montanina, della sua
avversione al padre, per inocularle il germe della vocazione religiosa: ecco il
lavoro cui egli aveva dato principio nel colloquio col dottor Molesin, il piano
cominciato ad attuare colla partenza della Gorlago. Non gli era passato per la
mente il menomo sospetto che l'odore di essenza di rose, un'aura di giovinezza
e di eleganza, un sussurro di voce dolce fossero entrati per qualche cosa nel
suo disegno di togliere quella giovine al mondo e all'amore. Non ne aveva messo
a parte l'arciprete. Forse ne lo aveva distolto il ricordo di uno scherzo
grossolano del Superiore sulle ragazze che, disperate di trovar marito, sposano
Gesù, tanto per poter chiamare sposo qualcuno. Forse sapeva che don Tita
accarezzava l'idea di un matrimonio della signorina con certo giovine signore
di Vicenza. Ne aveva accennato alla siora Bettina. Tremando, sudando, gemendo,
con pena e con affanno, la siora Bettina combatteva ora, per fargli piacere, le
proprie ripugnanze a mettersi in relazione colla signorina da Camin. Don
Emanuele voleva ch'ella cercasse di sostituirsi, come amica, alla Vayla, di
esercitare una sana influenza religiosa sulla ragazza.
La disgraziata, quando vide il cappellano entrare, si sperò al
termine delle proprie fatiche, per quel giorno, e si alzò coll'intenzione di
andarsene. Egli le fece colla mano, senza guardarla, un cenno sospensivo,
salutò Lelia e prese tranquillamente posto sul canapè, mentre la Fantuzzo tentennava sulla
sedia fra un definitivo alzarsi e un definitivo sedere, guardando il cappellano
con uno sguardo umilmente deprecante. Egli non parlò, la guardò alla sua volta
severo; cosicchè la povera donna si quietò a sedere. Spalancò tanto d'occhi
udendo che don Emanuele aveva un piacere da chiedere alla signorina da Camin e
a lei. Il solo accenno a un incarico da eseguire in comune colla signorina le fece
risalire le vampe al viso. Si affrettò a dire che non sapeva far niente, che
non era buona a niente.
«Prego» le rispose don Emanuele col gesto placido del Superiore
che invita l'inferiore a tacere. «Prego.» La timida signora voltò a Lelia il
viso vermiglio, le mormorò sfregando in grembo le mani una sopra l'altra, quasi
a spremerne le sue ragioni di riluttanza: «Proprio sa, propria sa».
Don Emanuele non si curò più di lei, neppure la guardò più,
rivolse a Lelia il discorso lungo che aveva preparato. Il sugo n'era questo. La
locale Congregazione di Carità amministrava un legato a favore delle madri di
famiglia povere, impotenti al lavoro per malattia o puerperio. Siccome in paese
c'erano, a proposito di questo legato, molti lamenti, il cappellano aveva ottenuto
dalla Congregazione che si nominassero due visitatrici e indicato insieme, per
tale ufficio, la signora Fantuzzo e la signorina da Camin. A ogni due parole
dell'oratore, la signora Fantuzzo gemeva. Gesummaria, Gesummaria! Era contenta
di soccorrere i poveri da lontano ma da vicino non ci aveva gusto. Don Emanuele
non se ne diede per inteso, invitò le due signore a prendere qualche accordo
per la loro comune azione futura.
«Se non possono trattenersi adesso» diss'egli conchiudendo,
«questa sera o domattina la signora Fantuzzo potrà recarsi alla villa da Camin.
Si conosceranno meglio, parleranno di questo lavoro e intanto io preparerò un
elenco delle madri che sarebbero a visitare subito.» Lelia uscì dal suo
torpore, osservò che non sapeva se l'indomani mattina si sarebbe trovata alla
villa. Infatti era risoluta, in cuor suo, di non lasciare il villino se prima
non vi fosse arrivata la cugina di Santhià. Don Emanuele tacque, perplesso.
Intanto fu bussato all'uscio, entrò don Tita. Salutò Lelia con un sonoro
«divoto!» come se l'incontro sul ponte del Posina non fosse avvenuto, chiamò il
cappellano in disparte, gli disse qualche cosa sottovoce, accennò a sua cognata
di ritirarsi. Ella uscì, seguita da don Emanuele. L'arciprete si avvicinò a
Lelia che si era pure alzata.
«La permeta, siora Lelia» diss'egli. «La permeta un momento. Ghe
sarìa el papà.»
L'uscio si apre lentamente, ecco la faccia rossigna e gialla, le
palpebre battenti, la barba policroma di papà.
«La se comodi, signor» gli dice l'arciprete. «Xe pronto?»
«Sarìa pronto, sissignor» rispose il sior Momi con un condizionale
pieno di esitazione riguardosa; e, volto alla figliuola, le manda un «ciao»
timido che pare uno dei soliti aho. Lelia non capisce cosa sia pronto e dalla
bocca spalancata del sior Momi nulla vien più fuori. Allora il bonario
arciprete interviene, dice a Lelia, scherzando, che papà non sa fare da papà ma
che gl'insegnerà lui. Papà l'avrebbe lasciata partire a piedi, con quel caldo.
Gli aveva consigliato lui di far venire da Arsiero una buona carrozza a due
cavalli. Lelia intuì che si era tramato qualche cosa, che suo padre intendeva
condurla di sorpresa alla Montanina e che l'arciprete era un complice. Non potè
indovinare che il consiglio veniva da Molesin e che suo padre, fingendo sulle
prime di aderirvi, aveva poi, assente Molesin, sollecitato l'intervento
dell'arciprete e un suo aperto predicozzo sulla convenienza d'accontentare
papà, di non indugiare più oltre il ritorno a casa. Il predicozzo rimase in
gola a don Tita perchè la fanciulla non gli permise di metterlo fuori, dichiarò
imperiosamente che intendeva andare a piedi. Il sior Momi si affrettò a
concedere: «Ben ben ben ben!». Lelia partì salutando appena e il benigno papà
si sforzò di convincere il proprio complice intontito che quel diavolo di
figliuola si sarebbe buttata dalla carrozza piuttosto che subire l'inganno.
II
Poche ore prima
che, per obbedire non tanto a suo padre quanto a donna Fedele, Lelia prendesse
congedo dal villino, arrivò la cugina di Santhià, «tota» Eufemia Magis, una
vecchietta piccola, curva, incartapecorita, di cui si sarebbe detto che fosse
venuta a cercare aiuto e non a portarne. Per quanto donna Fedele fosse
sofferente, la sola vista della cugina Eufemia le apriva insieme le due vene
della tenerezza e della canzonatura. Quando l'aveva ospite non si dava pace
perchè non le mancasse nulla e in pari tempo la canzonava senza pietà per i
suoi abiti antiquati, per le grandi cuffie nere dai nastri violetti, per i
pretesi amori giovanili, per la materia fantastica delle confessioni frequenti,
per la ignoranza dei sessi che la cugina rivelava esclamando «oh mi povr'om!»
ogni volta che le cadevano gli occhiali o un ferro da calze. Ella era presente
quando Lelia si accomiatò dall'amica.
«Spero» disse donna Fedele, «che tuo padre ti permetterà di venire
a trovarmi spesso.»
Gli occhi di Lelia lampeggiarono.
«Vorrei vedere!» esclamò. Donna Fedele le prese e accarezzò le
mani mormorando: «Sii buona, sii buona, sii buona!».
Lelia guardò la
Magis che allora scivolò umilmente, silenziosamente, fuori
della camera. La fanciulla abbracciò l'amica, posò il capo sul guanciale
accanto a lei. L'amica le pose una mano sui capelli, le disse dolcemente:
«Quella lettera ti ha fatto male?»
Nessun cenno, nessuna voce di risposta.
«Non vuoi proprio che gli scriva niente di te?» Donna Fedele
proferì queste parole piano piano, esitando. Aveva notato l'occhiata della
fanciulla alla cugina Eufemia, pensava che desiderasse parlarle da sola a sola.
Le spalle di Lelia sussultarono, il capo negò con violenza.
«Vuoi qualche altra cosa?»
La dolce voce giovane della signora, tuttavia carezzevole, ebbe
però una punta dell'accento che dice: ma infine! E i grandi giovani occhi bruni
lo dissero pure. Lelia non li potè vedere, li indovinò. Alzò dal guanciale il
viso lagrimoso abbracciò l'amica e partì.
III
Ritornò nel
pomeriggio del giorno seguente. Donna Fedele stava leggendo, alzata, nella sua
camera da letto. Le si gettò ginocchioni ai piedi, protestò di non potere
assolutamente più vivere alla Montanina. L'amica le batteva intanto e le
ribatteva dolcemente la mano sul capo ripetendo dei piccoli «ò — ò — ò» di
mansueto rimprovero.
«Cosa è successo, dunque?» diss'ella. «Alzati e racconta.»
Ci volle del tempo perchè Lelia, che le premeva il capo sulle ginocchia,
si alzasse e parlasse. In fatto non era successo che il contatto con una realtà
già conosciuta e odiata da lontano. Donna Fedele temette, al vedere quella
disperazione, che ne fosse causa la governante del signor Camin. Non sapeva
come chiederne a Lelia. Le chiese di Teresina, seppe che rimaneva in servizio
perchè l'altra era partita. Ma neanche Teresina poteva sopportare, ora, quella
casa, quel padrone, quella gente. Quella gente era poi l'unico dottor Molesin,
che, grazie a Dio, stava per andarsene. Lelia fremeva contro quell'individuo
viscoso che aveva creduto rendersi amabile parlandole dei vecchi Camin, di un
vecchio prete che diceva la prima messa ai Carmini, di una vecchia monaca,
famosa cuoca di pasticcerie. E il padre? La trattava male? No no. Lelia sarebbe
stata contenta di venirne trattata male. Il padre era umile, ossequioso,
mellifluo da far nausea. Non moveva una sedia in casa senza domandare il suo
permesso. Glielo aveva domandato poco prima per far raccogliere il fieno. Era
mellifluo e cerimonioso anche con Teresina. Credeva che qualche volta, con
Teresina, fosse stato anche confidenziale. Lo disse con tale accento di
disprezzo che donna Fedele esclamò: «Oh! Lelia!». «Non me ne importa niente»
rispose la fanciulla. E non raccontò che il sior Momi, quando, facendosi avanti
tutto servile verso la figliuola, trovava duro, si tirava subito indietro con
un «aho aho» come se avesse scherzato. Con quel trepido avanzare e quel
frettoloso tirarsi indietro, il sior Momi pareva uno che tentasse nelle tenebre
una siepe di rose nella speranza di porre la mano sopra un fiore e incontrasse
una spina.
Le stesse mura della Montanina non erano più quelle. Erano vive,
prima, e materne. Ora Lelia le sentiva morte, ignare di lei. Avevano un gelo e
un'immondizia dello spirito di suo padre. Se non avesse temuto di far
inorridire donna Fedele, Lelia le avrebbe confessato il suo mostruoso sospetto
di non essere figlia di quell'uomo. Era possibile stare alla Montanina in
condizioni simili? Domandò una risposta.
«Portami il bicchier d'acqua» disse l'amica «e l'ampollina col
contagocce, che sono sul tavolino da notte.»
Lelia obbedì in silenzio. Donna Fedele, maestra nell'arte di udire
o non udire a suo piacimento, inghiottì la medicina e riprese tranquillamente:
«Lo so cosa mi volevi dire ieri.»
Lelia non si era mai abituata a queste volontarie sordità
dell'amica. La irritavano sempre.
«Mi risponda!» diss'ella, vibrante. «Non ho ragione di non voler
ritornare là? Ha paura che m'imponga a Lei?»
Alle stordite parole rispose un lampo negli occhi di donna Fedele;
ma ella era padrona del fuoco ancora vivo sotto le ceneri della sua gioventù.
«So cosa mi volevi dire ieri» ripetè freddamente, battendo le
sillabe. «Volevi confessare che lo ami.»
Il momento era mal scelto per queste parole. Lelia sobbalzò
corrugando le sopracciglia, come se una mano insolente le avesse sfiorata la
guancia.
«No!» diss'ella. «Mai!»
Scattò in piedi fieramente e spinse indietro la sedia che si
rovesciò sull'uscio proprio mentre la cugina Eufemia lo apriva pian piano, con
grande cautela, recando un vassoio con una tazza di brodo. Il brodo le schizzò
sull'abito. «Oh mi povr'om!» gemette la vecchietta. Donna Fedele si sforzò di
ridere. Se non rise proprio di cuore, fu però contenta di mostrarsi indifferente
alla violenza drammatica di Lelia e anche di poter troncare il dialogo grazie
alla presenza della cugina. Trattenne costei che se n'andava già in cerca di
altro brodo, le fece togliere dalla scrivania e dare a Lelia una lettera.
«Adesso puoi andare» diss'ella alla vecchietta. Uscita questa,
Lelia posò la lettera.
«Leggi» disse donna Fedele.
«Perchè?» rispose la fanciulla. «È inutile.»
«Cosa ne sai?» replicò donna Fedele. «Non è mica di Alberti.»
La lettera era di don Aurelio. Aveva trovato alquante lezioni, per
quel verso era contento. Si doleva invece molto di Alberti, partito da Milano
senza cercare di vederlo, senza mandargli una parola scritta. N'era stato
informato dall'ingegnere Alberti, zio e benefattore di Massimo. A don Aurelio
l'atto del giovine pareva un colpo di testa. Non sapeva spiegarlo che
coll'amara ripulsa della signorina Lelia. Seguivano queste parole:
«S'egli si è allontanato da me in tal modo, temo di una grave
crisi della sua stessa coscienza religiosa. Ho ragioni di temerla. Ah quale
benedizione se la persona che sappiamo lo avesse conosciuto meglio!»
Lelia posò la lettera, senza parlare.
«Hai visto?» disse donna Fedele.
«Perchè mi fa leggere di queste lettere?» esclamò la ragazza,
sdegnosa. «Non intendo che mi riguardino.»
«Dunque non ti riguarda il male che fai?»
«Qual male? La crisi religiosa? Per me è avvenuta e ne sono
contenta» replicò Lelia, amaramente. «Lascio il cattolicismo a mio padre e al
dottor Molesin, che stamattina sono andati a messa insieme, al cappellano che
la diceva, all'arciprete...»
«E a me, vero?» disse donna Fedele, pacata.
Lelia tacque. Non si era proposta di ferire così ma fu contenta di
aver ferito. Allora l'altra, sempre tranquilla, disse:
«Grazie.»
E riprese il libro che stava leggendo quando era venuta Lelia, i
canti di un grande poeta cattolico, non però cattolico alla maniera di don
Emanuele, ma piuttosto alla maniera di Dante: Adamo Mickiewitz. Lelia si sentì
congedata. Credette vedere umidi gli occhi di donna Fedele e fu per buttarle le
braccia al collo. L'impeto buono abortì. La fanciulla si mosse per andarsene.
Aveva già aperto l'uscio quando l'amica la richiamò.
«Siamo state cattive tutte due» diss'ella, stendendole la mano.
«Vieni, facciamo la pace.»
Lelia afferrò la mano distesa con ambedue le proprie, la baciò e
fuggì.
IV
Giunta al ponte
del Posina, si fermò a guardar giù la corrente rapida e silenziosa. Non era mai
passata di là, dopo quella notte, senza un assalto di pentimento della promessa
fatta a donna Fedele, senza un brivido di desiderio e di ribrezzo. E non si era
mai fermata a guardar la roggia. Ora si fermò, quasi contro voglia, come se una
forza ignota la costringesse a guardar nell'acqua e quindi a riconoscere,
ancora contro voglia, che non vi era più in lei alcun desiderio di morire.
Solamente allora, guardando l'acqua, ebbe la rivelazione improvvisa di questo
suo nuovo, profondo stato d'animo. Guardava l'acqua corrente e l'attonita anima
sua si apriva lenta, mostrava nel profondo a se stessa un'aspettazione
istintiva di amore, di felicità, contraddicente alle previsioni della ragione,
contraddicente ai generosi propositi di rinuncia. Si levò palpitando dal
parapetto del ponte, si ripose in cammino. Credette sentire la vita incarcerata
delle cose anelare all'amore e alla gioia, mute avidità comunicarsi a lei. Le
pareva che il battito delle turbìne di Perale le fosse interprete delle cose
mute, le dicesse: «Anche tu anche tu». E il suo cuore batteva: «Anch'io,
anch'io». L'aria stessa, odorata di boschi, le spirava, entrandole in bocca bramosia
fidente di amore e di gioia. Avrebbe voluto prendere il sentiero che sale a
destra pochi passi oltre il ponte perdersi fra gli alberi, buttarsi a terra
dove nessuno la potesse vedere, cedere ivi senza ritegno alle immaginazioni
ancora informi di cui sentiva l'assalto ardente, dar loro forma, colore, vita,
vivere di esse. Ma il sentiero era sbarrato di tronchi e di pruni. Non potè
lasciare la via maestra. Un incontro di carri e di gente la raffreddò. Allora
tremò di se stessa, della volontà violenta che aveva divampato in lei e l'era
quindi rientrata nelle tenebre inferiori dell'anima simile a una fiera in
servitù, che, sdraiata nel fondo del carcere, leva un momento il muso, rugge ai
molesti onde fu svegliata e, paga del loro atterrito silenzio, ripiega
nell'ombra, si riaddormenta. Pensò a donna Fedele che non la credeva ferma,
evidentemente, nel suo «no», nel suo «mai». Si propose di scriverglieli ben
chiari e forti, di costringere così anche sè a non mutarli.
Al castagno
incontrò suo padre che le domandò, timido timido, se venisse dal villino. Parve
domandarle, osando e non osando, se venisse da un convegno colpevole. Alla
brusca, sfidante risposta di lei battè le palpebre.
«I preti, ciò» disse sorridendo, «i preti.»
Questo conciso linguaggio significava un monte di cose: che ai
preti non piaceva la sua amicizia con donna Fedele, ch'egli consigliava di
accontentarli ma che però non andrebbe più in là del consiglio. I preti erano
venuti alla Montanina colla Fantuzzo durante l'assenza di Lelia. Il cappellano
aveva fatto un viso funereo. Invece la siora Bettina era parsa quasi sollevata
da un peso. Il sior Momi, navigando blandamente fra gli scogli clericali e lo
scoglio filiale, si arrischiò a prometterle una visita di Lelia: «La vegnarà
ela, la vegnarà ela». Diede ascolto con zelo ai discorsi dell'arciprete, il
quale più che di Lelia, si preoccupava del genitore, vedeva in esso un nuovo
elettore, un futuro consigliere, una futura zampa, grossa e potente, della
canonica in Consiglio, un prezioso alleato del proprio successore.
Quel blando, sorridente «i preti» pieno di sottintesi, irritò
Lelia più che non l'avrebbero irritata un rabbuffo, un divieto. I suoi nervi
contratti non potevano avere lo sfogo della ribellione violenta. Si chiuse in
camera, non ne uscì neppure all'ora del pranzo per non vedere suo padre. Voleva
scrivere a donna Fedele secondo si era proposto e non lo potè. Solo il sapere
ch'egli andava e veniva per la casa, solo l'aspettarsi a ogni momento di udirne
la voce, i passi, le impedivano di raccogliersi. Appena Teresina le ebbe detto,
dopo le dieci, ch'egli si era coricato, si mostrò tanto impaziente della
presenza di lei che la cameriera si spaventò ricordando la fuga notturna dal
villino. Pressata di andarsene, non potè a meno di esclamare: «Cossa vorla far
po, signorina?». Lelia rispose che voleva unicamente restar sola e scrivere. La
povera Teresina passò la notte nel corridoio, seduta sopra un baule. Udì
chiudere l'uscio a chiave, andare e venire, interrottamente, per la camera,
lacerare, ogni tanto, delle carte, ogni tanto singhiozzare. Poi udì aprire una
finestra e allora fu per buttarsi sull'uscio. Dopo un lunghissimo silenzio ecco
passi ancora, stridere l'usciolino del gabinetto di toeletta, gorgogliare acqua
nella catinella. Più tranquilla, non osò lasciare il suo posto di guardia ma
chiuse gli occhi e dopo una breve lotta col sonno si addormentò.
Una brusca voce la scosse. «Cosa fa qui?» Diede un sobbalzò.
«Gèsu!» E non seppe aggiungere altro. «Sciocca!» esclamò Lelia. «Scenda e mi apra
la porta del passaggio coperto. Ho mal di capo, voglio prender aria» soggiunse,
raddolcita.
Era l'alba, il Torraro soffiava gioia, per Val di Posina, nelle
betulle e nei pioppi della Montanina. Lelia salì ai castagni, si buttò a
giacere sotto le grandi frondi, come una bambina stordita, nell'erba molle di
rugiada. Aveva scritto non ancora chiusa la lettera, non ancora proprio deciso
di spedirla. A tredici anni la strana fanciulla si era innamorata di un geranio
che teneva in vaso ed era giunta a pungersi il seno per nutrirlo del proprio
vivo sangue. Adesso le passò per la mente di pungersi e di scrivere a donna
Fedele col sangue. Non lo fece, temendo di farla sorridere. Sdraiata nell'erba
umida, si vedeva passare nelle palpebre chiuse quel che aveva scritto, che
voleva e disvoleva, con angosciosa vicenda, spedire al villino. «Prego non
parlarmi di quella grande persona mai più.» Si era fermata dopo infiniti
cambiamenti, dopo stracciati otto o dieci foglietti a questa forma di ripulsa
che simulava risentimento per una frase della lettera di Massimo. Se n'era
compiaciuta amorosamente come di un'opera d'arte. Ma ora le venne il dubbio che
appunto fosse da escludere l'apparenza di un risentimento perchè la sua ripulsa
non verrebbe considerata ferma, definitiva.
Desiderò rileggere tutto e rientrò in casa. Per via trovò Teresina
che veniva ad avvertirla di avere preparato un caffè forte.
«Madre!» esclamò la cameriera, camminando dietro a lei. «Pare
stata...» S'interruppe, non disse «nell'acqua» per ribrezzo della parola, tanto
aveva pensato la notte a certo gorgo del Posina dove, pochi giorni prima, si
era scoperto il cadavere di un suicida.
No, «grande
persona» non andava, non andava! Nè bastava togliere «grande». Era opportuno
dare allo scritto un altro tono, escludere ogni apparenza di risentimento e di
disistima. Stracciò anche quel foglietto e scrisse così:
«Cara amica,
«La prego di non parlarmi mai più, nè direttamente nè
indirettamente, di quella persona che io potrò anche stimare, se vuole, ma che
m'ispira una contrarietà invincibile. Se ieri sono stata cattiva con Lei fu per
il sentimento che mi fa scrivere così. Mi perdoni.
Lelia.»
Rilesse, giudicò di avere scritto chiaro, bene, opportunamente.
Non c'era più luogo a correzioni, a pentimenti. Partite quelle parole, era
finito tutto, per sempre. Cadde a giacere sul letto, spossata a morte anima e
corpo, senza forza nelle membra, senza lume nei pensieri, senza vita nel cuore,
nè di dolore nè di desiderio. Dormì un'ora. Svegliatasi, balzò a sedere sul letto,
sgomenta di aver dormito, di non saper quanto, di non raccapezzarsi. Visto il
foglietto aperto sulla scrivania, le ritornò la coscienza con un moto lento,
nel petto, di dolor sordo. Si lavò, si ravviò i capelli. Crescendole quel senso
di dolore, invadendola tutta, le si mossero, le ingrossarono in seno le onde
del pianto. Non pianse, però. Una voce interna le disse che forse lo scritto
non andava ancora bene, ch'era forse da rifare. Lo prese per rileggerlo e non
le fu possibile, tanto le mani tremavano e la vista s'intorbidava. Uscì per
andarlo a rileggere fuori, in giardino, dove i nervi non avrebbero osato
ribellarsi così. Discese al sedile dei noci. Era tanto stanca, vi era tanta
pace nel vento fresco, nelle onde dell'erbe mature, nel continuo gorgoglio
della Riderella, che il tumulto dei suoi nervi si chetò. Come l'infermo che al
partirsi di uno spasimo acuto ritorna spossato al senso delle cose circostanti
e ancora non sa se viva nel reale o nel sogno, ella sedette a lungo, collo
scritto non riletto in grembo, attonita, inerte. Il foglietto le scivolò dalle
mani, cadde sull'erba. Lo sentì e non si mosse. Qualche altra cosa le scivolava
dalla mente, non consentendo ella nè contrastando. Si chinò, raccattò la
lettera, cominciò a lacerarla pian piano, da un angolo. Lacerava lacerava
guardando l'erba con occhi pieni di sogno. A misura che lacerava ne venne
prendendo coscienza come di un atto grave che facesse parere strana la
noncuranza, intorno a lei, delle cose, il variare, continuo come prima,
dell'erbe mosse dal vento, il discorrere dell'acqua, tranquillo come prima.
Finito ch'ebbe di lacerare, il cuore prese a batterle forte forte come s'ella
si sentisse intorno alla persona le braccia e sulle labbra le labbra
dell'amato. Balzò dal sedile, infiammata e sgomenta. Raccolse e disperse nella
Riderella i pezzetti dello scritto lacerato, si fermò a guardare nella corrente
fino a che tutti disparvero i testimoni dell'atto col quale aveva annientato lo
scritto; parendole che l'atto stesso e il suo segreto senso fossero così
distrutti. E la voce di prima le si mosse ancora nell'interno: «invece di
scrivere a donna Fedele che non parli più di lui, fare a meno di andare al
villino».
Ella vi consentì con un respiro di sollievo; sì, non scrivere e
fare a meno di andare al villino.
V
Nel pomeriggio
capitò nuovamente alla Montanina la
Fantuzzo, senza compagni, questa volta. Fu ricevuta da
Teresina. Lelia aveva l'emicrania e, occorrendo, l'avrebbe inventata per
liberarsi da quella seccatura. Opere ufficiali di pietà non erano per lei; in
compagnia di una tale bigotta poi! Il sior Momi, fiutata la burrasca fin dal
giorno prima, aveva pensato bene di cavarsela con una giterella a Padova. La
siora Bettina era discretamente ben disposta verso il sior Momi. Per verità,
suo cognato l'arciprete, interrogato da lei circa il nuovo signore della
Montanina, le aveva detto in confidenza: «Farina fina, ciò, bona da colla, dove
ch'el toca el taca — ma da far ostie, no credaria». Invece il cappellano,
l'oracolo della siora Bettina, le ne aveva parlato diversamente. Don Emanuele
lo conosceva quanto l'arciprete e anche meglio; ma fino a che Lelia non fosse
sottratta all'influenza di donna Fedele e avviata alla vita monastica il sior
Momi gli era, per certa coincidenza d'interessi, un utile alleato. Perciò egli
aveva detto alla siora Bettina, con molta compunzione, con molti contorcimenti
di parole, che forse l'arciprete, nella sua santa semplicità, nella sua nativa
buona fede, aveva dato troppo ascolto a certe voci maligne, a certi giudizi esageratamente
severi. Il signor da Camin era stato sfortunato negli affari, poteva non essere
andato esente da qualche fragilità umana, ma era uomo di fede pura, immune
dagli errori moderni, era uomo di pratiche; ottimo cattolico, insomma, tale da
dovere il clero e il popolo di Velo ringraziare la Provvidenza che alla
Montanina ci fosse lui e non quel giovine signore di Milano.
Poichè nè Lelia nè sior Momi erano visibili, la Fantuzzo e Teresina
colsero l'occasione gradita di fare insieme quattro chiacchiere in libertà.
Alla Fantuzzo piaceva di stare con Teresina che non le dava soggezione, ch'era
una persona sensata, molto pia, che sapeva tante cose, le raccontava volontieri
e bene. Alla cameriera piaceva di stare colla siora Bettina, tanto santa, che
le parlava riguardosamente. Si vedevano assai di rado ma quando si vedevano
s'illuminavano dolcemente ambedue in viso, facevano insieme, pettegoleggiando,
un chiacchiericcio di canarine, confondevano sul pettegolezzo, con mutua
soddisfazione, i loro commenti di persone savie e timorate. Della Montanina la Fantuzzo non conosceva
che il salone. Teresina l'accompagnò a vedere tutta la villa, tranne le stanze
di Lelia e quelle del padrone, che il sior Momi aveva chiuso a chiave.
«Tanto un bon cristian, vero?» disse la siora. Teresina la guardò
meravigliata, le vide una faccia così convinta, che rispose: «Eh sissignora!».
«E la paronzina?.» riprese la Fantuzzo, con una faccia diversa, molto ambigua.
«Eh sissignora, anca ela» rispose Teresina.
«De religion, m'intendo.»
Teresina rispose da capo, ma un poco turbata: «Eh sissignora.»
Erano uscite dalla sala del biliardo nella veranda aperta, presso un gruppo di
sedie. La siora Bettina sedette e, molto imbarazzata, molto rossa in viso,
domandò alla cameriera se non credesse che la relazione di quella signora di
Arsiero, persona senza rispetto per i sacerdoti, amica del cattivo prete di
Lago, avesse fatto perdere la fede alla ragazza.
«Oh mi no credo no, sala» rispose Teresina, onestamente.
«Perchè La sa, vero?»
Teresina non comprese, lì per li, cosa dovesse sapere, rimase a
bocca aperta. Le due donne si guardarono, una sbalordita, l'altra compunta.
Quest'ultima attese un poco e poi accennò al tentato suicidio. Allora Teresina
capì e le si vide in faccia che aveva capito. Abbassò gli occhi, non rispose.
Abbassò gli occhi anche la siora Bettina, raccogliendosi per rammentare le
istruzioni datele da don Emanuele per un suo eventuale incontro colla
cameriera. Intanto Teresina si riebbe, osservò che lo scritto rivelatore era
stato fatto a pezzi dalla signorina prima di uscire, che forse ell'aveva
rinunciato al suo proposito. La siora Bettina non aveva istruzioni per una
replica e tirò avanti. Domandò, blanda blanda, se la signorina avesse
l'abitudine di pregare la mattina e la sera. Teresina arrossì, malcontenta che
le si chiedessero queste cose intime, e rispose di non sapere. E libri di
pietà, ne aveva la signorina? Aveva un bellissimo libro dei Vangeli, dono del
signor Marcello. E altro? La siora Bettina respirò quando Teresina le disse che
Lelia aveva pure una Filotea e una Via del Paradiso, i suoi libri di pietà del
collegio. E li leggeva? Teresina avrebbe potuto rispondere che non le era
capitato mai di vedere nelle mani di Lelia nè Vangeli nè Filotea nè Via del
Paradiso. Rispose soltanto: «Ma!». L'altra, sentendola diffidente e
conoscendola pia, mise in tavola una carta grossa, sempre con dolcezza timida.
In canonica si sperava che dopo il fatto di quella notte la ragazza andasse
presto a confessarsi. In pari tempo si temeva che ne fosse trattenuta da
riguardi umani. Specialmente don Emanuele, che conosceva il fatto della notte
meglio dell'arciprete, era tanto inquieto, poveretto. Con questo discorso la
siora Bettina non aveva pensato affatto a una trappola. Fu però tale per Teresina
che ci cascò. Ell'aveva espresso un dubbio circa le intenzioni suicide della
signorina. Il dubbio non era sincero e desiderava ella pure, da buona credente,
che la signorina si confessasse. Si tradì con un «sicuro!» che le venne dal
cuore.
La siora Bettina si raccolse ancora. Trovò questa bella uscita:
quanto sarebbe stato meglio che i Trento non si fossero presa la ragazza con
sè! Nel suo dolore per la morte del fidanzato, ella si sarebbe probabilmente
risolta di uscire dal mondo non come aveva pensato quella notte. Si sarebbe
data al Signore.
«Oh mi no credo no, sala!» esclamò per la seconda volta Teresina,
risentita per il biasimo indiretto ai suoi padroni vecchi. E perchè non
credeva? Ma! quel «ma!» era uno scrignetto pieno di ragioni d'oro e chiuso a
chiave. Teresina non lo aperse e la
Fantuzzo credette che non lo aprisse perchè vuoto.
«Sarebbe stata una benedizione» diss'ella. Fu per soggiungere: «e
potrebb'esserlo ancora», ma si ricordò in buon punto che don Emanuele le aveva
prescritto di non avanzarsi troppo. La cameriera espresse il proprio
rincrescimento di non potere più oltre trattenersi con lei, causa certe
faccende. La siora Bettina si alzò.
«Almeno questa confessione» diss'ella.
«Magari!» rispose Teresina.
Accompagnò la
Fantuzzo fino al cancelletto del portico. Al momento del
congedo colei insinuò che Lelia poteva recarsi con qualcuno a Vicenza,
confessarsi a Monte Berico. Si confesserebbe più volontieri, forse.
«Magari!» rispose ancora Teresina. La Fantuzzo osservò che la
proposta di una gita a Monte Berico poteva venire a Lelia dal suo papà.
«Madre!» pensò la cameriera.
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