Una mattina
la contessa Fosca e il conte Cesare si trovarono soli a colazione. Tutti gli
altri erano andati a vedere il posto della futura cartiera insieme
all'ingegnere Ferrieri, al Finotti e al Vezza, ritornati, il primo per gli
affari, gli altri due per vedere un Orrido vicino, pochissimo conosciuto, dove
s'era combinato di andare il giorno dopo.
La contessa
Fosca pareva ancora più gaia del solito, aveva la parrucca per isghembo e
lanciava al conte delle occhiate serie che non s'accordavano con il suo cicaleccio
scherzoso. Parlava di cento cose, saltando di palo in frasca. Il conte le
rispondeva a monosillabi, a brevi parole buttate là per voltar da sé la
corrente. A ciascuna di queste risposte la contessa cambiava argomento, senza
maggior frutto. Non se ne mostrava stizzita. Tutt'altro; anzi era sempre più
amabile, tanto che il conte tra i suoi già, certo, sicuramente, le
lanciò due occhiate di cui la prima alquanto lunga voleva dire: che diavolo
c'è? e la seconda, assai breve, ho capito. Poi non la guardò più.
La contessa
tacque un momento, si buttò indietro sulla spalliera della seggiola e si pose a
giuocare frettolosamente col suo ventaglio verde, facendosi svolazzar i nastri
della cuffia intorno al faccione ridente.
Che
peccato, Cesare? diss'ella.
Ma!
Che peccato
non esser più giovani!
Oh,
sicuramente.
Si sarebbe
andati a spasso anche noi, e invece ci tocca di star qui a guardarci come due
trabaccoli marci in cantiere.
Il conte
non poté trattenere un movimento combinato di tutte le rughe del viso.
Eh gridò la
contessa pensate voi se io sono andata giù un pochetto, d'essere un bel capo,
voi? Che arie! Qui la contessa, vociferando sempre, si versò da bere.
Eh, perché
mi fate quegli occhi? Credete che spanda? Non ho mica la tremarella, sapete. È
la tovaglia di santa Costanza, questa? Perché, digo, credo che siate di
quel tempo. Dunque, cosa si diceva? Mi avete fatto perder la testa con le
vostre smorfie. Oh Dio che caldo! E star qui con voi! Era ben meglio che fossi
andata a vedere questa maledetta cartiera. Quelli si divertono! Via, siate
buono! datemi una pesca. Se si divertono! Grazie, tesoro. Dite sì o no che si
divertono?
Non lo so.
Non lo so?
Io sì che lo so. Bello quel non lo so!
Vi piace
quella pesca?
No, non val
niente. Cosa c'entra la pesca? Lasciate star le pesche, caro voi. Che uomo che
si perde con le pesche! Cosa dicevamo?
Io? Niente.
Niente fa
bene per gli occhi e fa male per la bocca. Parlate, dite su. È un'ora che parlo
io. Mi fate compassione. A questo modo scoppierete. Contate su. Perché non
volete che quei ragazzi si divertano?
Udite disse
il conte sorridendo io mi sono divertito molto da un'ora a questa parte e siete
voi che mi fate compassione. Voi volete passare piano piano un'acqua un po'
larga e profonda e andate su e giù per la riva, cercando il ponte che non c'è.
Non vi resta che saltare, cara cugina. Saltate pure, non vi farete male.
La contessa
diventò scarlatta, e spinse via bruscamente il suo piatto su cui posava un
calice pieno di barolo. Il calice si rovesciò sulla tovaglia, il conte trasalì,
cacciò fuori tanto d'occhi e Sua Eccellenza esclamò:
Niente,
caro. Nozze! Ecco.
Il conte
sbuffava. Ci vollero tutte le tradizioni cavalleresche della sua casa per
trattenerlo dal prorompere contro l'avventata cugina. Le macchie lo irritavano
come se avesse avuto per blasone la pulitezza. Suonò furiosamente il campanello
e gridò al servo: Via tutta questa roba! Subito.
Fu una
cannonata che gli portò fuori in foco e strepito quel groppo di collera e lo
lasciò vuoto, tranquillo.
Vi è
passata, caro? disse la contessa dopo che fu sparecchiato.
Il conte
non rispose.
Anche a me
soggiunse tosto Sua Eccellenza. Parliamo dunque di questo affare. Sentite,
Cesare. Voi a quest'ora, col vostro gran talento che avete, mi conoscete. Io
sono ignorante, sono una povera scempia, ma de cuor. Sono tutta cuore.
Quando si tratta delle mie viscere, della mia creatura, mi rimescolo tutta,
quelle poche idee mi vanno in un mucchio, non vedo più niente, non so più
niente. Sono una povera femmina così. Aiutatemi voi, Cesare, consigliatemi voi,
guardate voi, dite voi, tutto voi, tutto voi. Voi siete del sangue del povero
Alvise. È Alvise che mi dice di mettermi nelle vostre mani per nostro fio,
per il mio Nepo.
Pronunciato
questo nome, la contessa, intenerita, si asciugò gli occhi con un immenso
fazzoletto.
Perdonatemi,
Cesare diss'ella. Sono madre, sono vecchia, sono insensata.
La voce
singhiozzante della signora non era piacevole e non divertiva affatto il conte
Cesare, che aveva tirato indietro per isghembo la sua seggiola, e, posta una
gamba a cavalcioni dell'altra, la dondolava in su e in giù, guardando la
gentildonna veneziana del Palma.
Gli era
nuovo quell'aspetto lagrimoso di sua cugina, e gli piaceva ancora meno degli
altri. Dopo qualche momento di silenzio in cui la contessa si tenne il
fazzoletto sul naso e sull'occhio sinistro, il conte voltò il capo verso di lei
e continuando nel maneggio della gamba e ribattendo col dito medio della mano
destra Dio sa che nota sulla tavola, disse:
Dunque?
Dunque, oh
Dio, qui vedo certe cose che mi fanno paura. Mi capite. Anche in delicatezza
non posso tacere. I ragazzi son ragazzi, si sa; ma noi altri dobbiamo aver
giudizio anche per loro.
Avete
paura? Ma ditemi un poco, non era la vostra intenzione questa?
La mia
intenzione, benedetto? Ma no che non era la mia intenzione. La mia intenzione
era di farvi conoscere mio fio, di fare che gli voleste bene, che gli
deste dei buoni consigli anche su questo punto del prender moglie. Mi ha
rifiutato due o tre partitoni, proprio coi fiocchi, non so perché. Ho cercato,
ho fatto cercare se avesse qualche intrigo, qualche pasticcio. Niente, non ha
niente. Non è mica un frate, grazie a Dio, e avrà fatto anche lui, si sa,
quello che fanno tutti i ragazzi, sfido! però con prudenza, con giudizio, da vecio.
D'impegni neppure l'ombra! Dunque? Questa cosa non mi lascia dormire. Io non
posso parlare. Egli crede che si cerchi solo l'interesse. Oh Dio, madre sono, e
devo pensarle tutte. Lui non vede che il cuore, lo spirito, il talento, la
bellezza, il suonare, il cantare e tante altre cose fatte di aria e niente come
queste. Cose ottime, ma non bastano. Pensai che forse per ora non volesse
legarsi. Ma no: seppi di certo che l'idea l'aveva; un'idea, là, per aria. Son
dunque venuta, vi torno a dire, perché gli deste dei buoni consigli. Marina?
Ecco il mio torto. Non ho pensato che poteva innamorarsi di Marina. Sentite,
Cesare. Io sono Betta dalla lingua schietta. Parliamoci candidamente, benché la
sia vostra nipote. Quella ragazza ha fatto un gran cambiamento. Nepo e io
l'abbiamo conosciuta a Milano. Con tutte le sue ricchezze, con tutte le sue
grandezze, a mio fio non é piaciuta niente affatto. Gli pareva superba,
aristocratica. Perché mio fio, in punto aristocrazia, ha tutte le vostre
idee, che si usano adesso, dopo che c'è l'Italia. Mio fio non è mica uno
di questi spuzzette che vi tiran di naso se non avete quattro quarti.
Allora vostra nipote non gli piacque troppo. Non mi è dunque neppur passato per
la testa che cambiasse il vento. E ho avuto torto perché adesso, lasciatemelo
dire, la è proprio una gioia, un bombon. E poi le sue disgrazie! Non ho
pensato alle sue disgrazie, non ho pensato al cuore che ha mio fio. Per
il cuore Nepo è tutto me. Il gran cuore, figlio caro, è un peso che tira a
fondo, chi ha gran cuore...
Ebbene?
interruppe il conte a cui pareva tempo di concludere.
Ebbene, non
dovrei parlar così a Voi che siete suo zio, il suo secondo padre, ma Vi ho già
detto la confidenza che ho. Ecco, non so se si possa lasciar andare avanti
questa cosa. Vedo il diritto, vedo il rovescio, vedo questo, vedo quello,
vorrei e non vorrei. Oh Dio, che strucacuor!
La contessa
si portò ancora il fazzoletto agli occhi. In quella un uscio si aperse, e
comparve Catte recando la tabacchiera di Sua Eccellenza. Costei si voltò
inviperita e gridò tutto d'un fiato con voce stridente:
Cavève
vu, che ve lo go dito tante volte che no vogio che stè a secar co se parla!
Catte posò
la tabacchiera sopra una seggiola e si ritirò in fretta.
Il conte
restò ammirato delle mobili emozioni di sua cugina, la quale, ripiegato
lentamente il capo, si riportava il fazzoletto agli occhi.
Adesso
diss'egli posso dire una parola io?
Oh,
benedetto, se l'aspetto come la manna del cielo!
Tutte
queste cose che avete visto Voi, io non le ho viste; forse sarò miope. Ma
lasciamo stare. Non è poi necessario che due persone perdano prima il sonno,
l'appetito e la testa, per poter poi vivere insieme passabilmente. A ogni modo,
non ci vedo chiaro neppur io in questa faccenda.
Gli occhi
languidi e lagrimosi della contessa si ravvivarono di botto. Ella si posò il
fazzoletto sulle ginocchia.
Io non so
vedere seguitò il conte quale razza di felicità possa uscire dalla unione di
Vostro figlio e di mia nipote.
Ciò! esclamò Sua Eccellenza
sbalordita.
Mia nipote
ha molto ingegno e una testa delle più bizzarre che Domeneddio e il diavolo
possano mettere insieme quando lavorano a chi più può.
Ma che
spropositi, Cesare!
Niente
affatto. Non lo sapete ancora che la marca di fabbrica di quei due signori si
trova in tutte le cose di questo mondo? Bene; mia nipote avrebbe bisogno di un
marito d'acciaio, forte e brillante. Vostro figlio non è d'acciaio sicuramente.
Oh, io non lo disprezzo per questo. Gli uomini di acciaio non si trovano mica a
dozzine. Io credo che vostro figlio, il quale, tra parentesi, non ha le mie
idee sull'aristocrazia, non sia il marito che ci vuole per Marina.
La contessa
Fosca, ch'era venuta slacciandosi la cuffia, dondolando il capo, e soffiando,
rispose:
Cos'è questo
fare? Cos'è questo parlare? Cos'è questa roba? sapete che mi fate venir caldo?
Non ho capito bene il vostro discorso, ma se mai fosse contrario a mio fio,
come mi è parso, ho l'onor di dirvi con tutto il rispetto al vostro talento,
che non intendete niente. Andate a Venezia a domandare di mio fio;
sentirete. No, che non è d'acciaio; d'oro è. Di acciaio sarete voi e anche di
stagno se occorre. Venite fuori con certe cose che mi fanno proprio uscir dai
gangheri. D'acciaio? Si è mai sentito? D'acciaio si fanno le penne, anima mia.
La contessa
interpose qui un breve silenzio e alcuni gravi colpi di ventaglio.
Che roba!
continuò. Non ve ne intendete. Oh, non ve ne intendete, figlio caro. E quella
poveraccia di Marina, neppur quella conoscete, signor orso. Eh, no no, caro.
E giù
quattro colpi di ventaglio.
Intanto il
conte la guardava con uno stupore troppo espresso per essere del tutto sincero.
Ma allora
diss'egli è vero, io non comprendo niente. Se avete queste idee, perché diavolo
Vi fa paura che vostro figlio faccia la corte a mia nipote?
Sentite,
Cesare, io avrò tutti i difetti e tutti i torti del mondo, ma son sincera. Mi
prenderete in mala parte se parlo schietto? C'è anche questa, che se mio fio
lo viene a sapere che vi faccio certi discorsi, poveretta me, non ho più bene,
non ho più pace. Mi raccomando, Cesare. Volete che ve lo dica? Questa cosa mi
fa groppo in gola, stento a buttarla fuori. È una umiliazione grande, è una
cosa contraria al mio carattere, ma i fatti sono fatti, il dovere è dovere.
La contessa
posò il ventaglio sul tavolo, si ripose il fazzoletto in tasca, si riannodò la
cuffia, e poi ricominciò lenta e grave:
Ecco qua.
Pur troppo la famiglia Salvador di adesso non è più la famiglia Salvador di una
volta. Il povero Alvise è stato molto disgraziato nei suoi affari; e poi
abbiamo avuto il 48, e s'è fatto quel che s'è fatto. Non faccio per dire, ma se
non era la roba mia i Salvador sarebbero andati a pescar moleche. La
roba mia, quando Alvise mi sposò, era tanta. Magari fosse vissuto ancora,
benedetta l'anima sua! Si sarebbe in malora; ma contenti. Di quei pensieri, di
quelle fatiche, di quelle privazioni ho avuto, figlio caro, che non Vi dico
niente. Sempre mangiacarte per casa. Le campagne in man dei ladri; il fattore,
capo. Mangia tu che mangio anch'io. Con duemila duecento campi in Polesine, mi
toccava di comperare il riso per famiglia; non Vi dico altro. Oh Dio, che vita!
Basta, a forza di stenti e di sacrifici, si drizzò la barca. Ma a questo punto
dipende da Nepo che non si torni indietro; tutto dipende dal matrimonio che
farà Nepo. E adesso ditemi, Cesare; se colla vostra bontà, se col vostro gran
cuore non aveste raccolto quella povera Marina, come vivrebbe? Ditemi,
benedetto, come vivrebbe?
Col suo,
vivrebbe.
Col suo?
La contessa
Fosca aprì tanto d'occhi.
Sicuramente.
La liquidazione della sostanza di mio cognato ha dato ottantamila lire
d'attivo.
Bene, pane
e acqua, parliamoci schietto.
Io non sono
veramente così gran signore da dir questo. Io apprezzo ottantamila lire. A me
basterebbero.
Bene,
diremo: pane, acqua e pomi. E poi bisognerebbe vedere se vi basterebbero. E poi
prendete una sposina giovane, bella, tutta fuoco, piantatevi a Torino o a
Milano con dei maledetti nomacci di questa sorta, lunghi come da qui a Mestre,
con una fila mai più finita di palle e di corni, perché ci hanno a essere anche
quelli, vestitela, spogliatela, divertitela, scarrozzatela e anche... sto per
dire... sì insomma, arrischiate di far crescere la famiglia, e mi saprete dire,
coi vostri ottantamila cossa xeli, quanti salti farete. Io vi parlo col
cuore in mano, perché vi considero di famiglia, Cesare. La mia prima idea era
quella di portar via Nepo sul momento; ma cosa avreste detto di me? Ho pensato di
parlarvi prima come farei a un fratello; e così ho fatto.
Vi
ringrazio molto dell'onore disse il conte. Voi mi fate onore assai più che non
crediate. Il consiglio che io vi do è di partire subito.
La contessa
tacque, ferita al cuore.
Si udirono
in quel silenzio mortale due mosche azzuffarsi dentro una zuccheriera.
Eh certo
diss'ella. Pareva che Sua Eccellenza, dopo tante ciarle, si fosse trovata a un
tratto senza fiato.
Del resto
disse il conte è molto possibile che non partirete. Dipenderà da mia nipote.
Come, da
vostra nipote?
Sicuramente.
È la mia coscienza che mi ha imposto di darvi quel consiglio, perché non credo
che mia nipote e vostro figlio si convengano. Ma voi non avete questa opinione,
neppure vostro figlio pare che l'abbia, e potrebbe darsi che non l'avesse
neppure mia nipote, la quale è perfettamente in grado e in diritto di avere una
opinione. Allora capite bene che io non potrei né vorrei far prevalere la mia.
Andate alla
Sensa, Cesare? Dopo tutto quello che vi ho detto...
Il conte si
alzò e la interruppe.
Volete
favorire nella mia biblioteca? Ho la debolezza di trattare sempre gli affari in
quel luogo.
La contessa
voleva replicare qualche cosa, ma suo cugino, aperto l'uscio, le accennò che
passasse. Intascò poi la tabacchiera posata da Catte e seguì la contessa.
Quando Sua Eccellenza si fu accomodata in un seggiolone della biblioteca, il
conte si mise a camminare su e giù per la sala, muto, con la testa bassa e le
mani in tasca, secondo il suo solito. Sua Eccellenza lo guardava senz'aprir
bocca, sbalordita. Fatti cinque o sei giri, il conte le si fermò in faccia, la
guardò un momento e disse:
Che vi pare
di trecentoventimila franchi?
Il viso di
Sua Eccellenza diventò paonazzo. Ella balbettò qualche parole inintelligibile.
Trecentoventimila
miei e ottantamila suoi fanno quattrocentomila. Che vi pare di quattrocentomila
franchi?
In nome di
Dio, Cesare, cosa volete dire? Non capisco!
Oh, voi
capite perfettamente disse il conte con un accento inesprimibile. È un mistero
pel quale non vi mancava né la fede né la speranza prima di parlare con me. Io
ve ne ringrazio molto. Voi mi avete fatto l'onore di credere che provvederei
con sufficiente larghezza al collocamento di mia nipote, benché non ne abbia
alcun obbligo ed ella non porti il mio nome. Non è questo?
Sua
Eccellenza si slacciò da capo la cuffia e proruppe:
Sa Lei, sior,
cosa ho l'onore di dirle? Che a questo modo si tratta con i facchini e non con
le dame. Mi meraviglio che in quella fresca età Ella non abbia ancora imparato
a trattare il mondo. E mi meraviglio che con i suoi strambezzi, con i suoi
zimarroni, e con la sua zazzera La creda di poter fare e dire tutto quello che
Le salta in testa. Ella sarà nobile, caro, ma non La è cavaliere. Credete che,
se si trattasse di me, non Vi direi: Teneteveli i Vostri bezzi? Credete che
rimarrei un'ora di più in questa casa dove mi si manca di rispetto? Ringraziate
Dio che di me non si tratta, perché io non ho bisogno né di mio fio, né
di altri, e del mio ne avanza e non saprei che farmi dei Vostri trecento pun!
né dei Vostri quattrocento, pun pun! E io, povera insulsa, che vengo a
parlarvi come a un fratello! Ringraziate Dio, Vi dico, che sono vecchia e userò
prudenza con mio fio; se sapesse che gli si attribuiscono mire
d'interesse sarebbe capace di sacrificare il suo cuore, la sua felicità e tutto
quanto.
Il calore
di quest'arringa non era punto simulato. La contessa Fosca, dopo aver condotto
suo cugino al punto che voleva lei, si reputava offesa di sentirselo a dire. E
c'entrava forse nel suo dispetto quest'altra piccola delusione, che il conte
non avesse detto addirittura, com'ella sperava: Marina è mia erede.
Il conte
stette mansuetamente ad ascoltare le sfuriate di sua cugina, come se non fosse
affar suo: e si appagò di rispondere:
Il vino che
versate lascia macchia; le parole no.
La contessa
non parve udirlo. Ella si era già alzata e muoveva brontolando verso l'uscio.
Suo cugino in piedi, chino sul petto il capo formidabile, la guardava sorridendo:
forse perché Sua eccellenza pareva una papera che, offesa da qualche villano
nel suo pasto o nei pacifici colloqui con le amiche o nella contemplazione
solitaria, dopo una schiamazzata e una corsa se ne va grave e degna ma tuttavia
commossa, mettendo ad intervalli le voci brevi e sommesse dello sdegno suo che
si placa. Quando ella fu presso all'uscio, il conte si scosse.
Aspettate
diss'egli.
Sua
Eccellenza si fermò e girò un poco la testa a sinistra.
Il conte le
venne alle spalle, porgendole un oggetto che teneva con la mano e batteva con
la destra.
Sua
Eccellenza girò la testa un altro poco e gittò un'occhiata obliqua alle mani
del conte; dopo di che girò tutta la persona. Era una tabacchiera aperta che il
conte le tendeva. Sua Eccellenza esitò un poco, fece una smorfia, e disse
bruscamente:
È
Valgadena?
Il conte,
per tutta risposta, ripicchiò la tabacchiera con due dita.
Sua
Eccellenza porse il pollice e l'indice, soffregandone i polpastrelli uno contro
l'altro, con inquietudine voluttuosa; li immerse quindi nel tabacco morbido e
disse con voce alquanto rabbonita:
La fu una
grande indegnità, sapete, Cesare. S'accostò alle nari la sua presa. Una cosa
orribile diss'ella.
E fiutò il
tabacco. Lo fiutò una, due, tre volte, abbassò il capo sulla tabacchiera, aguzzò
le ciglia e afferrò la sinistra del conte.
Ohe
diss'ella anche ladro siete?
Il conte
rise e le diede la tabacchiera dicendo:
Siamo
intesi, non manca più che l'assenso di Marina.
Sua
Eccellenza uscì e gli chiuse, con poco garbo, la porta in faccia. Passando per
la loggia vide le due barche di casa che tornavano. Allora Sua Eccellenza si
affrettò di salire nella sua stanza per lasciarvi il suo ventaglio verde e
pigliarne un altro nero a fiori rossi, con il quale tornò in loggia e si
affacciò, facendosi vento, alla balaustrata.
Le due
barche brillavano al sole, sul lago verde, a qualche centinaio di metri. I remi
scintillavano nell'entrare e nell'uscir dall'acqua. Un gaio miscuglio di voci e
di risa veniva all'orecchio di Sua Eccellenza, quando più quando meno forte,
secondo il vento. Quelle barche parevano farfalline cadute nell'acqua, che vi
si dibattessero faticosamente agitando le ali, lasciando dietro a sé due
lunghe, sottili tracce convergenti. Saetta precedeva con la bandiera
ammiraglia; un po' a sinistra si vedeva la coperta bianca del battello. Marina,
Nepo, il Finotti ed il Vezza venivano con Saetta; nel battello stavano
gli Steinegge, il Ferrieri e don Innocenzo, che s'era imbattuto per caso nella
brigata e s'era unito a' suoi amici e all'ing. Ferrieri, anche perché questi,
conosciutolo per il parroco del paese, gli aveva fatto un po' la corte. Nel
battello si conversava tranquillamente. Edith difendeva la sua lingua nativa
contro l'ingegnere che l'accusava, un po' volgarmente, di asprezza. Ella
sosteneva che l'idioma tedesco è capace di una particolare dolcezza a tempo e
luogo, come nella poesia, e ha pei movimenti dell'anima parole dolci come Liebe,
weh, fühlen, sehnen, che acquistano dal prolungamento della vocale un suono
misterioso e profondo. Diceva queste cose interrottamente, timidamente, nel suo
italiano freddo, irrigidito. Mentre ella parlava, suo padre guardava don
Innocenzo, guardava l'ingegnere, guardava persino il barcaiuolo, con certi
occhi scintillanti che dicevano: Eh, che vi pare?. Don Innocenzo ascoltava con
attenzione vivissima e andava rimasticando fra i denti le parole tedesche
citate da Edith, esagerandone l'accento onde persuadersi che fossero armoniose,
mettendo degli hm, hm, di dubbio. L'ing. Ferrieri s'imbarazzava nella
discussione più che non convenisse a un uomo di spirito; rispondeva breve e
anche a sproposito alle chiamate che venivano dalla lancia.
Nella
lancia remava il Rico, regnava e governava donna Marina elegantissima nel suo
abito di flanella color tortora, tutto liscio, abbondante e fedele in pari
tempo alle linee della bella persona, come se ne fosse stato il solo
vestimento. Dalla cintura di cuoio giallo chiaro le cadeva sul fianco sinistro
una minuta pioggia di catenelle d'oro. Un piccolo medaglione d'oro le pendeva
sul gran nodo della cravatta di seta color marrone. Un cappellino rotondo pure
color marrone, a penna d'aquila, le posava sul delicato viso un accento di
capriccio altero. Portava i guanti del colore della cintura, e stringendo i
cordoni verdi del timone appuntava i gomiti indietro, rivelava intera
l'eleganza del busto, il disegno delle gambe di cui l'una si ripiegava
indietro, l'altra slanciava verso il Rico la punta d'uno stivaletto tutto scuro
picchiettato di bottoncini bianchi. Ell'aveva il Finotti a destra e il Vezza a
sinistra. Nepo se ne stava seduto malinconicamente a prora. Marina lo trattava
male quel giorno, il povero Nepo. L'aveva guardato una volta sola, entrando
nella lancia, per fargli comprendere che cedesse il posto migliore ai nuovi
ospiti. I due commendatori non avevan fatti complimenti, le si eran seduti a'
fianchi con prontezza giovanile, il Finotti acceso in volto di fuoco
mefistofelico, il Vezza irradiato dallo stesso placido sorriso di cui lo
illuminava talvolta la visione beatifica di una coscia di tacchino ai tartufi.
Non riconoscevano più la Marina fredda e silenziosa dell'altra volta. Questa
nuova Marina sfavillava di spirito e di civetteria. Il commendatore politico
avrebbe dato, non dico il suo collegio, ma tutti gli amici suoi per essere,
un'ora, il suo amante; il commendatore letterato avrebbe dato tutte le vecchie
bas bleu conservatrici di
Milano che lo tenevano nella bambagia come una reliquia classica. L'uno e
l'altro le parlavano della bellezza e dell'amore, tanto per avvicinarsi in
qualche modo a lei, per sentir meglio la elettricità della sua presenza; il
Finotti con un linguaggio fremente di passione sensuale, mal coperta; il Vezza
con la sua rettorica blanda e la sua vanità beata. Parlava di lettere
scrittegli da sconosciute lettrici delle sue opere; lettere odorate, diceva
lui, di quei vapori che l'amore esala come il vino delicato e bastano a
inebriare chi ha i sensi squisiti. Allora il Finotti lo canzonava, diceva di
non invidiargli il vecchio vino santo delle sue venerabili amiche di Milano,
vino scolorato, vino da conviva satur che sta per levarsi dalla tavola e
dalla vita. Egli amava il vino giovane, pieno di luce e d'ardore, che va come
un fulmine alla testa, al cuore, alla coscienza, perché quello solo sa dove
diavolo sia la coscienza, il vino che ha indosso tutto il fuoco del sole e
tutte le passioni della terra, carico di colore e di gas, che fa saltare le
bottiglie e gli scrupoli.
Senta,
signor Vezza disse Marina ex abrupto rispondeva Lei a quelle lettere?
Il signor
Vezza, che si prendeva il suo dolce commendatore col caffè mattutino della
serva, come al caffè vespertino della dama e sempre di grande appetito,
soffriva della privazione inflittagli da Marina. Ma bisognava rassegnarsi;
Marina non accordava a nessuno titoli che non fossero di nobiltà.
Rispondevo
alle belle signore diss'egli.
Sentiamo
questa meraviglia di finezza disse Marina guardando con aria negligente il remo
del Rico.
Non c'è
finezza, marchesina. Si potrebbe dire che nelle lettere anonime delle belle
donne c'è sempre un'ombra di riservatezza e in quelle delle brutte c'è sempre
un'ombra di abbandono; ma sarebbe volgarità. È l'istinto che bisogna avere,
l'istinto della bellezza. Quando Lei, marchesina, entra in un primo piano,
bisogna che lo studente, assopito al quarto sul Diritto Costituzionale qui
dell'amico Finotti, trasalisca! Che ne dice Lei, conte?
Ma Nepo non
dava retta alla conversazione. Nepo stava guardando con grande interesse il
Palazzo. Pensava se sua madre sarebbe in loggia, se avrebbe in mano il
ventaglio verde o il ventaglio nero e rosso o il fazzoletto bianco. Se la
contessa non era in loggia, voleva dire che non aveva potuto fare il gran
discorso; se c'era, il ventaglio verde significava mala riuscita, il rosso e
nero buona; il fazzoletto bianco voleva dire Marina avrà tutto.
Egli si
scosse alla domanda del Vezza e rimase a bocca aperta. Non aveva capito. Marina
si strinse impercettibilmente nelle spalle e parlò al Finotti. Il Rico, ch'era
sempre molestato e canzonato da Sua Eccellenza, voltò la testa e lo sbirciò con
due occhi scintillanti di malizia.
Bada a
vogare, imbecille gli disse a mezza voce Sua Eccellenza. Il Rico rise
silenziosamente mordendosi le labbra e tenne fermi sull'acqua i remi grondanti,
per aspettare il battello che ad ogni tanto restava indietro. Si udì il
Ferrieri discorrer forte. Il Vezza lo chiamò, e non avutane risposta, disse
qualche cosa su lui e la signorina Steinegge. Marina porse una boccuccia come
per dire cattivo gusto e l'altro sussurrò sorridendo.
Matematico!
Va! disse
Marina al Rico.
La prora
lunga e sottile guizzò avanti dividendo le immobili acque verdi.
Rade foglie
addormentate su quello specchio le venivano incontro, passavano veloci al suo
fianco si dilungavano a poppa, si perdevano. Anche il Palazzo le cresceva in
faccia, si allargava, si alzava, spalancava porte e finestre; i cipressi,
dietro quello, si staccavano dalla montagna e venivano incontro alla barca; la
montagna stessa moveva dietro a loro. La macchia nera nel terzo arco della
loggia diventava una donna, una matrona, la contessa Fosca con un farfallone
rosso e nero sul petto. Si udì lo zampillo del cortile, si udì la voce della
contessa:
Siete qua,
benedetti?
Siamo qua.
Bellissima gita, mamma, allegria perfetta, molti incidenti, nessun accidente.
Ossia mi correggo, un accidente solo; mia cugina ha avuto molto spirito e io
non ne ho avuto punto.
Gridando
questo, Nepo si adattò solennemente le lenti sul naso e contemplò Marina.
Pareva un
altro uomo. Aveva scosse le braccia per far scendere i manichini sino alle
nocche delle dita e guardava sua cugina con un sorriso da trionfatore sciocco.
Marina fece mostra di non aver inteso la sua impertinenza e si voltò a vedere
se veniva il battello. Intanto la prora di Saetta e Nepo e il Rico e i
commendatori e la dama e la bandiera entravano via via nella fredda oscurità
della darsena, dove la voce di Nepo rimbombava già tra le grandi volte umide e
l'acqua verde come una lastra di smeraldo.
Egli scosse
il capo per farsi cader le lenti dal naso, saltò vezzosamente a terra con le
braccia aperte e le ginocchia piegate, porse la mano agli altri e poco mancò
non li facesse stramazzar nell'acqua dalla lancia che il freddurista Vezza
chiamava bilancia per la sua sensibilità ad ogni squilibrio di peso.
Quando venne la volta di Marina, le stese ambedue le mani, strinse forte quelle
di lei; ella corrugò un momento la fronte, saltò a terra e si sciolse. Sulle
scale la comitiva incontrò Fanny addossata a un angolo, con gli occhi bassi. Li
alzò con un sorrisetto su Nepo, che veniva ultimo. Pareva aspettarsi qualche
cosa: ma Nepo, che aveva arrischiato i primi giorni ora una parolina ora una
carezza silenziosa, le passò davanti senza neppur guardarla. Ella fece il viso
scuro e scese lentamente.
Il conte
Cesare venne, molto festoso, a incontrare i suoi ospiti a capo della scala e fu
gentilissimo con don Innocenzo. La contessa Fosca abbracciò Marina come se non
l'avesse vista da dieci anni e non salutò Steinegge che al suo quarto inchino.
Marina lasciò subito la sala dove si era raccolta tutta questa gente, e così
fece Edith.
Intanto il
conte, il Ferrieri e don Innocenzo disputavano, in un canto, della nuova
cartiera in relazione all'igiene e alla moralità del paese che, secondo il
conte, ne avrebbe guadagnato poco. Don Innocenzo, inesperto entusiasta d'ogni
progresso, sbalordito dalla descrizione del futuro edificio, delle macchine
potenti commesse nel Belgio, per esso, era più roseo, non voleva veder guai. Gli
altri s'erano aggruppati presso una finestra e discorrevano di politica. La
contessa voleva assolutamente sapere dal Finotti per quanto tempo gli austriaci
sarebbero rimasti a Venezia. Il Finotti che aveva già seduto al centro sinistro
della Camera subalpina, andava a Corte, ci godeva favore e non poteva soffrire
i ministri, prese subito un'aria d'importanza, di mistero, e disse che a
Venezia si sarebbe potuto andar presto, ma con altri uomini. La contessa non
poteva darsi pace di questa cattiva direzione della diplomazia italiana,
sbuffava, voleva che il Finotti insegnasse la strada buona al re, che la
insegnasse ai ministri. Se i ministri non potevano impararla si cambiassero,
questi stolidi, si buttassero in acqua. Figurarsi, se a Venezia sapessero queste
cose! Già, ell'aveva visto a Milano il ritratto del ministro in capo; a cosa
doveva esser buono, la me anima, con quel dio di naso?
Nepo la
interruppe, rosso, rosso, dicendole che di politica lei non capiva niente e che
la finisse con tante sciocchezze. Fu come un rovescio d'acqua diaccia.
Steinegge aggrottò le ciglia, gli altri tacquero. La contessa Fosca, avvezza a
questi omaggi filiali, osservò tranquillamente che spesso le donne hanno più
politica degli uomini.
Sempre
disse il Vezza e il gabinetto di Torino non val niente in confronto del Suo,
contessa. Anche il Finotti e lo Steinegge si stemperarono in complimenti. Nepo
si trovò impacciato, si adattò con ambe le mani l'occhialino sul naso, e
facendosi vento col fazzoletto, uscì in loggia.
Mentre egli
vi metteva piede, Marina pure vi entrava dalla parte opposta.
Ella vide
Nepo, parve esitare un momento, andò lentamente ad appoggiarsi alla balaustrata
verso il lago, nell'ombra di una colonna: e voltò la testa a guardar suo
cugino.
Nepo non
poteva dare addietro. Avrebbe voluto parlar con sua madre, saper da lei
precisamente come fosse andato il colloquio con il conte Cesare, prima di
muovere un passo avanti; ma poiché sapeva che le cose in complesso eran
procedute bene, come mai ritirarsi davanti al silenzioso invito degli occhi di
Marina! Dicevano chiaro: Vieni, siamo soli.
Malgrado la
sua vanità egli era imbarazzato. Non aveva tentato fino a quel giorno che
sartine, modiste e cameriere, limitandosi con le dame e con le damigelle a
colloqui fraterni. Il cuore non gli diceva nulla e la mente ben poco.
Andò a
mettersi a fianco di Marina, appoggiò le braccia sulla balaustrata e scosse dal
naso l'occhialino.
Cara
cugina. diss'egli.
Le lenti
cadendo sul marmo andarono in pezzi. Nepo ne sciolse le reliquie dal
cordoncino, le esaminò e le lasciò cadere sul macigno sottoposto sospirando:
Erano di
Fries.
Recitata
questa concisa orazione funebre, ripigliò:
Cara cugina
Dietro a
lui uscivano sulla loggia le voci della contessa Fosca, del conte Cesare, degli
altri, mescolate alla rinfusa in un guazzabuglio scordato.
Caro cugino
rispose Marina, guardando fuori del piccolo golfo il lago aperto dove i primi
fiati della brezza meridiana chiazzavano qua e là di rughe plumbee le immagini
dei nuvoloni bianchi e del sereno. V'ebbe un momento di silenzio. Bolliva
sempre là in sala il guazzabuglio delle voci scordate.
Quali
deliziose giornate non ho passato qui con Voi, cara cugina!
Davvero?
Perché,
perché non potrebbe esser sempre così?
Egli aveva
trovato il motivo e continuò a voce bassa, con accento enfatico, come se
recitasse la perorazione di un discorso parlamentare.
Perché
queste deliziose giornate non possono essere il preludio di una vita deliziosa
a cui tutto c'invita, le nostre tradizioni di famiglia, la nostra nascita, la
nostra educazione, la nostra simpatia?
Marina si
morse il labbro inferiore.
Sì ripigliò
Nepo, infervorandosi al suono della sua voce stessa e frenando a stento un
gesto oratorio. Sì, perché anch'io, che pure ho vissuto nella migliore società
di Venezia e di Torino e vi ho stretto cordiali amicizie con una quantità di
belle ed eleganti signorine, anch'io sin dal primo vedervi ho provato per Voi
una simpatia invincibile...
Grazie
sussurrò Marina.
...una di
quelle simpatie che diventano rapidamente passioni in un giovanotto come me,
sensibile alla bellezza, sensibile alla grazia, allo spirito, sensibile alle
squisitezze più recondite e più delicate della eleganza. Perché Voi, cara
cugina, Voi possedete tutte queste cose, Voi siete una statua greca, animata in
Italia, educata a Parigi, come diceva con meno ragione il ministro
dell'Inghilterra parlando della contessa C... Voi potrete un giorno
rappresentare con molto splendore la mia casa nella capitale, sia in Torino,
sia in Roma; perché io finirò certo per avere alla capitale una posizione degna
del mio nome, degna di Venezia. Io Vi parlo, cara cugina, un linguaggio più
serio che appassionato, perché qui non comincia ora un romanzo, ma prosegue una
storia.
Nepo si
fermò un momento per applaudirsi mentalmente di questa frase in cui il pensiero
e la voce correvano insieme ad un tonfo di tanto effetto nella parola storia.
È la storia
proseguì di due illustri famiglie, sostegno l'una della più gloriosa
repubblica, ornamento l'altra della più illustre monarchia italiana, sorte, la
prima nell'estremo oriente, l'altra nell'estremo occidente d'Italia, che
strinsero parentela in tempi remoti di prepotenze straniere e di discordie
nazionali, quasi preludendo e augurando alla futura Unità; che in tempi più
vicini, in tempi calamitosi per i loro due Stati rinnovarono il patto, e che
stanno per riconfermarlo ancora in mezzo agli splendidi avvenimenti del nuovo
gran patto nazionale.
Nepo era
spossato dall'improba fatica di contenere la sua voce e la sua eloquenza. Chi
sa dove sarebbe andato a finire, con le migliaia di frasi che aveva in testa,
senza una buona strappata di redini.
Marina
diss'egli volete esser contessa Salvador? Io aspetto con piena fiducia la
Vostra risposta.
Marina
guardava tuttavia il lago e taceva. Le voci della sala si spensero in quel
momento; la contessa Fosca s'affacciò alla loggia. Ella si ritirò subito,
rientrò in casa parlando forte; ma gli altri fecero irruzione in loggia.
Mi appello
a Lei, marchesina gridava il commendator Finotti, seguito dal commendator Vezza
che si stringeva nelle spalle sorridendo e ripetendo: Ha torto, ha torto.
Soltanto
allora Marina si scosse come per uscire dalla corrente dei suoi pensieri, disse
sottovoce a Nepo A domani e lasciò la balaustrata.
Nepo si
voltò corrucciato a guardar gl'interruttori e vide dietro ad essi sua madre,
che gli diceva con un lungo sguardo lamentevole e con le braccia aperte:
Come si fa?
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