Debbo
accendere il lume, signor? disse Steinegge a bassa voce.
Era notte
fatta. Da un gran pezzo Steinegge e Silla stavano seduti nella stanza di
quest'ultimo, uno in faccia all'altro, senza parlare. Pareva che vegliassero un
morto.
Steinegge
si alzò, accese in silenzio una candela e tornò a sedere.
Silla
teneva le braccia incrociate, il capo chino sul petto, gli occhi a terra. Steinegge
era inquieto, guardava Silla, guardava il lume, guardava il soffitto, metteva
una gamba a cavalcioni dell'altra che poi pigliava bruscamente la rivincita.
Presto
bisognerà scendere, signor diss'egli. Credo che il signor conte è ritornato da
un pezzo.
Silla non
rispose.
Steinegge
aspettò un poco, poi si alzò, tolse il lume e si avviò adagio alla porta.
L'altro non
si mosse.
Steinegge
lo guardò, ritirò il collo tra le spalle con un ah di sommessione,
depose il lume e venne a piantarsi davanti a Silla.
Sono un
imbecille, signor, non so dir niente, ma sono amico. Vi giuro che se potessi
rispondere io per lei, farvi sortire quel colpo di sciabola che dovete aver nel
cuore, me lo piglierei volentieri pur di vedervi più contento.
Silla si
alzò, gli gettò le braccia al collo.
Steinegge,
rosso rosso, impacciato, andava dicendo:
Oh no...
signor Silla... io ringrazio... e si sciolse piano piano da quell'abbraccio. La
sventura, la miseria, le amarezze d'ogni sorta lo avevano umiliato sino a
renderlo schiavo della familiarità di coloro cui egli attribuiva una condizione
sociale superiore alla sua.
Bisogna
esser così un poco filosofi diss'egli. Bisogna disprezzare questa persona.
Credete che non ha offeso me otto e dieci e venti volte? Non ricordate stasera
quando mi ha parlato, come a un servo? Io ho disprezzato sempre. Quella non ha
cuore, né una briciola. Voi dite quella, voi italiani, una donna onesta, perché
non fa questo che sapete. Voi dite donne vili le altre. Ma io dico: questa,
questa (Steinegge batteva rabbiosamente le sillabe) questa è vile. Insulta me
perché sono povero, insulta Voi per passione avara.
Per
passione avara?
Sì, perché
immagina che il signor conte vuol porre Voi nel testamento.
Dunque
diss'egli ha proprio voluto dire...
Ma!
Come, come
mai? ripeté Silla angosciosamente.
Eh! Qui lo
hanno detto tutti.
Lo hanno
detto tutti?
Dopo un
lungo silenzio, Silla si avvicinò lentamente a Steinegge, gli posò le mani
sulle spalle e gli disse con voce triste e tranquilla:
E Lei,
crede Lei che se vi fosse una macchia sulla memoria più sacra ch'io m'abbia,
sarei rimasto qui a farne testimonianza?
Non ho mai
creduto questo. Il signor conte non Vi avrebbe chiamato qui; conosco molto bene
il signor conte.
Caro
Steinegge, se noi ci lasciamo per non rivederci più, come potrebbe accadere, si
ricordi di un uomo che si direbbe, non perseguitato come Lei, no, ma deriso,
continuamente, amaramente deriso da qualcheduno fuori del mondo che si
diverte a vederlo soffrire e lottare, come i bambini guardan soffrire e lottare
una farfalla che han gettata nell'acqua con le ali malconce. Mi si diede un
cuore ardente e non la potenza né l'arte di farmi amare, uno spirito avido di
gloria e non la potenza né l'arte di conquistarla. Mi si fece nascere ricco, e
nell'adolescenza, quando avrei cominciato a godere i vantaggi di quello stato,
mi si precipitò nella povertà. Mi si promise testé quiete, lavoro e amicizia,
quello che l'anima mia sospira, perché alla gloria ho rinunciato; e adesso mi
si strappa via tutto d'un colpo. Vede, ho avuto una madre santa, l'ho adorata e
sono io la causa che si oltraggi la sua memoria; io che dovevo immaginar
quest'accusa e non la ho immaginata per una incurabile inesperienza degli
uomini e delle cose! Mettiamo tutto in due parole: sono inetto a vivere, me ne
convinco ogni giorno più. E ho una salute di ferro! Le dico queste cose perché
L'amo, caro Steinegge, e voglio ch'Ella mi porti nel Suo cuore. Non le ho mai
dette a nessuno. Dica, non Le pare una derisione? Bene qui gli occhi di Silla
sfavillarono e la sua voce diventò convulsa non lo è. Io ho la forza in me di
resistere a qualunque disinganno, a qualunque amarezza; e questa forza non me
la sono procurata io. Ne userò, lotterò con la vita, con me stesso, con la
sfiducia terribile che mi assale di quando in quando; e sono convinto che Dio
si servirà di me per qualche...
Si bussò
all'uscio.
Il conte
Cesare faceva dire a Silla ch'egli era con gli ospiti e lo pregava di scendere.
Silla pregò Steinegge di andar lui in vece sua e di portare le sue scuse,
allegando alcune lettere urgenti da scrivere.
Steinegge
uscì tutto impensierito. Che intendeva mai fare il signor Silla?
La stessa
questione si agitò lungamente nelle regioni inferiori del palazzo. Madamigella
Fanny aveva informato per la prima i suoi colleghi della gran lezione data
dalla sua signorina a quel tulipano nero, il quale, agli occhi di Fanny, aveva
il gran torto di non essersi mai avveduto che erano belli ed arditi. Il cuoco
possedeva le informazioni della Giunta con parte della quale aveva bevuto un
litro, dopo il fatto, dalla Cecchina gobba. Raccontò che in quel punto il
signor Silla tremava tutto, era più bianco di un foglio di carta. Chi sa,
signor Paolo gli disse Fanny chi sa che faccia faranno adesso a trovarsi
insieme quei due lì! Già la mia marchesina non ha paura di nessuno. Allora
qualcuno disse che il signor Silla si era ritirato in camera e che per quella
sera non sarebbe disceso. Il zuruch che gli aveva tenuto compagnia un
pezzo, n'era uscito tutto stravolto. Altro fatto strano; il signor Silla aveva
mandato a riprendere i suoi rasoi che il giardiniere doveva portar seco a Como
per farli affilare.
Sta a
vedere disse Fanny che quello stupido lì è capace di ammazzarsi senza dare un
quattrino di mancia a nessuno!
Zitta!
Andiamo! disse la Giovanna. Se il signor padrone avesse a sapere di questi
discorsi! E poi, per quel che ci ha fatto Lei!
A me non
tocca rispose Fanny. Sicuro che non mi degnerei di attaccargli neppure un
bottone. Ho visto la bella roba da straccione che ha! più chic il
dottore, di quello lì.
Appena
nominato il dottore, Fanny fece una risatina.
Povero
dottore! diss'ella, e giù un'altra risatina; poi un'altra, poi un'altra; né
volle mai dire perché ridesse.
E anche
nella sala dov'erano riuniti gli ospiti del Palazzo, a chi si pensò se non a
Silla e a quello che farebbe? Nessuno ne parlò, perché donna Marina era
presente e il conte non sapeva ancor nulla dell'accaduto. Il conte non capiva
queste lettere urgenti dodici ore prima della partenza della posta, ma tacque.
Marina era gaia. Nel riso argentino che saltava spesso dalla sua voce dolce e
vellutata, come il sonaglio di un folletto nascosto, si udiva una nota
trionfante. Qualche volta rideva anche lei come Fanny, senza ragione,
distratta. Rise molto appena partito il dottore. Insomma non pareva punto
preoccupata dell'assenza di Silla.
Le ore
passavano e la luna veniva su piano piano dietro i nuvoloni ancora fermi a
levante, che si squarciavano qualche volta sotto di lei agitando frange
d'argento intorno alla sua faccia regale, e si richiudevano. Ella sfolgorava in
quei brevi momenti sui vetri della finestra di Silla, guardava nella camera
sino al fondo.
Quegli
scriveva. Il ronzio della sua penna rapida era interrotto da slanci veementi e
da radi silenzi. Le pagine succedevano alle pagine; doveva averne riempite
parecchie quella penna, quando si fermò. Silla le rilesse, pensò un poco.
No!
diss'egli, e stracciò lo scritto.
Prese un
altro foglio. Stavolta la penna non correva più. Il pensiero dell'uomo lottava con
la parola, con se stesso forse.
Suonarono
le undici e mezzo. Silla aperse la finestra e chiamò Steinegge. Lo aveva udito
camminare.
Scenda
subito diss'egli.
Steinegge
corse alla finestra, fece atto, nel primo impeto del suo generoso cuore, di
gittarsi abbasso, poi scomparve, e, in meno che non si dice, fu nella camera di
Silla, con il soprabito male infilato e senza calzoni. In quel momento né lui
né Silla pensarono che fosse in arnese ridicolo.
Silla gli
andò incontro. Parto diss'egli.
Parte?
Quando parte?
Adesso.
Adesso?
Credeva Lei
ch'io potessi dormire ancora sotto questo tetto?
Steinegge
non rispose.
Vado a
piedi sino a... e là aspetterò il primo treno per Milano. Lei mi farà il favore
di consegnare questa lettera al conte Cesare. Qui ci son pochi denari che La
prego di distribuire, come crederà meglio, ai domestici. Per fortuna non avevo
ancora fatto venire i miei libri; ma lascio qui un baule. Avrà Ella la bontà di
spedirmelo?
Steinegge
affermò del capo; ma non poteva parlare, aveva un groppo alla gola.
Grazie,
amico mio. Quando avrà fatta la spedizione me ne avverta con una lettera ferma
in posta e vi unisca la chiave che Le lascio, perché vi sarà ancora qualche
cosa di mio da raccogliere.
Oh, ma
volete proprio partire così?
Proprio
così voglio partire. E sa cosa ho scritto al conte? Gli ho scritto che le mie
idee sono troppo lontane dalle sue perch'io possa accettare la collaborazione
offertami; e che onde evitare spiegazioni spiacevoli, onde sottrarmi al
pericolo di cedere, parto a questo modo chiedendogliene perdono e
protestandogli la mia gratitudine. Uno scritto cortese nella forma e villano
nel fondo, uno scritto che lo deve irritare contro di me, lo sdegno di
accusarla; le avevo scritto e poi ho stracciata la lettera: ma ella intenderà
che ho voluto rispondere a lei spezzando netti d'un colpo i legami che le han
dato argomento d'insultarmi. E tutti gli altri intenderanno, spero.
Per questa
donna! fremé Steinegge, scotendo i pugni.
Ma Lei non
sa il peggio mormorò Silla. Lei non sa quanta viltà v'è in me. Glielo voglio
dire. Il solo pensiero di posar le labbra sopra una spalla di questa donna mi
fa venir le vertigini, mi mette i brividi sotto i capelli. È amore? Non lo so,
non lo credo; ma guai se per soffocare l'angoscia e la collera di esserne odiato,
non ci fosse ancora in me qualche forza indomita di cui ringrazio Dio! Sì, è
così. Lei n'è stupefatto, lo comprendo, ma è così. Però, vede, sono un uomo, il
sangue vigliacco deve obbedirmi, vado via. Mi stringa la mano; qualche cosa di
più, mi abbracci.
Steinegge
non seppe proferire che tre ooh soffocati, abbracciò Silla con un
cipiglio da nemico mortale e l'affetto tempestoso d'un padre. Poi trasse di
tasca un vecchio portasigari sdruscito e lo porse con ambo le mani all'amico.
Questi lo guardò attonito.
Vostro a me
disse Steinegge.
Allora
l'altro intese e trasse egli pure un portasigari ancora più vecchio e
sdruscito. Se li scambiarono tacendo. Prima di partire, Silla diede un ultimo
sguardo, un appassionato saluto mentale alle memorie di sua madre; gli parve
che l'angelo pregasse per lui, per l'aiuto di Dio in altri cimenti ancor più
gravi, nascosti nel futuro. Uscì nel cortile per una finestra a piano terreno.
Non volle che Steinegge lo accompagnasse, gli strinse ancora la mano, e
attraversata in punta de' piedi la ghiaia traditrice, salì lentamente la
scalinata fra i cipressi, fermandosi nelle nere ombre oblique che fendevano,
come grandi crepacci, le pietre illuminate dalla luna.
Egli si voltava allora a guardar
la vecchia mole severa da cui si partiva, secondo le previsioni umane, per
sempre. Ascoltava il tenero lamento dello zampillo giù nel cortile, la voce
grave della grossa polla su in capo alla scalinata. L'una e l'altra voce
chiamavan lui; quella sempre più fievole, questa sempre più forte. Non gli era
più possibile veder la finestra di lei; ma guardava là quell'angolo del tetto
che copriva la stanza sconosciuta, e la immaginava nei più minuti particolari
con la rapidità e la vigoria intensa della passione. Ne respirava veramente il
tepore odoroso, vedeva saettarvi per la finestra di levante un raggio di luna,
rigare il pavimento, sfiorar un'onda di vesti vôte, brillar sopra uno spillo
caduto, sulla punta brunita d'uno stivaletto adunco, scivolar sul letto bianco,
battere a una delicata mano sottile e morirvi mandando fiochi bagliori su pel
braccio ignudo. A questo punto gli si oscurava la fantasia, una stretta nervosa
gli si propagava dal petto a tutta la persona ed egli riprendeva frettoloso,
per liberarsi da quello spasimo, la via.
Non è a stupire
se la sbagliò. Non era facile, per verità, fra parecchi sentieri che fuggono in
mezzo agli uniformi filari di viti, scegliere quello che conduce al cancello.
Silla ne prese uno alquanto più basso. Si avvide dell'errore, quando trovò,
dopo un tratto abbastanza lungo, che scendeva verso il lago. Pensò che al
postutto non era sicuro di rinvenire la chiave del cancello, posta di solito,
ma non sempre, in un buco del muro di cinta, e ricordò che ci doveva esser lì
presso un'altra uscita per la quale passavano qualche volta i coltivatori del
vigneto. La trovò infatti. Il muro di cinta era diroccato per metà e dal campo
vicino un gelso spingeva i rami per la breccia. Silla fu presto dall'altra
parte, a pochi passi da un approdo che serviva ai coloni del campicello lungo
il lago. Un sentiero piano move da quell'approdo a raggiungere nel suo punto
più basso la strada provinciale di Val... ora toccando l'orlo del lago, ora
appiattandosi fra siepi e muricciuoli, ora tagliando qualche pendìo erboso,
rotto da radi ulivi.
Silla si
sforzava invano, camminando, di pensare all'avvenire, alla vita di sacrificio e
di lavoro indomito che l'aspettava. Malediva la notte piena di voci lascive e
la luna voluttuosa, ormai alta nel sereno. Appoggiò la fronte ardente ad un
tronco di ulivo, senza sapere che si facesse. Quel tocco ruvido e freddo lo
ristorò, lo acquietò come avrebbe acquietato un metallo vibrante.
Si ripose
tosto in cammino perché lampeggiava. In faccia a lui nuvoloni torvi di levante
si movevano finalmente, si allargavano verso le montagne, invadevano il cielo
con tante cime rigonfie, fluttuanti come una marea furiosa che volesse salire
fino alla luna. Gittavano lampi continui, silenziosamente, verso il lume di
lei, fuggitiva. Ad un tratto Silla si ferma e tende l'orecchio.
Ode il
sommesso borbottar del lago ne' buchi dei muricciuoli, il lamento dell'allocco
nelle selve della riva opposta, il canto dei grilli e il lieve sussurro di un
soffio per le viti folte, per le frondi bigio-argentee
degli ulivi.
Null'altro?
Sì, due
remi cauti, lenti che tagliano l'acqua a lunghi intervalli. Se vicini o
lontani, non s'intende bene; sul lago, a quell'ora, solo un orecchio esperto
può misurare le distanze dei suoni.
I remi
tacciono.
Ecco il sordo
rumore d'una chiglia che striscia sui ciottoli della riva. Anche i grilli
ascoltano. Poi, più nulla. I grilli uniscono ancora il loro canto a quello
dell'allocco lontano, ai borbottamenti del lago pei buchi dei muriccioli. Silla
non poteva discernere questa barca che approdava; vedeva soltanto l'acqua
chiara tremolar tra le foglie. Andò avanti. Il sentiero sbucava presto sulla
ghiaia d'un piccolo golfo, all'altro capo del quale grossi macigni neri si
protendevano nell'acqua. Si rizzava sopra quelli, fra caprifichi e rovi, una
cappelletta; e ne sporgeva a piè della cappelletta, la sottile poppa nera d'una
lancia. Doveva esservi una cala tra i macigni. Non c'erano altre lance che Saetta
sul lago, e Silla lo sapeva. Ma chi era venuto con Saetta?
Sospettò del
Rico e si fermò per non essere scoperto. Vide un'ombra levarsi tra gli arbusti
dietro la cappelletta, correr giù, scomparire. Subito dopo sprizzò di là un
riso argentino. Impossibile non riconoscerlo; donna Marina! Silla, per istinto,
si slanciò avanti, udì una esclamazione di terrore, vide l'ombra di prima
ricomparire alla cappelletta e fuggir su tra gli arbusti, mentre donna Marina
chiamava invano: Dottore! dottore!. Silla riconobbe il medico, ma non stette a
pensare neppure un momento perché si trovasse lì. Udì la chiglia della lancia
strisciare indietro dalla riva e saltò alla cappelletta quando la prora, ormai
silenziosa, era per uscire dalla cala e Marina, deposto il remo di cui s'era
fatta puntello, stava assettandosi i guanti.
Si fermi!
diss'egli ritto sul ciglio del macigno.
Ella diè un
lieve grido e impugnò i remi.
Non era
possibile lasciarla partire così. A piè del macigno la ghiaia rideva a fior
d'acqua. Silla saltò, afferrò la catena della lancia. Marina diede due colpi
disperati di remo, ma Saetta obbedì presto al pugno di ferro che la
tratteneva.
Bisogna
udirmi, adesso! disse il giovane.
Lei mi dirà
prima di tutto rispose Marina fremendo se il nobile mestiere che ha esercitato
stanotte è un Suo passatempo consueto, o se Ella è ai servigi di mio zio!
Fra che
abbietta gente ha vissuto, signorina? È questa la Sua nobiltà? Allora Le giuro
che la mia vale di più; e ho ben ragione di sperare che il mio nome venga
ricordato ancora con onore quando non vi sarà più memoria del Suo!
Salito
sopra un sasso sporgente, scoperta la maschia fronte, Silla dominava la
barchetta e la donna, palpitanti dinanzi a lui.
Marina non
voleva lasciarsi dominare, batteva l'acqua con un remo, rabbiosamente.
Avanti
diss'ella alla seconda scena. Intanto Lei fa una vigliaccheria di tenermi qui
per forza.
Silla gittò
la catena. Vada diss'egli vada pure se ha cuore. Sappia solo che non recito una
commedia, recito un oscuro dramma di cui la seconda scena Le è indifferente.
Ah, e la
prima no? riprese Marina lasciando cadere i remi e incrociando le braccia.
La seconda
scena proseguì Silla senza badare all'interruzione non ha luogo qui. Stia
tranquilla; da questa notte in poi non vedrà più né il dramma, né il
protagonista. Se ha sospettato, nel candore, nel disinteresse dell'anima Sua,
ch'io fossi più d'un amico per l'uomo di cui Ella è nipote ed erede, si
rassicuri, neppure amico gli sono più forse; perché pochi momenti or sono, di
nascosto, come un malfattore, ho lasciato per sempre la sua casa ospitale,
dov'è spuntato, in qualche angolo freddo e ombroso, questo vile sospetto. Se
lei poi ha temuto qui la voce di Silla tremò di qualche sinistro disegno su
donna Marina di Malombra e Corrado Silla, è stato un inganno ben grande il Suo.
Se il conte me ne avesse parlato, gli avrei tolta questa illusione, perché Lei
è troppo al di sotto di quell'altero cuore ch'io voglio, capace di disprezzare,
come le disprezzo io, la ricchezza e la fortuna. E adesso, marchesina, ho
l'onore...
Una parola!
gridò Marina avvicinandoglisi di fianco con due colpi di remi, perché una
repentina brezza di levante portava via adagio adagio la lancia. Il Suo dramma
fantastico non va. Ella ha la bontà di farsi una parte eroica. Facile; ma c'è
la critica, signor Silla. Dove ha scoperto Lei questa cosa ridicola che io sono
una ereditiera sospettosa? Non ha mai veduto quanto mi curo di mio zio? E come
osa Lei parlare di progetti sulla mia persona? Le pare che voglia turbarmi di
quanto mio zio e Lei possano aver l'impudenza di pensare e di dire?
Intanto Saetta
dilungava da capo per la brezza ringagliardita. Marina diede un colpo di remi e
si voltò a guardar Silla. La lancia corse un istante contro il vento, contro le
onde che gorgogliavan forte sotto la chiglia, e girò subito, respinta, sul
fianco sinistro. La luce della luna mancava rapidamente. Fiocchi veloci di
nubi, come spume, l'avevan raggiunta, oltrepassata: ora giungevano i cavalloni
grossi ed ella vi affondava, non pareva più che un fanale rossastro, perduto
nella tormenta, vicino a spegnersi.
Allora?
esclamò Silla perché?
Le altre
parole si perdettero nello schiamazzo improvviso delle onde intorno a lui. Una
raffica violenta gittò Saetta sul sasso dov'egli stava. Scenda! gridò
curvandosi ad afferrar la sponda della lancia perché non vi urtasse. Subito!
No, spinga
via, vado a casa!
Benché
fossero tanto vicini da potersi toccare, riusciva loro difficile intendersi. Le
onde, cresciute di botto smisuratamente, tuonavano sulla riva con un fragore
assordante; il timone, la catena, i remi della lancia abballottata strepitavano.
Silla vi si stese su, l'allontanò dalla riva con una disperata spinta e vi
cadde dentro. Al timone! gridò afferrando i remi. Al largo! Contro il vento!
Marina obbedì, gli sedette in faccia stringendo i cordoni del timone. Ormai il
cielo era tutto nero, non ci si vedeva più. Si udiva il tuonar delle onde sulla
riva sassosa, sui muricciuoli. Là era il pericolo. Saetta, spinta troppo
vigorosamente, alzava la prua sull'onda, la spaccava cadendo a gran colpi
sordi; entrava nelle più grosse come un pugnale; allora la cresta spumosa ne
saltava dentro, correva sino a poppa. La prima volta, sentendo l'acqua, Marina
alzò in fretta i piedi, li posò su quelli di Silla. Nello stesso punto un lampo
spaventoso divampò per tutto il cielo e pel lago biancastro, per le montagne di
cui si vide ogni sasso, ogni pianta scapigliata. Marina sfolgorò davanti a
Silla con i capelli al vento e gli occhi fissi nei suoi. Era già buio quando
egli ne sentì nel cuore il fuoco. E quei piedini premevano i suoi: premevano
più forte quando la poppa si alzava; ne sdrucciolavan quindi e vi si
riappiccicavano. I due remi gli saltarono in pezzi. Cacciò fuori gli altri due
ch'erano nella lancia, remò con furore, perché la notte, le voci della natura
sfrenata, quel tocco bruciante, quell'inatteso sguardo gli gridavan tutti di
esser vile. E i lampi gliela mostravano ogni momento, lì, palpitante, col viso
e il petto piegati a lui. Non era possibile! Fece uno sforzo, si alzò in piedi
e passò sull'altra panca più a prua.
Perché?
diss'ella.
Anche nella
voce di lei v'era una commozione, un'elettricità di tempesta.
Silla
tacque. Marina dovette comprendere, non ripeté la domanda. Si vide al chiarore
dei lampi un denso velo bianco a levante, una furia di piova in Val... Non
veniva però avanti: la rabbia del vento e delle onde diminuiva rapidamente.
Può voltare
disse Silla con voce spossata, accennando del capo il Palazzo è là.
Marina non
voltò subito, parve incerta.
La Sua
cameriera l'aspetta?
Sì.
Allora
torneremo alla cappelletta. Fra dieci minuti il lago è quieto: io scenderò lì.
No
diss'ella. Fanny non mi aspetta. Dorme.
Voltò
Saetta e mise la prora al Palazzo. Non parlarono più né l'uno né l'altra.
Quando giunsero al Palazzo faceva meno scuro e il vento era caduto affatto, ma le
onde strepitavano ancora lungo i muri, tanto da non lasciar udir la barca.
Anche il
sangue di Silla si veniva chetando. Passarono sotto la loggia. Quella vista gli
rese la sua freddezza altera.
Lei mi ha
detto stamattina diss'egli che non La conoscevo. La conosco invece molto bene.
Marina
credette forse che volesse alludere alla scena avvenuta lì, e non rispose.
Guardi
com'entra in darsena diss'ella dopo un momento di silenzio.
Io lascio i
cordoni.
Silla entrò
con precauzione. Solo passando adagio adagio per l'entrata, ella gli rispose
piano:
Come può
dire di conoscermi? Ma bisognava ora badare a non urtar il battello, approdar
bene, presso la scaletta. Ed era così buio! Saetta strisciò sul fondo
sabbioso, si fermò. Silla uscì, tentò con la mano la parete grommosa dello
scoglio in cui è scavata la darsena, trovò questa scaletta che mette al cortile
e continua poi nell'ala destra del Palazzo, sino all'ultimo piano.
La scala è
qui diss'egli porgendo la mano a Marina che ripeté nel prenderla:
Come può
dire di conoscermi? E saltò, dalla prua a terra: ma, imbarazzatasi nella
catena, cadde in braccio a Silla. Egli se ne sentì il petto sul viso, strinse,
cieco di desiderio, la profumata persona, calda nelle vesti leggere: la strinse
fino a soffocarla, le sussurrò sul seno una parola; e lasciatala scivolare a
terra corse via per la scaletta, saltò nel cortile.
Marina
rimase immobile, con le braccia stese avanti. Non era un sogno, non c'era
inganno, non c'era dubbio possibile; Silla aveva detto: CECILIA.
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