Sì, il
Cristianesimo, lo capisco bene disse il conte, pigliando in mano un alfiere e
guardandolo attentamente. Non so chi sia la bestia che vuol tenerci così al
buio.
Le imposte erano
socchiuse e le tendine calate. Silla si alzò per fare un po' di luce.
No, Vi
prego; vengano loro, questa gente! Volete aver la compiacenza di suonare? Lì,
presso alla porta, quel bottone, due volte. Il Cristianesimo! Oh, io non Vi
propongo di scrivere contro il Cristianesimo. Voi mi dite che finalmente il
principio d'eguaglianza è stato portato nel mondo dal Cristianesimo. Cosa
volete dire con questo? Che prima del Cristianesimo non vi fossero democrazie?
Io intendo che il nostro libro consideri il principio di eguaglianza dov'è più
mostruoso, ossia nel campo politico; e fra gli altri pregiudizi da fare in
polvere vi sarà anche il pregiudizio che l'autore di questa brutale eguaglianza
politica sia stato Cristo. Del resto, sentite: uguali davanti a Dio sarà
benissimo; quello è un punto di vista molto lontano; ma uguali tra di noi! Ci
vuole una grande durezza, una grande miopia fisica e intellettuale per
sostenere che siamo uguali tra di noi. Se vi è qualche cosa che colpisce gli
uomini è la loro disuguaglianza naturale nel corpo e nell'anima. Il mio cuoco è
molto più simile ad Annibale e a Scipione Africano di un gorilla, ma non è loro
eguale; e tutti i retori dell'89 e gli ambiziosi leccapopolo di poi non lo
faranno diventare tale. Scacco al re.
Non si può.
Ma, scusi, ci son pure negli uomini i grandi caratteri fondamentali comuni che
tutti conoscono e tante altre uniformità più nascoste. Io credo che gli uomini
si rassomiglino moralmente assai più di quel che pare. E queste uniformità non
devono essere riconosciute dalle leggi, non giustificano il principio di
eguaglianza e le sue applicazioni ragionevoli? C'erano democrazie anche prima
del Cristianesimo, sì; tutti i principii del Cristianesimo c'erano, si può
dire, anche prima; ma esso ha loro fornito, volere o non volere, una base, uno
stimolo e un ideale. Guardi l'immensa importanza attribuita a qualunque anima:
guardi il precetto dell'amore tra gli uomini; nulla uguaglia più potentemente
dell'amore!
Scusatemi, vi è ancor molto fumo di gioventù
in questo che dite. Lasciamo stare che la democrazia moderna è fatta di
cupidigia e di superbia, non di amore; io Vi dico che l'amore tende a mantenere
la ineguaglianza! io Vi dico che più un servo ama il suo padrone, più un
soldato ama il suo generale, più una donna ama un uomo, più un debole ama un
forte, più un piccolo ama un grande, più queste disuguaglianze sono rispettate.
È la cupidigia, è la superbia che tende a distruggerle.
Ma Lei
suppone l'amore da una parte sola esclamò Silla dalla parte dell'inferiore. Lo
supponga un po' anche dall'altra.
Sicuramente
lo suppongo. Volete Voi dirmi che Dio per amore si è fatto uomo? Io non entro
in questo campo. Io dico che chi ama, se è intelligente, non si spoglia, non
può né deve spogliarsi della funzione sociale che gli spetta. Io dico che la
Vostra religione, se aiuta a far rispettare le disuguaglianze create dalla
legge umana, molto più deve far rispettare le altre che portano la impronta di
una volontà superiore. Ha ben altro a fare il Vostro amor del prossimo che impastare
repubbliche democratiche, predicar l'eguaglianza fra i pedoni e gli altri
pezzi, perché son tutti di legno e abitano un solo scacchiere! Mio caro, è
mezz'ora che Vi ho detto: scacco al re.
Non si può:
c'è il cavaliere.
Il conte
chinò sullo scacchiere il suo testone selvoso.
Già!
diss'egli. Non ci si vede. Ma guardate un po' s'è venuto nessuno! No, non
voglio che apriate Voi.
Si alzò e
suonò egli stesso.
Mi perdoni,
disse Silla è necessario che io Le faccia una domanda.
Fate.
Secondo
Lei, è anche la nascita... fra le disuguaglianze da rispettare?
Per Dio! Lo
credo bene. Vi regalo delle centinaie di gentiluomiciattoli d'adesso per un
quattrino al paio, ma non capite che la disuguaglianza degl'individui crea la
disuguaglianza delle famiglie e che le grandi famiglie sorte per un potente
impulso e tenute alte lungo i secoli, hanno una funzione organica nella società
umana, sono in certo modo esseri superiori che vivono quattro, cinque, seicento
anni e dispongono perciò di una forza assai più grande della comune, possono
conservare lungamente molte buone abitudini, contrapporre l'interesse della
patria a quello di una generazione passeggera, acquistare in pro dello Stato
una esperienza straordinariamente lunga, servire di guida e di esempio al
popolo?
Ha suonato?
disse il cameriere entrando.
Chi diavolo
vi ha detto esclamò il conte di tener le finestre chiuse a questo modo?
Non sono io
che ho chiuso; deve essere stata la signora Fanny.
Il conte
calò un pugno sul tavolo.
Dov'è
questa signora Fanny?
Credo che
sia giù lì nel cortile.
A far che,
nel cortile?
Il
cameriere esitò un momento.
Non lo so
diss'egli.
Il conte si
alzò, andò ad aprire bruscamente la finestra, guardò giù, brontolò
un'esclamazione piemontese e disse al cameriere:
Vengano su
tutt'e due.
Il cameriere
s'inchinò.
Ah, non lo
sapevate! esclamò il conte.
Quegli,
mogio mogio, uscì.
Pare
impossibile! disse il conte. Quell'asino di dottore che fa la ruota intorno
alla cameriera di mia nipote. In giardino come due colombi!
Un minuto
dopo entrò il pitòr tutto rosso, ed esclamando Che combinazione! che
combinazione! disse di essere giusta venuto per fare una partitina...
Con Fanny
interruppe il conte.
Il dottore
rise molto e disse che il conte aveva voglia di ridere. Non pareva, però, a
guardarlo; e il dottore, ridendo di meno, lo guardava sempre.
Disse poi
che la signora Fanny non aveva volsuto venire perché era stata chiamata
dalla sua padrona.
Cedo il mio
posto al dottore disse Silla, alzandosi. Il dottore protestò che non voleva
assolutamente, che gli bastava di stare a vedere e che già il conte a giuocar
con lui non si divertiva. Ma Silla insistette; temeva una scena e non gli
garbava di assistervi.
Tornerò
diss'egli ripiglierò la partita più tardi.
Uscito lui,
Fanny, tutta imbronciata, porse il viso per la porta e disse:
Cosa
comanda?
Che veniate
avanti.
Fanny
aperse l'uscio un po' più, ma non si mosse.
Che veniate
avanti! gridò il conte.
Ella fece
un passo.
E che non
v'immischiate di aprire né di chiudere imposte nelle mie camere! E che non
perdiate tanto tempo in giardino dove non c'è niente per voi!
Il povero
dottore, sulle spine, aveva insinuata la punta del naso fra il re e la regina,
e fissava fieramente il pedone avanzato del re nemico.
È la
marchesina... cominciò Fanny provocante, facendo girar la maniglia dell'uscio.
Dite alla
marchesina di venir qua interruppe il conte.
Fanny se ne
andò battendo l'uscio e brontolando.
Sciocca!
disse il conte, ritirando la sua regina dalla seconda casa dell'alfiere del re
avversario, dove l'aveva portata senza avvedersi che un cavaliere la
minacciava.
Fece
un'altra mossa e soggiunse:
Non le
pare, dottore?
È magari un
po' leggerina, sì, già rispose vigliaccamente il pitòr, spingendo due
passi il pedone della regina e offendendo il pedone del re avversario.
Tenga bene
a mente, caro dottore disse il conte non si perda colle pedine, specialmente
quando giuoca in casa mia; non Le tornerebbe conto davvero.
Il dottore
fece fare al suo cavaliere un salto fantastico.
Cosa fa?
disse il conte.
Quegli si
batté la fronte, ritirò il pezzo e disse ch'era ottuso per il gran caldo,
ch'era partito di casa alle undici e aveva fatto quattro o cinque visite sotto
il sole bruciante.
Oh! esclamò
il conte trasalendo e guardando l'orologio. E io che dimenticavo! Debbo andar a
incontrare alcuni amici.
Al dottore
non parve vero di poter troncare quella partita penosa.
Tralasciamo,
tralasciamo diss'egli verrò bene un'altra volta.
Ed ecco da
capo Fanny.
La signora
marchesina desidera sapere disse ella cosa il signor conte vuole da lei.
Ditele che
la prego di voler finire, in vece mia, una partita a scacchi con il signor
dottore.
Ah Signore
esclamò questi che non si disturbi mica per me!
Andate
disse il conte.
Gli occhi
del dottore, poi che rimase solo, brillarono.
Ah che non
mi perda con le pedine? disse egli tra sé, fregandosi le mani. Per la tua bella
faccia! Togli su.
Aveva
poc'anzi ottenuto da Fanny un appuntamento per quella notte alla cappelletta,
un luogo solitario, a riva del lago, poco discosto dal Palazzo. Fanny avea
promesso che vi sarebbe venuta con la lancia dopo mezzanotte. Era irrequieto,
girava pel salotto, cercava uno specchio per vedersi felice e farsi delle
congratulazioni. Non c'erano specchi là, non c'erano che i vetri aperti della
finestra, dove gli riuscì d'intravvedere una languida immagine del suo viso
beato. Guardò giù nel cortile dove era stato visto dal conte a colloquio con
Fanny, e mormorò:
Maledetta
finestra!
Il conte
attraversava il cortile e saliva imperterrito la scalinata arsa dal sole, fra
le grandi ombre ferme dei cipressi, lo stormire, il luccicar delle vigne corse
dal vento meridiano. Il dottore gli diede un'occhiata e, sicuro del fatto suo,
se la svignò in cerca di Fanny.
Intanto il
pedone della regina bianca e il pedone del re nero, stretti corpo a corpo per
obliquo e immobili, si domandavano se vi fosse pace o armistizio o Consiglio di
guerra. Ma né loro né altri in tutto il campo ne sapeva nulla. Si diceva bensì,
tra i neri come tra i bianchi, che la campagna era male condotta, senza
energia, e che l'azione militare era subordinata a una azione diplomatica molto
varia, molto estesa, a cui prendevano parte successivamente, per diversi scopi,
parecchie Potenze. Infatti la era una partita come quelle che i venti
giuocavano qualche volta sul piccolo lago, sfiorandolo appena, facendovi correr
su le veloci, da opposte parti, piccole macchie brune, mentre la guerra grossa
urlava in alto, sopra le cime delle montagne fra i nuvoloni pieni di mistero e
di inimicizie.
Sono qui disse Silla entrando, e si fermò sui
due piedi. Come mai non c'era nessuno? Si accostò allo scacchiere. La partita
non era terminata: tutt'altro; dopo che l'aveva lasciata lui non s'erano fatte
che due mosse. Si guardò attorno e, visti sopra una sedia il cappello e la
mazza del dottore, suppose che almeno costui sarebbe tornato presto e si mise
alla finestra.
Pensò alle
parole del conte sulla uguaglianza politica, sui privilegi della nascita. Era
una fosca nube che sorgeva davanti a lui. Veramente, non aveva studi speciali
in questi argomenti, ma dall'Università in poi era stato nutrito d'idee opposte
a quelle del conte, avea respirato la vibrata aria democratica della società
moderna e ora non credeva quasi possibile che un repubblicano come il conte
avesse simili convinzioni. Adesso intendeva certe frasi, discorsi precedenti
del conte, di cui, a prima giunta, non aveva potuto afferrare il senso e
rimproverava se stesso di aver troppo leggermente accondisceso a farsi suo
collaboratore.
Quando il
conte gli aveva manifestato il tema del lavoro che aveva in animo di affidargli
e a cui proponeva questo titolo: Principii di politica positiva, Silla
avea bene espresso le sue riserve sulla questione che vi si dibattesse fra la
repubblica e la monarchia, ma non aveva pensato a quest'altro dissidio. Il conte
aveva subito accettate queste riserve, dichiarando che mai, in nessun caso, gli
avrebbe proposto di sacrificare le proprie opinioni; che forse, trattando
l'argomento in generale e con principii positivi, avrebbero potuto accordarsi
molto più facilmente di quanto paresse probabile; che ad ogni modo avrebbero
discusso tutto. E s'eran posti immediatamente all'opera incominciando con una
esposizione rapida delle vicissitudini della scienza dai Greci in poi. Ma ora
Silla sentiva aprirsi un dissenso molto più profondo. Che fare? Accettare una
discussione nella quale potrebbe rimaner vinto per mancanza di studi? Era un
pericolo grave. D'altra parte, quale fierezza e quale audacia nelle idee del
conte, quale disprezzo delle opinioni volgari e della corrente umana! Sarebbe
stata un'umiliazione inesprimibile ritirarsi senza lotta, riconfondersi con la
moltitudine, lasciando solo quest'uomo nell'attitudine così nobile di uno
contro tutti. No, bisogna stare a fronte di lui, e non a fianco delle passioni,
dei pregiudizi democratici; sostenere la nobiltà e la grandezza del principio
di eguaglianza, con l'aiuto di quello stesso spiritualismo religioso che deve
poi regolarne l'applicazione, secondo un ideale elevatissimo di fraternità;
ammettere di buon grado gli errori, le ingiustizie, la cecità, le
insopportabili pretese del sentimento democratico moderno; ma poi combattere;
combattere sopra tutto l'orgoglio aristocratico, i privilegi della nascita. In
quest'ultimo pensiero il sangue di Silla si veniva riscaldando, il cuore gli
batteva più rapido, buttava fuoco dal petto e fiere parole di passione che non
erano dirette al conte.
No, Silla,
poco a poco, involontariamente, s'immaginava di fronte a donna Marina, la
vedeva passare con la sua indifferenza altera, tanto più pungente quanto più la
persona era delicata e graziosa, con il suo freddo sguardo che scintillava solo
talvolta incontrando quello del conte. A lei Silla dirigeva mentalmente la sua
eloquenza. Non ne aveva ottenute tre parole in venti giorni; anche senza parlare
ella gli aveva ben fatto intendere che non lo stimava degno né di cortesia né
di attenzione. Almeno Silla credeva così, e fino dai primi giorni si era
regolato con lei secondo questa idea, opponendo alterezza ad alterezza, non
senza soffrirne però, non senza una specie di voluttà amara che in presenza di
lei gli stringeva forte il cuore. E ora gli pareva di attraversarle il cammino,
di fermarla, volesse o no, di chiederle cosa credesse mai...
Dunque,
dottore? disse una voce dietro a lui.
Silla si
voltò in fretta. Era ben lei, donna Marina, seduta davanti allo scacchiere.
Io prendo
il nero diss'ella, guardando attentamente i pezzi.
Ell'era
dunque venuta leggera come una fata, o Silla si era ben lasciato affondare nei
suoi pensieri!
Egli non si
mosse.
Dottore!
disse Marina con accento di sorpresa. Alzò la testa e vide Silla.
Aggrottò un
istante le sopracciglia, tornò a guardare attentamente lo scacchiere, e disse
con la sua voce gelida:
Dov'è il
dottore?
Non lo so,
signorina.
Avvicini un
poco le imposte soggiunse Marina quasi sottovoce, senza guardarlo.
Silla finse
di non aver inteso, si staccò dalla finestra e passò dietro a lei, per uscire.
Ella non alzò il capo, ma quando Silla fu presso all'uscio, gli disse, sempre
sullo stesso tono:
La prego,
avvicini un poco le imposte.
Silla tornò
indietro silenziosamente, senz'affrettarsi, avvicinò le imposte e si avviò da
capo alla porta.
Sa
giuocare? disse donna Marina.
Silla si
fermò, sorpreso.
Ell'aveva
alzata la testa, finalmente; ma adesso faceva scuro nella camera e non si
poteva vedere l'espressione del suo sguardo. La voce suonava tuttavia di fredda
insolenza. Silla s'inchinò.
Donna
Marina aspettava forse che si offrisse per finire la partita con lei; ma questa
offerta non veniva. Accennò allora la sedia vuota in faccia a lei e con un
gesto della mano destra, senza muovere affatto la testa. Evidentemente quella
mano non aveva detto prego ma permetto.
Silla si
sentì vile. Era forse la sottile fragranza entrata nella camera, la stessa
fragranza sentita il giorno del suo arrivo nella galleria dei paesaggi, che ora
gli ammorbidiva l'orgoglio, gli diceva, a nome di Marina, tante cose blande.
Voleva rifiutare e non poteva.
Ha paura?
disse donna Marina.
Silla prese
la sedia vuota.
Di vincere,
signorina rispose.
Ella alzò
gli occhi in viso. Adesso Silla poteva quasi sentire il tepore di quel viso;
adesso vedeva bene i grandi occhi freddi che lo interrogavano insieme con le
labbra.
Perché, di
vincere?
Perché non
so farmi inferiore se non lo sono.
Ella alzò
impercettibilmente le sopracciglia come altri avrebbe alzato le spalle, guardò
lo scacchiere tenendo l'indice arcuato sul mento, e disse:
Movo io.
Porse la
mano, la tenne un momento sospesa sui pezzi.
La lama di
luce ch'entrava fra le imposte socchiuse le batteva sui capelli capricciosi,
sulla guancia pallida, sull'orecchio delicatissimo, sulla piccola mano bianca
sospesa in aria, lumeggiata, nell'ombra, di trasparenze rosee, mostrava una
bella figura tranquilla, intenta al giuoco. Silla non era così tranquillo, pensava
involontariamente, guardandola, che l'avrebbe baciata e morsa. Donna Marina
prese il pedone della regina bianca e lo gittò nel bossolo.
Crede
proprio di non essere inferiore? diss'ella.
Non so come
Lei giuochi rispose Silla movendo un alfiere.
Ella mise
un breve riso metallico guardando l'alfiere nemico, e disse:
Vede, io so
invece come giuoca Lei. Lei giuoca prudente. Ha paura di perdere, non di
vincere.
A questo
punto il dottore spinse l'uscio, e vista la partita impegnata, si fermò. Marina
parve non vederlo. Quegli richiuse l'uscio piano piano.
Cosa fa
adesso? proseguì Marina con accento più vibrante. Perché non esce fuori con la
Regina? Perché non attacca sinceramente?
Io non
attacco. Mi basta difendermi, e Le assicuro, marchesina, che lo posso fare
abbastanza bene. Perché vorrebbe Lei che attaccassi?
Perché
allora la finirei più presto.
Secondo.
Si provi
disse Marina.
Silla chinò
la testa, con intensa attenzione, sullo scacchiere.
Donna
Marina fece un atto d'impazienza e si alzò in piedi.
È inutile
che studii tanto diss'ella. Le assicuro che non vincerà. Non vincerà ripeté
scompigliando con la mano e rovesciando i pezzi.
Io non ho
giuocato contro di Lei altra partita che questa, e credo che non giuocherò più.
Meglio per
Lei.
Oh, né
meglio né peggio.
Sicuro
diss'ella con accento sarcastico. Ella non è qui per giuocare contro di me; è
qui per fare degli studi profondi con il conte Cesare, non è vero? Che studi
sono?
Silla
godeva di sentirla irritata; era una vittoria.
Di nessun
interesse per Lei, signorina rispose.
Ella restò
un momento pensierosa e poi tornò a sedere.
Quali
dubbi, quali pensieri di conciliazione le passavano pel capo? Recò ambedue le
mani a una crocettina d'oro che le pendeva dal collo tra l'abito aperto e
giocherellò con essa piegando il mento al seno, scoprendo un po' delle braccia
tornite.
Molto bassi
questi studi, dunque diss'ella.
Oh, no.
Ah. Lei
crede allora che sieno troppo alti per me?
Non ho
detto questo.
Vediamo; è
matematica?
No.
Metafisica?
No.
Scienze
occulte, forse? Il conte ha bene dello stregone; non trova, signor... signor...
Come si chiama Lei?
Silla.
Non trova,
signor Silla?
No,
signorina.
Molto
reciso, Lei.
Seguì un momento
di silenzio. Si udì la voce del conte mista ad altre voci di persone che
scendevano per la scalinata.
Silla si
alzò in piedi.
Aspetti un
poco diss'ella bruscamente. Non voglio sfingi davanti a me. Cosa scrive Lei con
mio zio?
Un libro
noioso.
Capisco; ma
di che tratta?
Di scienza
politica.
Ella è uomo
di Stato?
Qualche
cosa di meglio: sono artista.
Di canto?
La
marchesina ha un grande spirito!
E Lei è
molto orgoglioso!
Forse.
E con quale
diritto?
Dicendo
queste parole Marina sorrise di un enigmatico di cui Silla non capì il veleno.
Di
rappresaglia rispose.
Oh! esclamò
Marina. Un lampo di sdegno le passò negli occhi.
L'uno e
l'altro pensarono in quel momento a un predisposto legame, fosse pure
d'antagonismo, di inimicizia, nel loro futuro destino.
È dunque
vero disse Marina sottovoce che Lei giuoca un'altra partita qui al Palazzo?
Io? rispose
Silla, sorpreso. Non so cosa Lei voglia dire.
Oh, lo sa!
Ma Lei giuoca coperto, giuoca prudente, non ha ancora mosso la Regina. Povero
orgoglio il Suo! E parla di rappresaglie! Non mi conosce, Lei. Mi hanno scritto
poco tempo fa che sono superba, che vorrei vivere in una stella di madreperla,
e che in questo pianeta borghese, in questo sudicio astro di mala fama, non c'è
posto, per me, da posare il piede. Risponderò che il posto l'ho trovato e...
Ecco mia
nipote disse il conte entrando con alcune persone.
Silla non
si mosse. Guardava Marina con gli occhi sbarrati. La sua corrispondente,
Cecilia, lei!
Il signor
Corrado Silla, mio buon amico soggiunse il conte il quale ha ancora la testa
negli scacchi, a quanto pare.
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