Quel giorno
la gentildonna veneziana di Palma il Vecchio fu scherzosamente pregata di uscire
dalla sua cornice e di sedere a pranzo. La bella donna rispose col solito
sorriso. Benché la mensa brillasse di argenti, di cristalli e di fiori, non
valeva ad allettare lei, cresciuta fra magnificenze orientali. E poi, quale
squallida comitiva di adoratori a' suoi piedi! Chi la pregava di scendere era
il comm. Finotti, deputato al Parlamento, prossimo alla sessantina, con gli
occhi tutti fuoco e il resto tutto cenere. C'era pure il comm. Vezza,
letterato, aspirante al Consiglio superiore d'istruzione pubblica e al Senato,
piccolo, tondo, imbottito di dottrina e di spirito, caro a molte signore ma non
a quella lì, che non era letterata né ipocrita e rideva di quegli occhiali
d'oro, di quel carnierino grigio corto, di quelle forme da soldatino di gomma.
C'era il prof. cav. ing. Ferrieri: fisonomia nervosa, occhio intelligente,
sorriso scettico, cervello e cranio perfettamente lucidi. Neppure costui poteva
allettare la bella veneziana. Ella era troppo del XVI secolo e lui troppo del
XIX. Nato con una scintilla di poeta e d'artista, l'avea convertita in agente
meccanico. C'era l'avvocatino Bianchi, giovinotto elegante, timido, con un'aria
di sposina imbarazzata, tutto tepido ancora del nido di famiglia. Anche di lui
sorrideva dall'alto la esperta dama. Altre facce nuove non c'erano, perché non
poteva contarsi fra queste la trista figura del dottore, sdrucciolato, senza
invito nella sala da pranzo.
Chi aveva
portato quegli ospiti al Palazzo era stato il solitario fiumicello ch'esce dal
lago a ponente, fra i pioppi. Alcuni capitalisti di Milano avevano incaricato
il prof. Ferrieri di recarsi a visitare l'emissario del piccolo lago di... e a
studiare se ci fosse forza bastante per una grande cartiera. Il professore
doveva schizzare un progetto sommario, tastare il Municipio di R... per la
costruzione di un tronco di strada e fors'anche per la cessione gratuita di un
fondo comunale. Egli era un ingegnere di molta fama; quattro sgorbi col suo
nome avrebbero fatto piovere gli azionisti. Aveva portato con sé suo nipote
avvocato per la parte legale dell'affare. Il commendatore politico e il
commendatore letterato, vecchi amici del conte Cesare e dell'ingegnere, si
erano accompagnati a questo per fare al Palazzo una visita promessa fino dal
1859.
Il pranzo
fu eccellente e largamente inaffiato di spirito. I motti dell'onorevole
deputato si urtavano con le freddure dell'uomo di lettere, con gli epigrammi
incisivi dell'ingegnere professore. Il vocione del conte copriva spesso le
altre voci, il tintinnìo delle posate e dei cristalli, il cozzo sguaiato dei
piatti e tutto quanto. Il giovane avvocato taceva, mangiava poco, beveva acqua
e guardava Marina. Steinegge e il dottore bisbigliavano insieme, scambiavano
qualche rara parola con Silla. Questi, distratto, assorto in altri pensieri,
tante volte non rispondeva loro nemmeno, o rispondeva a sproposito.
Marina pure
era taciturna.
I due
commendatori suoi vicini chiedevano aiuto alla Natura, all'Arte, al cielo e
alla terra per farla parlare e non riuscivano a trarle di bocca che radi
monosillabi. Però il suo viso, il suo sguardo, che non si rivolse mai a Silla,
non esprimevano preoccupazione alcuna. Il commendator Vezza, che aveva la manìa
di saper tutto, le domandò, per ultimo tentativo, se conoscesse un certo punto
di ricamo di nuova introduzione, che a Milano tutte imparavano. Ella gli
rispose con una sommessa esclamazione di meraviglia sdegnosa che turbò molto il
dotto uomo e lo spinse a buttarsi subito fra i discorsi degli altri. Si parlava
della futura cartiera. L'ingegnere vantava le nuove macchine che si sarebbero
introdotte per fare e adoperare la pasta di legno. Steinegge si stupiva che la
pasta di legno fosse una novità per l'Italia; secondo lui l'uso n'era
divulgatissimo in Sassonia. Il Vezza osservò che in Italia usavano gli
azionisti di pasta di legno e le azioni di cenci; fece poi dei commenti
agrodolci su questo germanismo industriale tanto riprensibile, secondo lui,
quanto il germanismo letterario. La discussione s'infervorò subito. Il Finotti
sosteneva il Vezza; l'ingegnere lo combatteva. Steinegge, rosso rosso, fremeva
in silenzio, versava Sassella, versava Barolo sulle piaghe del suo amor proprio
nazionale.
Quella è la
miglior poesia italiana, non è vero? gli disse ridendo l'ingegnere.
Steinegge
giunse le mani, soffiò e alzò gli occhi al cielo senza parlare, come un vecchio
serafino estatico.
Ben detto,
signor Steinegge, bravo gridò l'onorevole deputato. Cesare, tra poco ci capita
la Giunta di R..., non è vero, per conferire qui con Ferrieri sotto i tuoi
auspici? Bisogna inzupparmela di questo Barolo. Per quanto siano duri quei
signori, l'amico se li mangerà facilmente, uno dopo l'altro.
Oh, non li
conosci rispose il conte. Essi berranno il mio vino e le ragioni del signor
professore, loderanno tutto e non si decideranno a niente. Questa gente, più la
si accarezza, meno si fida. E non ha poi tutti i torti.
Già! Timeo!
Ma intanto lui, il professore, non porta nessun dono, e poi, per fortuna, ha un
profilo così poco greco! Non Le pare, marchesina?
Marina
rispose asciutto che non si occupava di greco.
E lui son
quarant'anni che va dimenticando di essersene occupato male disse il
professore. Non gli dia retta. Del resto, non sono greco ma ho il Pattolo in
tasca. Duecentocinquanta fra operai e operaie, una dozzina d'impiegati tecnici
e amministrativi, l'esempio, sopra tutto l'esempio! Sapete quanti opifici si
potranno piantare con quell'acqua lì! Dopo verrà la necessità d'una ferrovia.
Prova
generale sussurrò il commendator Vezza.
Insomma il
Municipio di R... mi deve buttare ai piedi la strada, il terreno e il diploma
della sua cittadinanza.
Castelli di
carta. Ah, una trota, salmo pharius. Rossa, di fiume. Queste ce le
guasterai di sicuro con la tua carta.
Ciò detto,
il comm. Vezza impegnò con il conte, l'ingegnere e Steinegge un dialogo assai
vivo sulle trote d'ogni razza e paese, sulle reti, sugli ami, sulla
piscicoltura. Intanto l'uomo politico trovò modo di avviarne uno più intimo col
dottore, suo vicino, intorno a Corrado Silla; ne raccolse con voluttà le
maldicenze che correvano sulla origine del giovane. Quando poteva mettere il
dito sopra una debolezza umana di quel genere, una debolezza di puritano,
inaspettata, curiosa, era felice.
Dunque
diceva il comm. Vezza per le trote di fiume s'infilza sull'amo una mosca... o
un lombrico...
O un poeta
tedesco suggerì l'ingegnere.
No, chi ne
mangia? Neppure un ingegnere. Gli è per pigliare i sindaci lacustri che
s'infilza sull'amo un pezzo grosso dell'Università incartato in un progetto...
Qui il
commendatore si cacciò in fretta una mano sulla bocca, perché, annunciati dal
cameriere, entravano il Sindaco e la Giunta di R...
Movimento
generale, strepito di sedie, presentazioni cerimoniose, silenzio, tintinnìo di
tazze, brindisi eloquente del commendator Vezza alla futura prosperità del
Comune di R... così degnamente e sapientemente rappresentato. Dell'amo non
parlò. Il Sindaco e la Giunta lo guardavano trasognati, con la vaga
inquietudine di chi sente farsi gran lodi e non sa perché, e teme d'esser
caduto in qualche imbroglio. Poi tutti si alzarono. Il conte, l'ingegnere,
l'avvocatino e la Giunta si strinsero a conferire insieme.
Il comm.
Finotti diede il braccio a donna Marina sussurrandole alcune parole francesi e
sorridendo, probabilmente all'indirizzo delle autorità che spandevano un
disgustoso odore di fustagno. Si respirava uscendo da quel caldo nell'ombra
fresca della loggia, dove veniva su dal cortile un soave odore di rhynchospermum
fiorito. Anche il lago davanti al Palazzo taceva per un gran tratto nell'ombra.
Le montagne in faccia e l'acqua in cui si specchiavano eran dorate. Il ponente
splendeva, sereno. A levante, l'Alpe dei Fiori, infocata, toccava il cielo
nero, tempestoso.
Bello!
disse il comm. Finotti appoggiandosi alla balaustrata; bello, ma troppo
deserto. Come Le passa il tempo in quest'èremo, marchesina?
Non passa
del tutto rispose Marina.
Ci sarà
però nei dintorni qualche essere umano lavato e pettinato da poter dire due
parole.
Ce n'è uno
dipinto.
Accennò il
dottore che stava presso l'entrata della loggia ascoltando a bocca aperta un
vivacissimo dialogo tra il Vezza e Steinegge. Silla si teneva in disparte,
guardava il getto d'acqua nel cortile.
Ma Cesare
insiste il Finotti ha sempre ospiti. Anche adesso, mi pare... soggiunse con una
voce piena di domande sottintese, guardando la giovane signora, che sporse il
labbro inferiore senza rispondere.
Come mai è
amico di Cesare? disse il commendatore sottovoce.
Non lo so.
Io però lo
invidio.
Perché?
Viver
vicino a Lei!
Può essere assai
poco piacevole agli altri se non garbano a me disse Marina con l'accento e
l'atto di chi vuol troncare un discorso.
Vezza!
gridò forte il Finotti come puoi star a parlare di trote, perché tu già parli
di trote o di granchi, dove c'è una dama? Vedo che al mio garbatissimo amico
dottore ci fai una pessima impressione.
Il
garbatissimo amico si sviscerò in proteste.
Marchesina
disse il Vezza, avvicinandosi oda come si ricompensa l'abnegazione di un amico
che vi cede il primo posto!
L'aveva
Lei? rispose Marina con uno dei suoi sorrisi; e senz'attender la replica, si
rivolse a Steinegge:
Tre sedie
diss'ella.
V'erano
cinque persone in loggia e neppur una sedia.
Quando una
signorina ordina rispose Steinegge dopo un momento di silenzio un capitano di
cavalleria può portarne trenta.
Il
commendatore Finotti osservò Silla. Era pallido e guardava Marina con fuoco
così sdegnoso che parve sospetto a quel dilettante di psicologia pratica.
Tutti in
piedi? disse il conte affacciandosi in quel punto alla loggia con l'ingegnere,
l'avvocato e le Autorità. Caro Steinegge, abbia la bontà di dire che portino
delle sedie. Il professore desidera vedere se e come si potrebbe stabilire un
barraggio regolatore delle piene del lago; se occorra qualche altra operazione
alla soglia dell'emissario. Io lo accompagno. Questi signori preferiscono
rimanere.
Noi
leveremo l'incomodo disse uno degli assessori.
Che
diavolo! replicò il conte. Bisogna far visita a mia nipote, adesso. Quando
crede, professore...
Il
professore distribuì in fretta sorrisi e strette di mano ai cinque dignitosi
municipali e partì col conte.
Noi faremo
ballare gli orsi sussurrò il commendator Finotti a donna Marina.
Ma gli orsi
non erano tanto orsi quanto s'immaginava lui. Tre di essi, gli assessori
supplenti e il Sindaco, si conoscevano abbastanza per non aprir bocca mai. Gli
altri due, gli assessori effettivi, potevano dar dei punti, per furberia, al
signor commendatore. Per scioltezza di scilinguagnolo non gli stavano troppo al
disotto, posto ch'erano contadini; grassi se si vuole, ma contadini da gerla e
da zappa. Siamo poveri alfabeti di campagna diceva uno di loro. Avevano
finissimo il fiuto della canzonatura.
Si parlò,
naturalmente, della cartiera. Il Finotti fece una pittura, a gran tratti di
scopa, delle meraviglie industriali che si sarebbero vedute, dei favolosi
guadagni che avrebbe fatto il paese. I due approvavano col capo a più potere,
fregandosi i ginocchi con le mani.
Com'è
diventato aguzzo il mondo! disse il più vecchio.
E noi
restiamo sempre tondi rispose l'altro. Almeno se non ci piallano un poco.
Comune
ricco, già disse il Finotti.
Sì, quattro
sterpi e un paio di viaggi d'erba, su quelle croste là in faccia, dove tutti si
servono. Quando li avremo mangiati per far la strada della cartiera, allora
diventeremo ricchi; ma per adesso... Allora sì. Sarà forse per quel vino che ci
ha favorito, per sua grazia, il signor conte, allora mi pare che abbiamo da
diventar signori bene. È un gran vino; ma sarà mica traditore? Cosa ne dice
Lei, signor tedesco, che lo vedo qualche volta dalla Cecchina gobba?
Ah! Ah!
soffiò Steinegge senza capir bene.
Ehi!
esclamò il Vezza accorgendosi dei nuvoloni neri che ingrossavano a levante.
Vuol far temporale.
Oh signor
no disse l'assessore che aveva parlato prima per adesso no; stanotte, forse.
Come si
chiamano quei sassi là in alto dove batte il sole?
Noi li
chiamiamo l'Alpe dei fiori. Da ragazzo ci sono stato anch'io lassù, a
far fieno. Potevano metterci nome l'Alpe del diavolo ch'era più meglio.
C'è bene, lassù,
il buco del diavolo disse l'altro assessore.
Ah, c'è un
buco del diavolo? disse Silla E perché lo chiamano così?
Ma, io non
saprei mica, vede. Bisogna domandare alle donne. Loro contano un sacco di
storie!
Per
esempio, dicono che per quel buco si va all'inferno, che è un piacere, dritti
come i, e che i beniamini del diavolo piglian tutti quella strada là. Ci
fanno anche il nome a tre o quattro che ci son passati.
Ah sì?
disse il commendator Finotti. Sentiamo.
Proprio non
mi ricordo, sa...
Gente del paese,
già?
Del paese e
mica del paese. Non mi ricordo.
Qui
l'onorevole Sindaco uscì, in mal punto, dal suo prudente silenzio.
Pare
impossibile, Pietro diss'egli pare impossibile che non vi ricordiate. La
matta!...
Che asino!
mormorò fra i denti il poco riverente assessore; e non disse altro.
Bravo
Sindaco. A Lei! Lei deve ben sapere da che parte vanno all'inferno i Suoi
sudditi, diavolo! Racconti dunque! Non sarà mica un segreto d'ufficio, spero.
Il Sindaco,
accortosi troppo tardi di aver posto un piede in fallo, si andava contorcendo
sulla sedia.
Storie
vecchie rispose storie vecchie. Sarà un affare di forse seicento anni fa.
Ouf,
seicento! Non saranno neanche sessanta disse un altro municipale che fino
allora era stato zitto.
Bene, bene,
sessanta o seicento, è sempre una storia vecchia, e qui ai signori può
interessar poco.
Ma il
povero Sindaco, preso alle strette, non trovò modo di schermirsi; e, per non
aver più quel peso sullo stomaco, lo buttò fuori a un tratto.
Ecco,
questa matta era la prima moglie del povero conte vecchio, qui del Palazzo; una
genovese, che ha scappucciato, pare, un tantino, e suo marito l'ha condotta
qui, l'ha tenuta come in castigo, ed è stato qui anche lui finché è morta; la
gente dice che il diavolo se l'è portata a casa per di là.
Mentr'egli
parlava, Marina si alzò, gli voltò le spalle. I suoi colleghi gli fecero gesti
di rimprovero. Il Vezza disse a caso:
È la barca
di Cesare quella là?
Bei tempi!
esclamò Silla con voce sonora.
Tutti,
tranne Marina, lo guardarono sorpresi.
Tempi di
forza morale proseguì senza badare a quelle occhiate. Di forza morale organica.
Adesso si hanno le convulsioni, gl'impeti di passione sfrenata, e, in fondo,
egoista. Se una donna tradisce, la si ammazza o la si scaccia. Vendicarsi e
liberarsi: ecco lo scopo. Allora no. Allora vi era qualche gentiluomo capace di
seppellirsi con la colpevole in un deserto e di dividere la espiazione
senz'aver divisa la colpa, rompendo tutti i vincoli del mondo, per rispetto a
un vincolo sacro, benché doloroso.
Marina,
senza voltarsi, sfrondò nervosamente con la destra un ramo di passiflora.
Può essere
stata una vendetta atroce disse il Finotti un omicidio lento e legale. Che ne
sa Lei?
Non lo so;
non credo che il padre del conte Cesare sia stato capace di questo. E poi, ci occupa,
ci commuove la pena; ma la colpa? Chi era questa donna? Chi ci può dire?....
Donna
Marina si voltò.
E Lei
diss'ella con voce rotta dalla collera chi è, Lei? Chi ci può dire neppure il
Suo vero nome? S'indovina!
Aperse con
impeto l'uscio che metteva nell'ala di ponente e scomparve.
Medusa non
avrebbe impietrato meglio di lei quel gruppo d'uomini.
Silla
sentiva di dover dire qualche cosa, e non sapeva che. Gli parve di aver toccato
un gran colpo di mazza sulla testa e di barcollare. Finalmente, a stento,
raccapezzò un pensiero.
Signori
diss'egli sento che mi si è gettata un'ingiuria: non so quale, non intendo!
Le parole
no, ma l'accento, le braccia, gli occhi, dicevano: Se avete inteso, parlate. I
commendatori e il medico protestarono silenziosamente, col gesto, di non saper
nulla, gli altri stavano a bocca aperta. Steinegge prese Silla a braccetto, lo
trasse via dicendogli: Adesso conoscete, adesso conoscete.
La Giunta
di R... e il dottore si ritirarono subito.
Bel finale!
disse il commendator Vezza, passato il primo sbalordimento. Hai capito tu?
Eh altro
rispose il Finotti. È chiaro come l'acqua.
Torbida.
Ma che?
vuoi sentire? Quel giovinotto lì, piovuto al Palazzo dalle nuvole, è un
peccatuccio dell'amico Cesare. Alla damigella ci ha seccato mortalmente.
Capisci, vedersi portar via sotto il naso uno zio siffatto! Ci sarebbe, per
salvar tutto, la solita combinazione, e questa scommetto che è l'idea di
Cesare, ma!... A Parigi o a Milano o nel mondo della luna ci deve essere un ma
con un cilindro etereo e dei calzoni ideali. Sarà biondo, sarà bruno, sarà quel
diavolo che vuoi: c'è sicuramente. Dunque, niente combinazione; guerra! Non è
chiaro?
Non sai
niente, caro mio. Che si possa arrischiare un sigaro? Qui il commendator Vezza
si divertì ad accendere il sigaro, sciupandovi silenziosamente una mezza
dozzina di fiammiferi. Sì, la Mina Pernetti Silla, bella donna, bellissima
donna! è stata veramente amica di Cesare, ma una amica!...
Il commendatore
gittò in alto una boccata di fumo, l'accompagnò su con l'occhio e con la mano
disegnando in aria degli zeri allegorici.
Lei
proseguì era figlia di un consigliere d'appello tirolese. Sai che Cesare fu
espulso di Lombardia nel 1831? Credo che volesse liberarar l'Italia per potersi
sposare poi senza scrupoli quella tirolesina bionda. Ell'avrà avuto un ventidue
anni. Il papà l'avrebbe arrostita piuttosto che darla a un liberale. Lei tenne
saldo, povera ragazza, a non volersi maritare, fino a ventisei anni. Suo padre,
un mastino, credo che la mordesse. Un bel giorno piegò il capo e prese un
figuro, un austriacante marcio che fece denari con le imprese e poi se li
mangiò tutti, andò via con i tedeschi nel 59 e dev'esser morto a Leibach,
credo. La Mina e Cesare non si videro mai più, ma si scrissero sempre non
d'amore, veh! neppur per sogno. Quello lì? Quello lì è un giansenista che non
va a messa. Ella non gli scriveva che di suo figlio, lo consultava. È morta nel
58, e tutto questo io l'ho saputo dopo, da un'amica sua. Ora domando io se è
chiaro. Domando io cos'ha da temere la marchesina di Malombra, che ragioni
aveva...
Sì, sì,
sarà tutto vero, vuol dire che lei non sa le cose a questo modo. Ma poi, come
mi parli di ragioni in una testolina così bella? Non vedi, perdio! che occhi?
Lì dentro ci sono tutte le ragioni e tutte le follie. Averla per un'ora, una
donna così bella e così insolente. Si deve impazzire di piacere.
Peuh! disse
il letterato è troppo magra.
Ma
l'onorevole deputato fece di questa censura una confutazione così scientifica
che non può trovar posto in un lavoro d'arte.
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