El xe
largo e longo, Ecelenza disse alla contessa Fosca la sua fedele Catte,
versandole il caffè in una tazza larghissima, mentre la contessa, alzando la
testa dal cuscino e facendosi puntello de' gomiti, considerava con occhi
diffidenti il vassoio, la tazza, la sottocoppa, la zuccheriera, il bricco
levato in aria e il filo arcuato del caffè cadente.
Benedetta
Venezia! diss'ella.
Eh,
Eccellenza, benedetta Venezia!
La xe
aqua, ciò disse la contessa con una smorfia deponendo la tazza sul vassoio dopo
avervi appena posate le labbra.
Acqua
schietta, Eccellenza. Ce l'ho detto io a quella vecchia. Questa è la secchia
(Catte accennò alla tazza) e questo è il pozzo (Catte accennò il bricco). Oh
che casa, Eccellenza! La vecchia ha fatto il muso per le lenzuola e io le ho
cantato che Sua Eccellenza non può dormire se non è nelle sue lenzuola.
Questo ci
hai detto?
Sì,
Eccellenza.
Hai fatto
bene, sa. Le ho tolte per l'albergo, ma già che vi sono... Vestimi, che
presto sarà ora di Messa.
Come La
comanda, Eccellenza. La cameriera giovane, quella della marchesina Marina, mi
ha dato ragione, se non fallo, perché tanto l'una che l'altra parlano peggio
dei levantini. Sa, Eccellenza, cosa si capisce? Che qui padroni e servitori,
con buon rispetto parlando, son tutti cani e gatti.
Dimmi,
dimmi. Quest'altra calza, siora sempia! Dimmi dimmi. Non c'è male queste
gambe, ancora, ah?
Eh,
Eccellenza, quante sposine vorrebbero...!
Sì, dimmi, vecia,
conta su. Cani e gatti, ah?
Eh cani e
gatti, Eccellenza. Il signor conte e la signora marchesina non si possono
vedere. La si appoggi a me. Piano, Eccellenza, piano, che il letto è alto.
Quando si guardano pare che si vogliano mangiare. Così ci ha detto il cuoco a
Momolo, perché pare che il cuoco non tenga né dall'uno né dall'altra. Ne
contano di belle.
Conta su.
Ma non so,
Eccellenza, se posso, perché c'entra il signor conte...
Eh,
stupida, quando vi dico di contar su, il vostro dovere è di contar su.
Come La
comanda, Eccellenza. Ecco, si vuole che il signor conte, tempo fa, volesse
prendere la signora marchesina e che la signora marchesina si disperasse
perché, ohe poveretta, giovane la è, anima mia...
Contate su
senza tante anime.
Come La
comanda, Eccellenza. Dunque la signora marchesina si ammalò e andava a torzio
colla testa; da quel tempo non ha più potuto vedere il conte; e il signor conte
ha dovuto metterla via; ma anche lui è diventato rabbioso con lei. Dopo è nato
un altro pettegolezzo d'un giovane...
D'un
giovane?
Per
servirla, Eccellenza.
Che
giovane?
Sua
Eccellenza era inquieta.
Qua vien lo
sporchetto, Eccellenza. Il suo nome di questo giovane non è il suo nome. Pare
che ci sia un pasticcio... non so se mi spiego.
Eh,
insensata, fra me e te, abbiamo duecento anni, e pigli tutti questi giri?
Come La comanda,
Eccellenza. Questo giovane ha un altro nome, ma è figlio del signor conte.
Eccola tonda.
Sua
Eccellenza si slacciò la cuffia da notte e rimase un momento immobile, a bocca
aperta, guardando Catte. Poi si strinse nelle spalle.
Sciocchezze,
insulsaggini diss'ella bugie. E dunque?
Adesso vien
l'imbroglio. Non ho capito se ci fosse del tenero fra costui e la signora
marchesina o se abbiano trovato da ridire fra di loro, e che lui, voglio dire,
che lei ne abbia dette quattro a lui, o se il conte volesse che lei lo
togliesse, questo giovine, e che a lui non le piacesse, o che la si fosse messa
in pensiero, si sa, per la roba, ciò, e che lui...
Sua
Eccellenza buttò via la cuffia.
Uff, che
caldo che mi fai! Cosa vuoi che capisca? Dammi quell'affare! Quell'affare, sì,
quell'affare! Non capisci? Vai alla Sensa?
Catte andò a pigliar la parrucca
di Sua Eccellenza e si dispose a mettergliela.
E poi?
disse la contessa.
E poi... La
permetta, Eccellenza, che siamo un poco storti. Ecco così. No, ancora un
pochetto.
Sua
Eccellenza soffiava come una macchina a vapore.
La senta,
Eccellenza. Chi è adesso che ha da dire che la è parrucca? Dopo tutto, la porta
anche la Madonna. La compatisca, Eccellenza. Dunque un bel dì non so come, è
nato un bordelo, grida tu che grido anch'io, non so se si siano anche
pettinati, l'amico senza dire cani vi saluto infilò la calle e chi s'è visto
s'è visto. Cose di sei giorni sono. E quel tedesco, Eccellenza, che macia!
Stamattina è venuto giù lui a prendere il caffè da portare alla sua tedeschetta.
C'era abbasso anche il signor conte, perché quello è proprio el massariol,
lo si trova dappertutto, pare che vi comparisca di sotto terra.
Tacete,
pettegola interruppe la contessa Fosca. Ho tanto di testa. Cosa volete che me ne
faccia di tanti pettegolezzi? Fate presto. Specchio. Brava, gioia. La Madonna
porta ella quell'affare sul naso? Questo si acquista con darvi libertà, che non
fate più attenzione a niente. Presto. Sua Eccellenza è alzato?
Credo di
sì. Ho visto Momolo portargli gli abiti.
Bene,
andate a dirgli di venire da me. Presto!
Subito,
Eccellenza. Per diana, tu puzzi ancora di baccalà, ciò soggiunse Catte
fra i denti, chiudendo l'uscio dietro di sé.
Non era
colpa della contessa Fosca se suo padre, dopo essere stato sbrodegher,
aveva venduto ai veneziani e alla terraferma uno sterminio di baccalà. Quando
il conte Alvise VI Salvador si degnò di sposarla, i suoi concittadini le
inflissero il nomignolo di contessa Baccalà. Ella sapea tuttavia liberarsene
presto per la sua bonarietà disinvolta, per la franchezza con la quale parlava
della propria origine, per la sua schietta e allegra ignoranza. Con l'andar del
tempo si fece voler bene persino dalle gran dame più schizzinose; il tanfo dei
negozi paterni andò perdendosi; ci voleano le nari maligne di Catte per
coglierlo ancora.
In
vent'anni di matrimonio il fu conte Alvise VI, buttando via quattrini a destra
e a manca con l'aiuto dell'allegra signora, aveva cominciato a rivedere qua e
là il fondo della cornucopia, su per giù come prima del suo matrimonio. Alla
sua morte la contessa Fosca si trovò in possesso di latifondi sterminati, di
debiti colossali, e di un ragazzetto mingherlino, ammirato in casa e fuori di
casa, come un grande ingegno. La contessa volle sapere a puntino in quali acque
navigasse; si spaventò, si raccomandò alla Madonna dei Miracoli, ad avvocati, a
santi, a uomini d'affari; ebbe la fortuna di trovare una valente e proba
persona, l'avvocato Mirovich, che accettò di mettersi a pope e promise
condur la barca a salvamento. Si introdussero grandi economie nella famiglia,
si mise Nepo in collegio, si vendettero due tenute in Friuli; e certe
anticaglie polverose, degne agli occhi della contessa d'esser buttate in rio,
uscirono dal granaio del Palazzo per finire al Museo Britannico.
Mentre le
guaste fortune di casa Salvador si andavano racconciando, Sua Eccellenza Nepo
assodava la sua riputazione in collegio. Aveva memoria prodigiosa, parola assai
facile; non era sfornito d'ingegno, se ne attribuiva con l'aiuto dei maestri e
di compagni adulatori, moltissimo. Escito di collegio, studiò leggi a Padova.
Nell'Università
il suo nome non si levò sugli altri. Con il grosso degli studenti, scapestrati
aperti, democratici intus et in cute, egli, delicato e molle, non poteva
accordarsi. Non ebbe adulatori; fu addetto a una chiesuola timida di eleganti,
motteggiata, satireggiata dagli altri. Trovava modo di sdrucciolare spesso a
Venezia e d'indugiarvisi. Si occupava di economia politica e sapeva fare
l'elegante, comparir signore, applicando segretamente la legge del minimo
mezzo.
I suoi
primi passi nella società furono fortunatissimi. Egli era una speranza bianca e
rosea di mamme e di figliuole, una speranza di quei patrioti che desideravano
alta la illustre nobiltà veneziana. Quando si annoveravano nei crocchi i
giovani più valenti di Venezia, qualcuno cominciava a dire c'è Salvador. Gli
bastava per questo, a lui patrizio, conoscere il tedesco, l'inglese, essere
abbonato all'Économiste e al Journal des Économistes, andare a
qualche seduta dell'Istituto, spiegare da Florian cosa avessero fatto di tanto
noioso i pionieri di Rochdale per seccare l'universo. In pari tempo svolazzava
intorno alle gran dame e alle belle dame senza bruciarsi le ali e nemmanco il
cordoncino dell'occhialetto; scherzava impunemente con loro, le consigliava
nelle più gravi minuzie, acquistandone a poco a poco certa stima sui generis,
per cui esse non potevano parlar di Nepo Salvador senza farne gran lodi e
sorridere. Il suo nome illustre e la buona opinione che molti avevano di lui,
piuttosto per desiderio e per fede che per conoscenza dell'uomo, prevalsero un
pezzo su questi equivoci sorrisi e sui giudizi che poche persone, a
quattr'occhi, facevano di lui. Finalmente i sussurri si propagarono,
diventarono mormorii, bisbigli, voci; il credito di Nepo si sdrucì rapidamente
da ogni parte; il suo perpetuo occhialetto, le fogge esagerate degli abiti, il
portamento effeminato, la vanità ridicola, gli stomeghezzi, le
taccagnerie male nascoste, furono liberamente derise; i suoi amici si
confidarono il gran dubbio che sapesse pochino pochino, e quando uno diceva
talento, però un altro rispondeva ehu, memoria. Nepo Salvador diventò il conte Piavola.
Nel 1860
due o tre valentuomini, amici di casa Salvador e teneri, per l'onor di Venezia,
del nome patrizio, accordatisi fra loro, si misero attorno a Nepo onde
persuaderlo a emigrare. Bisognava prepararsi all'avvenire, come facevano tanti
altri delle migliori famiglie, con la esperienza della libertà, con l'amicizia
dei pezzi grossi di Torino. Nepo era ambizioso, cominciava a sentire un freddo
intorno a sé; abbracciò subito l'idea. La contessa Fosca odiava religiosamente
col suo grosso patriottismo, i tedeschi, ma non poteva comprendere che diavolo
fosse questa libertà cui bisognava prepararsi tanto tempo prima, né quale onore
fruttasse l'essere deputato, cioè, com'ella concluse dopo infinite spiegazioni,
l'essere mandato in tanta malora dal calegher, dal forner, dal frao,
ecc. A una amica che le domandò se partiva lei pure, rispose stizzita: Io? Cosa
volete che vada a fare? Il deputato?. Non partì, ma faceva di tratto in tratto
delle visite a suo figlio. S'incontravano a Milano per abbreviare il viaggio e
perché Nepo amava far conoscere sua madre a' suoi amici. Colà videro spesso i
Crusnelli di Malombra, loro cugini per parte della madre di Marina. Fra i
d'Ormengo e i Salvador v'era stata alleanza fin dal 1613, quando Emanuele
d'Ormengo, inviato di Carlo Emanuele I a Venezia, s'invaghì di Marina Salvador
e la sposò. Nel 1797 Ermagora Salvador, esule da Venezia, trovò a Ginevra i
d'Ormengo, fuggiaschi dal Piemonte, e, un anno dopo, condusse in moglie
Alessandrina Felicita, zia del conte Cesare e madre, in seguito, di Alvise VI.
Il lusso tutto moderno del marchese Filippo abbagliò Fosca, benché nel suo
palazzo di Venezia vi fossero da secoli ricchezze dieci volte maggiori. Ella
pensò subito ad un matrimonio e ne parlò a Nepo, il quale arricciò il naso e
rispose in tono cattedratico che un giovanotto non può legarsi senza una gran passione,
e che quando si ha l'amicizia delle più belle e colte signorine di Venezia e di
Torino non è facile innamorarsi a prima vista di altre persone; che, al
postutto, lo sfarzo dei Malombra gli piaceva e non gli piaceva. Un oracolo!
pensò sua madre, quando improvvisamente casa di Malombra si sfasciò. Ella si
compiacque assai che Marina fosse stata raccolta dallo zio Cesare. Lo aveva
conosciuto a Venezia un trent'anni addietro; lo sapeva ricchissimo e senz'altri
eredi che questa nipote. Non osò tuttavia riparlare a Nepo di matrimonio, dopo
la teoria dei giovinotti dalle belle amiche. Fu Nepo che un paio d'anni dopo la
catastrofe, trovandosi con lei a Milano, escì a parlarle della povera Marina,
delle sue disgrazie, dei suoi begli occhi; le disse che certe idee respinte una
volta, al tempo della prosperità di Marina, adesso gli si riaffacciavano, gli
entravano meglio di prima nel cuore intenerito. Taso, ma no la bevo, vissere
disse tra sé la contessa Fosca. Nepo osservò pure che correva loro obbligo,
essendo in Lombardia, di visitare il conte Cesare, parente dei più stretti che
avessero. La contessa, prima di avventurarsi in paese sconosciuto, volle
informazioni e consigli da donna Costanza R..., una vecchia dama milanese di
sua conoscenza. Le informazioni sul cugino furono scarse: strano, misantropo,
ricchissimo, senza eredi più prossimi di Marina. Di costei donna Costanza seppe
solamente dire che la credeva un follettino, ma buona e pia. La vedeva sempre,
quand'era a Milano, all'ultima messa di San Giovanni. Casa Malombra, già, non
se ne parla, principii buonissimi. Anche il povero Filippo, testa un po' fêlée,
ma buonissimo, neh! Proprio buono, ecco, povero Filippo! E poi, cara, gran
seigneur! Donna Costanza concluse che bisognava scrivere prima, e poi,
secondo la risposta, regolarsi.
La contessa
Fosca scrisse un capolavoro diplomatico. V'erano intarsiati non pochi errorucci
di ortografia e di grammatica; ma nessuno si sarebbe atteso dalla contessa uno
scritto così artificioso. V'era espresso il desiderio di rivedere il conte dopo
tanti anni, di stringere con l'amicizia i legami del sangue. Non era egli, dopo
tante disgrazie, il più prossimo dei parenti superstiti del povero Alvise? Tali
erano pure i sentimenti di Nepo. Ella avrebbe voluto intrattenersi con lui
dell'avvenire di questo suo figlio; e qui grandi elogi al medesimo. Lo vedeva
disposto ad accasarsi. Ove cadrebbe la sua scelta? Certo sopra una famiglia
degna, una fanciulla virtuosa; ma ella, come madre, doveva pur pensare a quello
che i benedetti giovani non curano mai. Qui veniva un quadro né troppo scuro né
troppo chiaro delle finanze Salvador. Insomma ell'aveva bisogno di amici
autorevoli e prudenti. Verrebbe volentieri al Palazzo con Nepo, se però il
tempo, se la salute, se questo se quello permettesse. Desiderava pure tanto
abbracciare la cara Marina di cui si ricordava sempre con tenerezza. Aggiungeva
uno speciale bigliettino affettuoso, sulle generali, per essa.
Il conte
Cesare rispose brevemente che si compiaceva delle buone qualità di Nepo, e approvava,
riguardo al matrimonio, le idee della cugina; che avrebbe gradito assai la
visita e sperava riuscirebbe gradita anche a sua nipote. Questa mandò due righe
di fredda cortesia irreprensibile, che diedero un po' da pensare alla contessa
Fosca, perché gittavano un'ombra sulla lettera dello zio, la quale poteva
interpretarsi per un assenso anticipato con la solita clausola se piace. Ma
donna Costanza le fece riflettere che, nel caso di Marina, un gran riserbo era
della più stretta convenienza. Così Sua Eccellenza s'imbarcò e fluttuava in
alto mare, quando dopo le chiacchiere e le inattese rivelazioni di Catte,
comparve Nepo.
Sua madre
lo accolse con una faccia sepolcrale, lo fece sedere e dopo un solenne Fio,
qui nasce questo gli spifferò d'un fiato tutta la storia di Catte, tenendo
indietro il più grosso, smorzando e rallentando la voce sempre più. Finì col
metter fuori la supposta paternità del conte e ripeté in forma di epilogo, con
voce sommessa ma solenne:
Un fio!
Nepo rimase
imperterrito. Disse ch'era ormai interamente sicuro di piacere a Marina, poiché
ella si trovava male in casa dello zio. Quanto al figlio, non valeva la pena di
occuparsene. La contessa non voleva credere a' propri occhi e se lo fece
ripetere due volte. Eh, so quello che dico! esclamò Nepo impazientito. Se
sposerò mia cugina non sarà per i denari. Sciocchezze, cara mamma, queste.
Fosca andò sulle furie, sempre sottovoce. Nepo si stringeva nelle spalle e
taceva; ma quando sua madre dichiarò che sarebbe partita la sera stessa, egli, giuocando
furiosamente, prima delle sopracciglia e del naso, poi del capo, scosse via
l'occhialino, assalì la contessa a rimproveri, a sarcasmi e affermò che non
sarebbe partito quand'anche si fossero dati la posta al Palazzo tutti i Silla
dell'universo.
Che Silla?
interruppe Sua Eccellenza. Chi è questo Silla? È quell'amico?
Nepo si
morse le labbra.
Ma
rispondi! È questo il fio?
Non c'è
figli.
To', to',
to' disse Fosca appuntando l'indice a Nepo che le voltava le spalle, tutto ingrugnato.
Tu lo sapevi, tu? Come diavolo hai fatto? Tu lo sapevi, eh? Come lo hai saputo?
Nepo fece
un atto d'impazienza e uscì brontolando dalla camera.
Sua
Eccellenza gli guardò dietro, alzò le sopracciglia, porse il labbro inferiore e
sussurrò:
Xelo!
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