Era corsa
una settimana dall'arrivo di Edith e dei Salvador al Palazzo. La contessa Fosca
pretendeva d'aver avuto, i primi due giorni, una gran soggezione sia per il
muso lungo del cugino, sia per il muso lungo delle montagne. Guai, diceva lei,
se le fosse mancato il conforto di Marina! Sarebbe partita subito. E concludeva
che a questo mondo non bisogna mai disperar di nulla, fuorché di veder Cesare
pettinato. Adesso si trovava proprio come in paradiso; Cesare si era
sbottonato, gli altri si erano sbottonati, aveva potuto sbottonarsi anche lei e
- oh Dio - si respirava. Adesso non c'era pericolo che la contessa Fosca avesse
soggezione. O per complimenti a Marina o per blandizie a suo figlio, o per
rabbuffi al conte e a Steinegge, o per apostrofi strambe ai domestici, o per
esclamazioni e soliloqui, la sua voce era sempre in aria. In questo non
somigliava di certo alla gentildonna veneziana del Palma, ch'ella giurava e
spergiurava, Palma o non Palma, essere il suo ritratto fattole a tradimento un
trent'anni addietro, probabilmente quando era andata al ridotto da dogaressa
del 500. Nepo recitava al conte in tono oratorio, per abituarsi alla Camera,
delle lunghe tirate d'economia politica, gli raccontava di aneddoti politici
della capitale. A Marina parlava di mode e di tutte le contessine e le
marchesine che aveva conosciuto a Torino, riferendo i dialoghi tenuti con loro
e avendo cura di intercalarvi spesso Voi Salvador, voi Maria, voi Emma, voi
Fanny ecc. Le dedicava pure le sue goffe spiritosaggini insolenti; le
nascondeva i libri, le mutava un guanto, faceva dondolar Saetta quando
andavano sul lago. Sfoggiava senza pietà per Marina le toelette più
irresistibili, a tinte austere la sera, tenere la mattina; tanto tenere che
qualche volta Nepo, profumato come era, pareva un boccone di crema alla
vaniglia. E il glorioso corno degli avi magnanimi, quel corno
che
valeva assai più che una corona
si era
sciolto,
Benché
re de tutti i corni,
in una
minutaglia di cornetti burla, piovuta sui bottoni, sulle spille, sui fazzoletti
del pusillanime nipote, malgrado la spiccata antipatia della contessa Fosca per
questo emblema che le suggeriva dei motti democraticissimi. Steinegge, a cui la
contentezza sprizzava da tutti i pori, era il cavaliere ufficiale di Sua
Eccellenza che aveva molta bontà per lui. Il cucchiaio che va a spasso con la
scodella diceva la contessa quand'egli le dava il braccio. Però prima di
accordargli tanta confidenza si era fatto spiegar che non era austriaco né
amava gli austriaci; e ci volle del buono perché potesse capacitarsi che l'è
todesco e no l'è todesco Vorrete dire che è todesco, ma non tiene
dai todeschi? esclamava la povera donna. E finiva con dire: Mi fido, mi
fido. Ne domandò allo stesso Steinegge, al quale, poi, accordò sincera
amicizia, giungendo fino a raccontargli certi aneddoti molto scabrosi con sì
poca prudenza che Steinegge, se Edith era vicina, fremeva.
Steinegge
pareva rabbonito con la stessa Marina, forse perché tra pochi giorni avevano a
separarsi partendo egli con Edith per andare a stabilirsi a Milano; ed era
questo un piacere comune. Marina prendeva qualche volta a braccetto Edith per
fare un giro in loggia o in giardino. Edith non sembrava lieta di questi favori
e se ne schermiva. Il suo contegno con Marina era freddo quanto glielo
consentiva la sua condizione di ospite: e non mancava in quel riserbo un'ombra
di alterezza. Non si poteva accusarne il sangue tedesco. Per la contessa Fosca,
Edith mostrava viva simpatia, e anche pel conte Cesare, benché in tutt'altro
modo. E il conte Cesare era affettuoso con lei, aveva combattuto i suoi
propositi di immediata partenza, le si apriva più assai che a suo padre: le
parlava della sua vita solitaria con l'amarezza pacata che copre dolori
profondi, e le diceva di sentirsi scossa la salute ferrea goduta sin allora.
Con i Salvador, tanto agli antipodi della sua natura, il conte si mostrava
paziente oltre il prevedibile. A Marina non rivolgeva quasi mai la parola. I
loro sguardi non entravano direttamente l'un nell'altro in nessun caso;
correvano obliqui a incrociarsi in un punto X più o meno lontano, come certe
linee ipotetiche di teoremi geometrici. L'umore di Marina era dei più mutabili.
Da lunghe ore di calma taciturna passava ad impeti di nervoso brio. Civettava
un momento con Nepo a segno di stordirlo, di levarlo da terra; poi non lo
guardava più, non gli rispondeva. Viveva, si può dire, d'aria; e non era mai
stata così bella. Sotto le due bende ondulate di capelli che scendevano curve
fin presso le sopracciglia, quasi a nascondere un segreto pensiero, i suoi
grandi occhi gittavano fuoco assai più spesso del solito. Nella sua persona,
musica inesprimibile di curve armoniose dall'orecchio finissimo alla punta del
piede arcuato, si vedeano alternarsi l'energia e il languore di una vita
nervosa, esuberante. Insomma ella era come un nodo di ombra, di luce e di
elettrico; che cosa chiudesse, nessuno lo sapeva.
Quasi ogni
giorno si facevano gite sul lago o sui monti. Era la contessa Fosca che metteva
fuoco, per così dire, alla brigata, senza farne mai parte. Ne aveva abbastanza
di girar per casa! Perdeva spesso la tramontana sulle scale o nei corridoi.
Allora chiamava Catte, chiamava Momolo. Catte era già pratica d'ogni buco
quanto un vecchio topo; ma il povero Momolo non ne poteva venire a capo e non
era infrequente il caso che all'appello della contessa rispondesse quasi di
sotterra la sua voce lamentevole. Pronto, Eccellenza; ma non so da che parte.
Gli Steinegge erano andati due volte alla canonica e don Innocenzo avea fatto
anche lui una visita al Palazzo. Quanto al dottore, non vi si era più veduto.
Bella e
allegra compagnia era quella che pranzava nel tinello. Motti, burle, grossi
equivoci, galanterie bernesche, botte e risposte di taglio e di punta, sussurri
maligni, risate, strilli, mugolii di mangiatori disturbati, s'urtavano,
s'incrociavano, si mescolavano sotto le volte basse. Un tocco di campanello
troncava netto quel tripudio di ranocchi indiavolati; poi scappava fuori
daccapo una voce, un'altra, una terza, tutto il concerto. La Giovanna se ne
crucciava inutilmente. Chi faceva le spese di tanto chiasso era per lo più
Momolo che sapeva dir solo andiamo, andiamo, da bravi. Da Momolo, i
beffeggiatori passavano al parlare veneziano, a Venezia stessa; ma allora
bisognava sentire e veder Catte, riconoscere che cinque o sei lombardi son
pochi davvero per azzuffarsi a parole con una brava calèra del buon
sangue veneziano. Con quattro frustate in giro li faceva stare indietro tutti,
poi ne sceglieva uno e lo tempestava di motti e di frizzi, voltandogli addosso
le risate della compagnia, sprecando un tesoro di spirito e concludendo,
inebetita la vittima, che non c'era gusto.
Andate là
diceva qualche volta Fanny stiamo più allegri noi che i sciori.
Allora si
chiudeva il torrente delle risate e si aprivano i mille rivoli del
pettegolezzo. Tutta la compagnia bisbigliava. Alla Giovanna quei bisbigli non
piacevano; ma Catte sosteneva che a nu, poarini, era lecito, lecitissimo
ascoltare alle porte, leggere le lettere, dar ordine alle tasche ed ai cassetti
dei padroni. Non vanno alla commedia i padroni? Dunque anche la povera servitù
ha da potersi godere la sua matta commedia, già che in casa la danno per
niente. E se non la vogliono dare, ciò, la si prende. Quello non è
rubare; agli occhi e alle orecchie non ci resta attaccato niente. Se si mette
la mano in un cassetto è a fin di bene e non per brutte cose, e, dopo, uno si
lava nell'acqua dei padroni.
La commedia
in scena era questa: S. E. Nepo e il suo matrimonio. Quella gente aveva
fiutato il titolo in aria per istinto. Si era ancora al prologo; un prologo occulto
da cogliersi negli sguardi, negli atti, nelle parole più indifferenti, forse in
qualche colloquio recondito in cui gl'interlocutori credevano non essere uditi
neppure dall'aria. Catte ne aveva parlato lungamente a Fanny, rispondendo agli
elogi che la cameriera civettuola faceva della bellèssa di Nepo, della bianchèssa
di quelle mani da popòla e della sua gran scichèssa in generale.
Catte le aveva rappresentata la cosa come un gran beneficio cui la Provvidenza,
aiutata dalle Eccellenze Salvador, stava per recare a donna Marina. Ella
magnificava non poco le ricchezze de' suoi padroni, i due palazzi di Venezia,
di qua e di là dall'acqua, la colossale villeggiatura con i porticati lunghi
come le procuratie, i reggimenti di statue, i granai capaci di sfamare tutti i
topi e i pitocchi di Venezia, e la famosa aia grande come la Piazzetta. Fanny
beveva queste notizie e le spandeva tra i colleghi: Che senta, che senta! La
dice così e così. Pareva che stesse per ereditar lei tutta questa roba. Gli
altri facevano spallucce. Che ne importava loro? E chiedevano a Fanny s'ella
credeva di andar a far la principessa. Fanny, piccata, rispondeva: Che
sciocchezze!. Principessa no, ma intanta non sarebbe più stata ad
ammuffire in quel mostro d'un sito, fabbricato dal diavolo per i suoi figli.
Allora le si faceva osservare che il matrimonio non era poi mica ancora sicuro;
e qui cominciavano le congetture, si avviavano delle conversazioni come questa:
Lui già è
innamorato morto. Ho visto io ieri che alzandosi da tavola lei aveva
impolverata la punta d'uno stivaletto. Ouf, mica vero. Come, mica vero? Ce lo
dico io. E poi si mangian su cogli occhi. Invece no. Lei non ci guarda quasi
mai. È lui che è sempre lì a questo modo! Storie! Già si sa che la signora
Fanny non vuol credere. Perché non voglio credere, signor Paolo? Non ha preso
su qualche mezza oncia, Lei, dal signor conte? Ebbene, cosa c'è dentro? Qualche
bacio? Bugie, bugiacce! Non ha vergogna? Nessuno me ne ha fatto dei baci a me.
Eh lasciate dire, benedetta. C'è la libertà qui. Prima se lassa far dopo se
lassa dir; voi non c'entrate. E poi cos'è un bacio. Tempo buttato via. Oh
che süra Catte! Cosa dice Momolo? Che si faccia l'affare o no? Cosa
volete che dica? Bezzi cercan bezzi. Ehi, guarda un po', è mica da merlo quella
risposta lì. Già, l'è così la storia. Lui le fa l'asino, tanto per parere; e
lei che ci vuol bene al padrone qui come al fumo negli occhi, lei se lo lascia
fare tanto per cavarsela; ma l'è tutta una macchina dei vecchi. Han denari come
terra e voglion fare un mucchio solo. Tacete, ha ragione qui lui! Stamattina la
contessa ha preso una rabbia, perché sono andata in sala mentre l'era sola col
signor conte e poi è venuto il Sindaco e non andava mai via, mai via e mai via,
che bisognava vedere! Certo la ci voleva parlare e non ha potuto, perché poi
sono tornati a casa gli altri. È chiara, neh, süra Catte? Come questo
caffè, vecia.
Catte aveva
poi dei colloqui intimi con Fanny nelle passeggiate vespertine che facevano
insieme. Donna Catte
Picoleta
ma furbeta
sapeva
divertirsi alla commedia per conto suo e recitare per conto degli altri. Perché
mai cercava ella, così acuta e sarcastica, il favore della scipita Fanny?
Perché la blandiva con tutti i possibili cocolezzi? Perché la faceva
sempre parlare di donna Marina? Essa la strizzava come un limone, ed ebbe
presto finito di spremerne il sugo, che non era molto davvero, benché
contenesse ogni sorta di cose. Le informazioni e i giudizi di Fanny, accomodati
e cuciti da Catte a modo suo, erano porti a S. E. la contessa Fosca che li
accoglieva con gravità solenne come avrebbe fatto, in argomenti di Stato, uno
dei Cai antenati di suo marito. Ella seppe così che Marina era amica
intima di Fanny e le confidava tutto; che godeva di una salute regolarissima e
non aveva in tutta la persona un difetto, una cicatrice, che non aveva potuto
soffrire il signor Silla; che portava biancheria di seta; che leggeva una
quantità di libri gialli e rossi; che era mite come un'agnellina. Fanny aveva
detto qualche altra cosa, una cosina ghiotta che Catte offerse alla contessa
con molta arte, con uno straordinario sfoggio di segretezza, ecco: pareva a
Fanny che la marchesina fosse innamoratissima di Sua Eccellenza il conte. Ma la
contessa con quell'aria di dabbenaggine spensierata, sapea osservare e se ne
intendeva di questi argomenti. All'udire la grande notizia alzò gli occhi in
viso a Catte, la guardò un poco e disse solo:
Sei
vecchia, tu?
Gesummaria,
Eccellenza!
Anch'io, sa!
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