Di qua,
signore disse il servo che precedeva Silla: il signor conte è in biblioteca.
È questa la
porta della biblioteca?
Sì,
signore.
Silla si
fermò a leggere le seguenti parole, libera citazione del profeta Osea, incise
in una lastra di marmo sopra la porta:
Loquar
ad cor eius in solitudine.
Parole
poetiche e affettuose che prendevano dal marmo una solennità austera, parevano
più che umane nel loro senso indefinito, nella rigidezza grave delle morte
forme latine, mettevano venerazione.
Il servo
aperse l'uscio e disse forte: Il signor Silla. Questi entrò frettoloso,
trepidante.
Parecchi
eruditi e bibliofili lombardi conoscono la biblioteca del Palazzo; una vasta
sala, presso che quadrata, illuminata da due ampie finestre nella parete di
ponente, verso il lago, e da una porta a vetri che mette al giardinetto
pensile, sopra la darsena. Un grande camino antico di marmo nero, sormontato da
putti e fregi di stucco, si apre nella parete di fronte alle finestre, e una
colossale lampada di bronzo pende dal soffitto sopra un tavolo rotondo, zeppo,
per solito, di giornali e di libri. Il mobile più singolare della sala è un
grande orologio da muro, bellissimo lavoro del XVIII secolo, ritto fra le due
finestre. La cassa, scolpita a mezzo rilievo, mostra scene allegoriche delle
stagioni, che da una Fama volante e suonante scendono ad un'altra Fama
addormentata, cui cadono le ali e la tromba. Il quadrante è sorretto da vaghe
danzatrici, le ore; e sopra di esso si vede spiccare il volo una figurina alata
col motto a' piedi:
Psiche
Ignoro se
la nobile famiglia, cui appartiene da pochi mesi il Palazzo, vi abbia lasciata
intatta la biblioteca; allora grandi scaffali altissimi ne nascondevano le
pareti: i libri vi si erano andati accumulando da più generazioni di signori,
molti disformi tra loro di opinioni e di gusti, cosicché ne durava la
contraddizione in quelle scansie, e certe categorie di libri parevano attonite
di sopravvivere a chi le aveva raccolte. Non vi era un libro di scienza fisica
tra moltissime opere forestiere e nostrali di scienze occulte: dietro a libri
d'ascetica o di teologia si celavano opuscoli soverchiamente profani. La
biblioteca deve la sua fama a copiose e bellissime edizioni antiche di classici
greci e latini, non che a un ricchissima collezione di novellieri italiani, di
scritti matematici e d'arte militare, tutti anteriori all'Ottocento. Il conte
Cesare scompigliò la raccolta dei classici greci e latini; cacciò i filosofi e
i teologi verso le nuvole, come diceva lui, si tenne sotto la mano storici e
moralisti; fece incassare e gittare in un magazzino umido i novellieri e i
poeti, tranne Dante, Alfieri e le canzoni piemontesi di Angelo Brofferio.
Vennero a prenderne il posto parecchie opere straniere di soggetto storico,
politico o anche puramente statistico, per lo più inglesi; nessun libro entrò
sotto il regime del conte che trattasse di letteratura, né d'arte, né di
filosofia, né di economia pubblica; quasi nessuno che venisse di Germania,
perché egli non sapeva il tedesco.
Era là,
seduto al tavolo; una lunga e magra figura nera. Si alzò all'entrare di Silla,
gli venne incontro e gli disse con accento piemontese, spiccatissimo:
Voi siete
il signor Corrado Silla?
Sì,
signore.
Vi
ringrazio molto.
Proferite
queste parole con voce dolce e grave, il conte strinse forte la mano al
giovane.
Suppongo
riprese poi che Vi siate meravigliato di non avermi veduto iersera.
Di altre
cose piuttosto... Continuò Silla, ma il conte gli troncò le parole.
Oh bene,
bene, mi fa piacere perché sono gli asini e i furfanti che non si meravigliano
mai di niente. Però il mio segretario Vi avrà detto, in italiano o in tedesco,
che io uso di coricarmi prima delle dieci. Vi pare un'abitudine meravigliosa?
Lo è veramente, perché la tengo da venticinque anni. E come Vi ha condotto quel
briccone di vetturale?
Benissimo.
Il conte
fece sedere Silla; sedette egli stesso e soggiunse:
Ora
vorreste sapere dove Vi ha condotto?
Naturalmente.
Silla
tacque.
Oh,
comprendo bene il Vostro desiderio, ma mi permetterò di non dirvi niente fino a
stasera. Intanto Voi mi fate il favore d'essere un amico che viene a regalarmi
il suo ozio annoiato, o un letterato che vuole assaggiare dei miei libri e del
mio cuoco. Che diavolo, io non parlo di affari con un ospite appena entrato in
casa mia. Questa sera chiacchiereremo. Credo che non starete poi tanto male qui
da non poter trattenervi ancora.
Tutt'altro
rispose Silla con impeto ma Lei deve dirmi...
D'una
sorpresa che avete trovato qui? Sì, può essere che io Vi debba quello; ma io mi
rivolgo alla Vostra cortesia per pregarvi di non parlarmene prima di stasera.
Intanto venite: Vi farò vedere il mio Palazzo, come dicono questi
zoticoni di paesani che potrebbero lasciare alla gloriosa civiltà moderna i
nomi molto grandi per le cose molto piccole. La mia casa è una conchiglia
diss'egli, alzandosi in piedi. Già, una conchiglia dove son nati molti
molluschi che hanno avuti umori differenti. Forse il primo aveva sì, degli
umori un poco ambiziosi; Voi vedete qui dentro che ha lavorato il guscio alla
diavola, senza risparmio. Non ce ne fu poi nessuno che avesse umori epicurei,
per cui la conchiglia è molto incomoda. Quanto a me, ho l'umore misantropo e
faccio diventar nero il guscio ogni giorno più.
Silla non
osò insistere nella sua domanda; subiva un fascino. Il conte Cesare, lungo e
smilzo oltre il credibile, con quel suo testone d'irti capelli grigi, con
quegli occhi severi nel volto ossuto, olivastro e tutto raso, sorprendeva. Nel
suo vocione di basso profondo si sentivano tesori di dolcezza e di collera.
Questa voce si muoveva sempre con un'onda appassionata, gettando, piene di vita
e di originalità le frasi più volgari; veniva vibrante su dalle cavità di un
gran cuore, di un petto di bronzo, all'opposto di certe malfide voci acute che
scoppiettano, si direbbe, alla punta della lingua.
Egli
vestiva un soprabito nero, lungo sino al ginocchio, con certe manicacce
sformate da cui usciva la mano bianca e bellissima. Portava un cravattone nero;
de' solini si vedevano appena le punte.
Prima di
tutto diss'egli additando le librerie mi permetto di presentarvi la società
dove passo molte ore tutti i giorni. Vi è della gente come si deve, vi sono dei
furfantoni e una forte maggioranza di imbecilli che io ho mandato, da buon
cristiano, quanto più vicino al regno dei cieli ho potuto. Là ci sono poeti,
romanzieri e letterati. Posso ben dire questo a Voi sebbene siete un poco uomo
di lettere, perché l'ho detto anche al cavalier d'Azeglio, il quale, con tutte
le sua manie di scombiccherar tele e di scriver frottole, ha un certo fondo di
buon senso, e si è messo a ridere. Ci sono anche molti teologi lassù. Là, quei
domenicani bianchi. Vengono da un Vescovo di Novara, mio prozio, che aveva
molto tempo da buttar via. Quanto a' miei amici, spero che ne farete la
conoscenza Voi stesso. Sono tutti sotto gli occhi e sotto la mano. E adesso
andiamo, se Vi piace, a fare questo giro.
Prese il
braccio di Silla e uscì con lui.
Il Palazzo
sta sull'entrata di un recondito seno dove il piccolo lago di... corre ad
appiattarsi fra due coste boscose. Costrutto nello stile del XVII secolo,
fronteggia il mezzogiorno con l'ala sinistra e con la destra il ponente. Una
loggia di cinque arcate verso il lago e tre verso il monte, corre obliqua tra
le due ali, congiungendone i primi piani sopra un enorme macigno nero che si
protende sull'acqua. Morso dallo scalpello del giardiniere, quel masso ha
dovuto accogliere qua e là del terriccio dove portulache, verbene e petunie
ridono alla spensierata. L'ala dritta dov'è la biblioteca, edificata forse per
dimora d'estate, si specchia gravemente nelle acque della cala. In faccia, a
cinquanta passi, ha una solitaria costa vestita di nocciuoli e di carpini; a
destra un vallone erboso dove il lago muore; vigneti e cipressi le salgono
dietro il tetto a spiar nell'acqua verde, tanto limpida che quando d'estate,
sul mezzogiorno, vi entra il sole, lo sguardo vi discende lungo tratto per le
grandi alghe immobili e vede giù nel profondo qualche rara ombra di pesce
passar lentamente sui sassi giallastri.
L'ala
sinistra guarda il lago aperto, montagne in faccia, montagne a levante; a
ponente, verso la pianura, uno sfondo di colline, di prati rigati di pioppe cui
si curva un arco di cielo. Tra levante e mezzogiorno il lago gira dietro un
promontorio, un alto scoglio rossastro, a nascondervi la sua fine oscura;
piccolo lago di misura e di fama, ambizioso però e orgoglioso della sua corona
di monti, appassionato, mutabile; ora violetto, ora verde, ora plumbeo;
talvolta, verso la pianura anche azzurro. Là è il suo riso, là si colora delle
nuvole infocate al tramonto e brilla d'una sola fiamma quando il vento
meridiano lo corruga sotto l'alto sole d'estate. Da tutte l'altre parti si
spiegano i manti delle montagne boscose sino alla cima, macchiate da
cenerognole scoscenditure di scogli, da ombre di valloni, da praticelli di
smeraldo. A levante il lago mette capo a una valle; i monti vi ascendono a
scaglioni verso l'Alpe dei Fiori, lontane rocce dentate che tagliano il cielo.
Dentro quella valle, a breve distanza del lago, si vede la chiesa di un
paesello; e anche dal lato opposto, sul ciglio della costa che scende a morir
nelle praterie, biancheggia un campanile fra i noci.
Alle spalle
del Palazzo il piccone e il badile hanno vigorosamente assalita la montagna e
conquistatone il cortile semicircolare, dove mormora un getto cristallino che
ricade ondulando tra gli eleganti gynereum e le ampie foglie degli arum,
quasi fiore animato di quella vegetazione tropicale. Altri due grandi mazzi
ovali di fiori e di foglie si spandono ai lati di questo, fuor dalla ghiaia
candida e fine. Per le muraglie di sostegno addossate al monte serpeggiano e
s'incrocicchiano le mille braccia delle passiflore, delle glicine, de'
gelsomini, fragili creature amorose che cercano dappertutto un sostegno e lo
vestono, grate, di fiori. Due fasci di passiflore si abbrancano pure agli
angoli interni dei due fabbricati e salgono a gittar le frondi scarmigliate sin
dentro la loggia.
A mezzo
della muraglia di sostegno, propriamente in faccia alla loggia, sale il monte
tra il versante di mezzogiorno e quello di ponente un'ampia scalinata a
ripiani, fiancheggiata di cipressi colossali e di statue. A destra e a sinistra
si stendono reggimenti di viti, allineate in ordine di parata. Alcuni dei
cipressi han perduto la cima e mostrano la fenditura nera d'un fulmine; i più
sono intatti e potenti nella loro augusta vecchiaia. Paion ciclopi enormi che
scendano solennemente dal monte a lavarsi; e mettono intorno a sé il silenzio
dello stupore.
Delle
statue, appena otto o dieci durano su piedestalli, mascherati da fitti domino
d'edera. Ne stendono fuori le braccia ignude e accennano, simili a minacciose sibille
o piuttosto ninfe già sopraffatte e irrigidite da una strana metamorfosi. Il
figlio del giardiniere seguiva quest'ultima interpretazione e usava porre loro
in mano dei fasci di erbe e di fiori. A sommo della scalinata sta un'ampia
vasca appoggiata ad una elegante parete greggia a mosaico bianco, rosso e nero,
ripartito in cinque arcate intorno ad altrettante nicchie, ciascuna con la sua
urna di marmo; in quella di mezzo una Naiade ignuda e ridente si curva
sull'urna, la inclina col piede; e n'esce a fiotti l'acqua che dalla vasca è
condotta per un tubo nascosto a zampillare nel cortile, tra i fiori. Sul
piedestallo della statua sono incise le famose parole di Eraclito:
panta
rei
Dalla
biblioteca, posta all'estremità di ponente della villa, si esce ad un
giardinetto pensile coperto quasi tutto dall'ombra d'una superba magnolia. Una
scaletta scoperta ne discende al cortile presso alla porticina della darsena e
al cancello d'uscita. Si va di là, per un'umile stradicciuola, a R...
All'altro
capo della villa una massiccia balaustrata corre sul dorso agli scogli
sporgenti dall'acqua. Dentro dalla balaustrata è un gran viale; dentro dal
viale una lista di aiuole fiorite, quindi un'alta e spaziosa serra d'agrumi che
nella buona stagione manda i suoi avamposti, certi enormi vasi di limone, a
specchiarsi dai pilastrini della balaustrata nel lago chiaro. In fondo al viale
il muro di cinta è dissimulato da una selvetta di abeti che lo accompagna su
pel monte, come un nastro nero, avvolgente la casetta del giardiniere presso il
cancello, che mette, per un ripido viottolo conosciuto da noi, alla strada
provinciale.
Con i suoi
cipressi, con le vigne, con la collana d'abeti, con il lago a' piedi, la villa
sarebbe assai graziosa a guardare in fotografia a traverso le lenti d'uno
stereoscopio, se la scienza sapesse riprodurvi i verdi cupi e i brillanti, le
acque diafane e il mobile riverbero del sole sulle vecchie mura. Si potrebbero
immaginare davanti alle sue finestre ampie distese di lago, felici paesi, altre
ville, altri giardini ridenti fra l'acqua e il cielo. Anche veduto con la sua
scena solitaria e severa, il Palazzo non è triste. Fuori del recinto le sponde
che guardano mezzogiorno verdeggiano di ulivi frequenti, parlano di dolci
invernate; e per la gran porta aperta laggiù verso la pianura dove il sole
tramonta entrano le immagini e quasi il suono della intensa vita delle opere
umane; per là escono gli occhi e l'anima quando hanno bisogno di veder lontano,
d'immaginare liberamente. Il Palazzo domina quel deserto con la sua grandiosità
signorile; chi vi abita può credersi padrone di quanto vede; credersi un re
superbo a cui nessuno osa accostarsi, i monti difendono il trono e le onde
lambiscono i piedi.
Dicono che
non è male la vista qui disse il conte entrando in loggia con Silla. Pare anche
a me sufficientemente passabile. Leggete là. Gli additò una lapide sopra l'arco
posteriore di mezzo.
Silla lesse:
EMANUEL DE ORMENGO
TRIBUNATU
MILITARI APUD SABAUDOS FUNCTUS
MATERNO IN
AGRO
DOMUM
MAGNO
AQUARUM ATQUE MONTIUM SlLENTIO CIRCUMFUSAM
AEDIFICAVIT
UT SE
FESSUM BELLO
POTENTIUM
INGRATITUDINE LABORANTEM
HUC
VESPERASCENTE
VITA RECIPERET
ATQUE
NEPOTES
IN PARI
FORTUNA
PARI
OBLIVIONE
FRUERENTUR
MDCCVII.
Eh! esclamò
il conte, ritto, dietro Silla, sulle gambe aperte e con le mani congiunte sul
dorso. Questo mio buon bisavo ha assaggiati e sputati i re, come vedete. È per
questo che io non ne ho mai voluto rigustare, e credo non servirei un re, se
non quando dovessi scegliere tra lui e il canagliume democratico. Un uomo di
ferro, quello lì. Non c'è che principi e democrazie per rompere e buttar via
uno strumento simile. Uuh! Voi non credete quello?
Io sono
devoto al re rispose commosso il giovane e mi sono battuto con lui per
l'Italia.
Ah, per
l'Italia! Molto bene. Ma Voi mi dite il caso di un giorno e io parlo di
istituzioni che si giudicano sulla testimonianza dei secoli. Anch'io tengo un
segretario democratico e gli voglio molto bene perché è il più buono e onesto
bestione della terra. Del resto se avete un ideale non lo voglio guastare,
qualunque esso sia, perché senza ideale il cuore cade nel ventre.
E il Suo
ideale? disse Silla.
Il mio?
Guardate un poco.
Il conte si
affacciò al parapetto verso il lago.
Voi vedete
dove ho scelta la mia dimora, tra le manifestazioni più alte della natura, in
mezzo ad una magnifica aristocrazia che non è punto ricca, ma è potente, vede
molto lontano, difende le pianure, raccoglie forza per la vita industriale del
paese, genera aria pura e vivificante, e non prende niente per tutti questi
benefizi, altro che la sua preminenza e la sua maestà. Io non so se Voi capite
ora qual è il mio ideale politico e perché vivo fuor del mondo; res publica
mea non est de hoc mundo. Andiamo.
Il conte
era un cicerone diligentissimo, faceva osservare a Silla ogni menomo oggetto
che potesse parer notevole, spiegava i concetti dell'antenato di ferro,
fondatore del Palazzo, come se avesse abitato nel suo cervello. Quel vecchio
soldato aveva fatto le cose da gran signore. Casa d'inverno, casa d'estate; tre
piani per ciascuna: cucine, cantine, magazzini ed altre stanze di servizio
affondate a mezz'altezza nel suolo; scalone architettonico nell'ala di levante;
grandi sale di parata ai primi piani. Queste erano state dipinte con fantasia
sgangherata da un ignoto pittore che vi aveva tirato giù delle architetture
romanzesche, tutte logge, terrazze e obelischi, roba dell'altro mondo; e delle
farraginose scene militari, certe zuffe di cavalleria assai lontane dai
precetti di Leonardo, scorrettissime nel disegno, ma non prive di vita.
Sento disse
il conte facendole vedere a Silla sento dai miei buoni amici che questo pittore
è stato un goffo; anzi qualcuno si degna di dire un bue. Io non me ne intendo
niente, ma mi fa molto piacere di udire quello, perché non amo gli artisti.
Verissimo;
non li amava, né li intendeva. Possedeva molti quadri, alcuni dei quali
eccellenti, raccolti in gran parte da sua madre, nata marchesa B... di Firenze,
che amava la pittura con passione. Il conte non ne capiva un iota e faceva
sbigottire i suoi amici, snocciolando pacatamente le maggiori empietà. Avrebbe
voltato di buon grado con la faccia al muro un ritratto di Raffaello e fatto
fodere di un Tiziano; non ne gustava la vista più che della tela greggia e non
avrebbe nascosto, per tutto l'oro del mondo, il suo pensiero. Gli erano meno
odiosi i pittori arcaici, perché li trovava meno artisti, più cittadini. Non
sapeva poi ragionare questo suo giudizio. Aveva invece in uggia particolare la
pittura di paesaggio che stimava indizio di decadenza civile, arte ispirata
dallo scetticismo, dal disprezzo dei doveri sociali e da una specie di
materialismo sentimentale. Non era uomo da disperdere i quadri prediletti da
sua madre, ma li teneva prigionieri in un lungo corridoio al secondo piano a
tramontana, sopra la sala da pranzo, dove aurore e tramonti s'intirizzivano
nelle loro cornici dorate.
Nell'entrare
per uno dei due usci che mettono capo a questo corridoio, parve a Silla che
qualcuno fuggisse per l'altro; vide un lampo negli occhi della sua guida. Le
tre finestre del corridoio erano spalancate; ma, poteva venire dalle finestre
quell'odore di mown hay?
Uno degli antichi
seggioloni di cuoio addossati alle pareti a eguali intervalli e spiranti
gravità prelatizia, era stato trascinato per isghembo vicino alla finestra di
mezzo, in faccia a un Canaletto meraviglioso; e sul davanzale della finestra
c'era un libro aperto, tutto sgualcito ma candidissimo.
Vedete
disse il conte, chiudendo tranquillamente le invetriate della prima finestra io
tengo qui delle possessioni strabocchevoli. Tengo montagne, boschi, pianure,
fiumi, laghi e anche una discreta collezione di mari.
Ma qui
esclamò Silla vi sono tesori!
Ah! la tela
è molto vecchia e d'infima qualità.
Così
dicendo il conte mise il seggiolone a posto.
Ma come,
tela! Ma questo soggetto veneziano, per esempio?
Neppure Venezia
mi piace, che pure, assicurano, vale qualcosa. Pensate questo!
Prese il
libro ch'era sul davanzale della seconda finestra, lo chiuse, guardò il
frontespizio, e, come facesse la cosa più naturale del mondo, lo gettò nel
cortile, e chiuse la finestra. In quel punto si udì un colpo furioso, un
frangersi di lastre, un grandinar di vetri rotti sulla ghiaia. Il conte si
volse a Silla continuando il suo discorso come se nulla fosse stato. Io non ho
mai potuto soffrire quella lurida, puzzolente, cenciosa città di Venezia, che
perde a brani il suo manto unto e bisunto di vecchia cortigiana, e mostra certa
biancheria sudicia, certa vecchia pelle schifosa. Voi dite in cuor vostro:
Quest'uomo è una gran bestia! Non è vero? Sì, me lo hanno fatto capire degli altri.
Ooh! naturalmente. Notate che io sono un grande ammiratore de' veneziani
antichi, che ho parenti a Venezia e forse qualche poco di sangue veneziano
nelle vene, del migliore. Cosa volete? Sono un animale grosso ma nuovo in
Italia, dove, grazie a Dio, le bestie non mancano. Dove trovate un italiano
bastantemente colto che vi parli come vi parlo io dell'arte? La grande
maggioranza degli uomini educati non ne capisce niente, ma si guarda molto bene
dal confessarlo. È curioso di star ad ascoltare un gruppo di questi sciocconi
ipocriti davanti ad un quadro o a una statua, quando fanno una fatica del
diavolo per metter fuori dell'ammirazione, credendo ciascuno di aver che fare
con degli intelligenti. Se potessero levarsi la maschera tutti ad un tratto,
udreste che risata!
S'affacciò
alla terza finestra, e chiamò:
Enrico!
Una voce
quasi infantile rispose dalla cucina:
Son qui!
Vengo!
Il conte
attese un poco, e poi disse:
Portami su
quel libro. Quindi chiuse la finestra.
Silla non
si poteva staccare dai quadri.
Starei qui
un giorno diss'egli.
Anche Voi?
Anche!
L'altro chi era? Era forse la giovane signora di cui gli aveva parlato il
vetturale? Il seggiolone fuor di posto, il libro, il profumo di mown hay erano indizi del suo recente
passaggio? Quella porta chiusa in fretta, quel lampo degli occhi del conte?...
Silla non aveva ancor visto al palazzo che il conte, Steinegge e i domestici.
Nessuno gli aveva nemmanco parlato d'altre persone.
Alcune ore
più tardi, dopo aver girato per lungo e per largo il palazzo e il giardino
senza trovar nessuno ed essersi ritirato per qualche tempo nella sua stanza,
notò, entrando nella sala da pranzo con il conte e Steinegge, che quattro
posate erano state disposte ai quattro punti cardinali della tavola. I
commensali nord, sud e ovest presero il loro posto; ma l'ignoto commensale
dell'oriente non compariva. Il conte uscì, tornò dopo dieci minuti e fece
portar via la posata.
Credevo che
avrei potuto presentarvi mia nipote diss'egli a Silla ma pare ch'ella non si
senta bene.
Silla disse
una parola di rammarico; Steinegge, rigido più che mai, seguitò a mangiare,
tenendo gli occhi sul piatto; il conte pareva molto rannuvolato, e persino il
cameriere che serviva aveva una fisionomia misteriosa. Per quasi tutto il
pranzo non si udì nella sala scura e fresca che il passo ossequioso del
cameriere, il tintinnìo delle posate e dei bicchieri che si allargava tra gli
echi della volta. Per le finestre socchiuse entrava un ampio strepito di
cicale, si vedevano brillar nel sole le frondi del vigneto, cangiar colore
l'erbe piegate via via dal vento. Là fuori si doveva stare più allegri.
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