PARTE
TERZA.
UN
SOGNO DI PRIMAVERA.
Il cane è
fedele.
Der Hund
treu ist.
Oh no, treu
ist, fff, caro Silla, questo è un grande sproposito. Se io dico dass der
Napoleon kein treuer Hund ist, questo è molto bene anche in grammatica.
Egli vuole il Reno, der Kerl! Avete fuoco?
Sì, ma
lasciate stare la politica.
Oh rispose
Steinegge allungando il collo e porgendo il mento sino a posar il sigaro sul
fiammifero acceso che Silla gli tendeva ooh... Tirò quattro o cinque frettolose
boccate di fumo. Io non parlavo per voi italiani diss'egli. Der Hund ist
treu.
Silla prese
la penna e scrisse.
Erano
seduti uno in faccia all'altro ad una tavola quadrata d'abete, onestamente
solida, senza tappeto né vernice.
Steinegge
si teneva aperta dinanzi una vecchia grammatica scucita, sciupata, tutta sgorbi
e disegni grotteschi. Silla aveva un calamaio e dei fogli.
Che vi pare
di quella grammatica? disse questi scrivendo.
Steinegge
voltò e rivoltò il libro con un sorriso malizioso.
Io non so
diss'egli se posso domandare quanto costa.
Quarantacinque
centesimi.
Ah,
quarantacinque centesimi. Questi sono cinque sigari. Molto. Basterebbero dieci
giorni per me. Il bue è malato, caro amico.
Der Ochs
ist krank. Dieci giorni?
Va bene,
scrivete. Dieci giorni. Io non fumo, io profumo così un poco ogni tanto per il
mio naso il mio cervello.
Steinegge
rise allegramente.
Mia figlia
crede soggiunse sottovoce che io fumo due sigari al giorno... Ooh, fff! sarebbe
una pazzia. Io accumulo denaro. In cinque mesi venti lire! È qualche cosa. Eh?
Non è male. Avete scritto? L'asino... l'asino... l'asino... Dov'è quest'asino?
Ah, l'asino è magro.
Der Esel
ist mager.
Scrivete.
Questo è l'ultimo; questo è profondo. Dunque io voglio fare un piccolo
regalo...
Steinegge
accennò col pollice rovesciato all'uscio cui voltava le spalle.
Voi mi
consiglierete. Voi siete un giovane molto elegante.
Silla
sorrise. Tutta la sua eleganza brillava in una spilla, una grossa perla cinta
di rose d'Olanda legate in argento, ricordo di sua madre. Portava sempre guanti
scuri, cravatte scure, abiti scuri. Aveva bensì la persona elegante, e le
vesti, anche dozzinali, ne pigliavano nobiltà. Ma in fatto gli si vedevano
certe lumeggiature sul dorso delle maniche da' gomiti in giù, e certe sfumature
di colore intorno al bavero punto richieste dall'eleganza.
Guardate
diss'egli spingendo a Steinegge il foglio di carta dove aveva scritto.
Prego
perdonare, perché io sono cieco come un conte Rechberg rispose Steinegge,
traendo la busta degli occhiali e applaudendosi con una risata. Spense il
sigaro e inforcò gli occhiali sulla punta del naso. Leggeva con le sopracciglia
alzate e con la bocca aperta: pareva si studiasse di guardarvisi dentro.
Silla prese
la grammatica che aveva trovata in una tana di libri vecchi presso il Duomo.
Era certo appartenuta a qualche allegro scolaro dei tempi austriaci che l'aveva
tutta imbrattata di nomi, di date, di caricature e aveva scritto attraverso le
file delle coniugazioni:
Su
nell'irto, increscioso Alemanno
Su,
Lombardi...
Dopo qualche momento di silenzio
l'uscio cui aveva dianzi accennato Steinegge si schiuse adagio, adagio. Silla
si alzò in piedi. Al rumore della sua sedia l'uscio si chiuse da capo.
Molto bene,
caro amico disse Steinegge posando il quaderno. Voi scrivete più bene che io il
carattere tedesco. Non è credibile come il piccone e il badile mi hanno
rovinata la mano. Sapete, in Svizzera.
Caro
professore disse Silla siamo alla dodicesima lezione.
Ebbene?
Silla
trasse dal portafoglio un piego.
Oh! esclamò
Steinegge, voltandogli le spalle e correndo per la stanza a capo chino e a
braccia aperte. Das nehme ich nicht, das nehme ich nicht! Non voglio, non voglio!
Ma come?
Non Vi ricordate i nostri patti?
Oh, caro
amico, io sarei vile di prendere il Vostro denaro. Io voglio chiamare mia
figlia...
Fermo! Se
non accettate, esco di qua e non ci vediamo più.
Date, date,
date a me questa maledetta canaglia di soldi. Voi non volete un piacere da un
povero vecchio amico.
No, non lo
voglio, sono orgoglioso, ho un cuore di ferro.
Oh, Voi
avete un cuore molto meglio che di oro, e anche io. So che mi amate; prenderò.
Ma perché studiate questo tedesco?
Per capirvi
quando parlate italiano.
Steinegge
rimase un pochino mortificato.
No, no, è
uno scherzo disse Silla prendendogli affettuosamente le braccia. Lo studio per
capire Goethe, e un certo... scrittore nostro, italiano; ma più Goethe, forse.
Non Ve l'ho già detto?
È vero, ma
io temevo adesso un'altra cosa. Sapete, mia figlia è ricca e guadagna denari
con le sue lezioni. Il conte mi manda sempre roba tedesca da tradurre in
francese e manda anche cento lire per mese. Cento lire, eh? Voi vedete, io sono
ricco.
E io
dunque?
Scusatemi
disse Steinegge inchinandosi io credo bene, io credo bene; anche Voi, certo.
Non
abbagliava però, in casa Steinegge, lo splendore della ricchezza. Quella lì era
una stanza bassa d'angolo, sotto il tetto. Aveva due balconi a ringhiera di
ferro, uno a mezzogiorno e l'altro a levante, le pareti tappezzate di carta
azzurra a righe più scure, il soffitto dipinto a cielo sereno e nuvoli. Un
letto di ferro pure inverniciato, coi suoi pomi lucenti d'ottone alle
spalliere, coperto di percallo perlato a fiori rossi, stava accostato alla
parete di ponente sotto un quadrettino piccino dove una ciocca di capelli
biondi si disegnava sul raso bianco incorniciato d'ebano. Tra l'uscio della
scala e l'altro che metteva nella camera di Edith, un caminetto di pietra
grigia portava con civetteria due lucernine a petrolio a' due capi e nel mezzo
un bicchiere modesto, un mazzolino di viole mammole ignude. In faccia al
caminetto, sopra la mole tozza di un massiccio cassettone a piano di marmo
cenerognolo, odoravano pochi calicanthus, simili a delicate fantasie
meste di un poeta convalescente. Tra il balcone di levante e la porta della
camera di Edith, si rizzava una stretta palchettiera a tre piani, zeppa di
libri e sormontata dal busto, piccino, di Federico Schiller. In mezzo alla
stanza la bianca tavola di abete strillava per avere il suo tappeto azzurro e
nero, il suo manto di ricchezza e di nobiltà da nascondervi sotto le quattro
gambe.
Pei due
balconi si spandeva sino al fondo della stanza la gran luce vitale dell'aprile,
mettendo dal cielo sereno un bagliore azzurrognolo sui fogli sparsi per la
tavola, e sul soffitto un riflesso caldo di opposte case, arse dal sole
cadente. Quand'anche non si fosse veduto per quei due meravigliosi quadri dei
balconi tanto arco di cielo e tanto mare disordinato di tetti sconvolti per
ogni verso fra poche fenditure di grandi vie, rappezzati di vecchio e di nuovo,
d'ombra e di luce, rotti da ciuffi d'alberi verdognoli, da striscie di muri
bianchi, irti di fumaiuoli e d'abbaini, quand'anche non si fosse veduta a piè
dei balconi la nera fascia del Naviglio e un lungo arco di via parallela,
punteggiato di moscerini umani che si traevano dietro lentamente il loro lungo
filo d'ombra, si sarebbe pur sempre sentita la smisurata altezza di quella
camera nella luce, nell'aria, nei suoni vasti e sordi che ascendevano lassù in
un'onda sola, continua.
Vi prego
disse Steinegge, togliendo calamaio e fogli dalla tavola e posandoli sulla
palchettiera aiutate me a mettere il tappeto. Mia figlia ama molto questo.
Presero il
tappeto azzurro e nero e lo spiegarono sulla tavola, che non strillò più. La stanzetta
prese un'aria quieta, contenta, che si rifletté sul viso del nostro vecchio
amico.
Grazie
diss'egli. Molte grazie. Oh, Voi non sapete con quanto piacere io faccio queste
cose. Non sapete cosa io provo quando tocco solo una di queste sedie. Erano diciassette
anni che non toccavo una sedia mia, eh? Capite? Diciassette anni. Questo legno
è così dolce! Io ringrazio Dio, caro amico. Voi siete giovane, Voi non pensate
a questo vecchio signore; anche io per un pezzo non ho pensato, ma adesso io
ringrazio...! Sentite. Steinegge afferrò Silla pel braccio e se lo trasse
vicino. I suoi occhi scintillavano sotto le ciglia aggrottate; una fiamma sola
gl'infocava il collo e il viso.
Io
ringrazio... ripeté con voce soffocata e stese, tacendo, l'indice della destra
prima verso il quadrettino dai capelli biondi, poi verso la stanza di Edith.
Finalmente lo alzò al soffitto.
E Dio
diss'egli. In passato io credeva vi fosse là, sopra le nuvole, un re di
Prussia.
Qui
Steinegge scosse violentemente il pugno sempre a indice teso.
No, no,
credete me soggiunse.
Io l'ho
creduto sempre, caro Steinegge rispose Silla. Guai a me se non lo credessi.
Se Voi sapeste disse Steinegge come sono
contento! Alle volte ho paura perché lo sono troppo e non lo merito, oh no! Ma
poi mi consolo perché tutto il merito è di mia figlia. Oh, mia figlia, caro
amico...!
Steinegge
giunse le mani.
Io non
posso diss'egli questo mi muove troppo il cuore di dir cosa è mia figlia.
Lo credo
disse Silla stringendogli forte la mano. La conosco.
No, no, Voi
non conoscete niente. Bisogna sentire come parla con me di queste cose di che
parlano i preti. Pensate, i discorsi dei preti sono cattivi organetti, e questi
di Edith sono come musica che si sente in sogno quando si è giovani. Noi
andiamo qualche volta in chiesa, ma noi non parliamo mai di preti. E di arte
come intende, oh! Io nasco adesso per quest'arte; io non capivo niente. Siamo
andati ieri... Come si dice? A Brera, a Brera. Pensate Voi se aveste ad aprire
adesso un libro tedesco, qualche grande libro come Goethe. Voi capireste otto,
dieci parole per pagina. Questo Vi farebbe senso. Vi farebbe battere il cuore
di cominciare a vedere otto o dieci lumi nelle tenebre, e andreste pensando
cosa può dire Goethe in quella pagina. Così ha fatto senso a me, ieri, di
cominciare a capire, ascoltando Edith, qualche cosa di quadri. E di
letteratura, mio caro amico! Questo Klopstock! Questo Novalis! Questo Schiller!
Ma non parlerà mai con Voi; non credete! Bene!
Qui gli
occhi di Steinegge, capitano o no, s'empirono di lagrime; la sua voce discese a
un tono sommesso, ma vibrato.
Noi abbiamo
una domestica per poche ore al giorno. Poi Edith fa tutto lei, così
semplicemente, così allegramente come uno va a passeggio. Io sono un vecchio
poltrone goloso e prendo il caffè a letto. Io Vi assicuro, non sono goloso del
caffè; sono goloso di veder entrare mia figlia e sentirmi dire: buon giorno,
papà in tedesco. Ogni mattina è come se la ritrovassi dopo dodici anni. Ella mi
porta il caffè, mi pulisce gli abiti e anche deve qualche volta cucirli!
Intanto noi parliamo del nostro paese, di tante cose passate, lontane, e anche
un po' dell'avvenire. Edith ha tre lezioni quasi tutti i giorni. Vi sono due
signore, la signora Pedulli Ripa e la signora Serpi, due signore oh, fff!
Steinegge spalancò gli occhi e alzò le mani soffiando, che sono innamorate di
lei e le loro figlie anche; e tante volte vorrebbero rimandarla a casa con la
loro carrozza, ma ella non ha mai accettato, perché sa che io non vorrei salire
in carrozza.
Voi? disse
Silla. Che c'entrate Voi?
Oh sì,
perché io aspetto nella strada tutto il tempo.
E perché
non vorreste salire in carrozza?
Questo non
sarebbe conveniente, caro amico. E così mia figlia è sempre venuta con me, sia
vento, sia pioggia. Io sono orgoglioso allora e ho piacere che così mia figlia,
quando esce dalla porta di questi signori, non è più maestra. L'hanno invitata
a pranzo, volevano condurla a teatro. Non è mai andata, per fare compagnia a
me; no, no!
Gli
brillavano anche i capelli mentre diceva no, no e il naso gli si raggrinziva su
fino alla radice.
Sapete cosa
facciamo, la sera? Prima Edith lavora e io faccio il sunto francese di questo
Gneist per il signor conte. Dopo Edith mi legge Schiller e Uhland, oppure mi
dice poesie moderne che io non conosco, poesie di Freiligrath, di Geibel, di...
di...
Di Heine.
No, mia
figlia non legge questo Heinrich Heine. Lo ho conosciuto questo uomo a Parigi.
Non è stato buon tedesco. Se Voi veniste qualche volta di sera, io Vi tradurrei
queste poesie e Vi darei una tazza di thè, perché Edith mi fa il thè ogni sera.
Voi disse
Silla sorridendo, Voi pigliate il thè?
Steinegge
si pose a ridere d'un riso muto, contorcendosi, gesticolando.
Ah, Voi
siete un maligno uomo. Capisco, capisco. È come se der König in Thule,
il Re in Tule, Voi sapete? si mettesse a bere un decotto, non è vero? Io bevo
adesso due bicchieri a pranzo e non altro.
È vostra
figlia che lo desidera?
No, no,
voglio io. Mia figlia mi pregava di prender vino la sera, e mi prega ancora
adesso, ma io ho visto una volta per i suoi occhi il suo cuore e io prendo thè,
caro amico.
V'invidio
disse Silla e prese il cappello per andarsene. Steinegge lo trattenne.
Aspettate,
venite a passeggio con noi.
Silla esitò
a rispondere.
Oh, venite,
venite!
Steinegge andò
a battere alla porta di Edith e la prego di uscire un momento.
Edith venne
tosto e porse affabilmente la mano a Silla.
Buon giorno
diss'ella. Che lezione lunga!
Era
graziosa nel suo abito nero, semplicissimo, corto ma non troppo, con un
mazzolino di viole alla cintura, il suo medaglione d'oro e onice sul petto e
una stretta golettina bianca che le rifletteva sul collo un candore diffuso,
trasparente. Le ricche trecce eran raccolte sopra la nuca. Nel viso delicato,
leggermente roseo, la bocca e gli occhi avevano una espressione più spiccata di
fermezza. È strano come quegli occhi esprimessero intelligenza della vita
reale, contemperata di bontà: come nello scherzo, nel sorriso che li illuminava
sovente, vi apparisse sotto all'iride un color di dolcezza triste; quale se un
altro spirito infuso al suo, uno spirito malinconico si ravvivasse qualche poco
nella gaiezza di lei.
Ella e
Silla si parlavano con certa familiarità amichevole in cui, per un sottile
osservatore, si disegnava più evidente il riserbo; come due persone unite e in
pari tempo divise da mutuo rispetto mostrano meglio lo studio di non toccarsi
quanto più si camminano accosto. Il contegno di Silla tradiva maggiormente
queste cautele talvolta eccessive, questa cura di trattenersi; Edith aveva modi
più spontanei ed eguali, misurati da un riserbo tranquillo, ingenito. Si
conoscevano oramai da oltre sei mesi; si vedevano spesso, non in un freddo
salone di ricevimento, ma nella intimità violenta d'una stanza tepida di vita
domestica; li univa una persona cara, benché in diverso grado, ad ambedue. Sin
dai primi giorni della loro conoscenza Edith aveva parlato a Silla del Palazzo
e dei suoi abitanti. Di Marina, conoscendo tutta la coperta storia delle
relazioni loro, gli aveva toccato il meno possibile. Silla s'era ben avvisto di
tale studio; né Edith poteva dubitare ch'egli non ne indovinasse la causa. Quel
conscio silenzio serviva pure, in qualche modo, di occulto legame tra loro;
essendo quasi un accordo ignoto a tutti, stretto senza la parola fra le anime,
in argomento d'amore. Simili segreti fra due persone che si stimano e si vedono
spesso, congiungono, in sulle prime, con qualche dolcezza; ma poi cresciuta la
familiarità, l'amicizia ch'essi aiutano, il silenzio, in luogo di congiungere,
divide, quella dolcezza diventa pena, desiderio inquieto; e il desiderio
comincia a tradirsi con i discorsi che tentano obliqui l'argomento proibito.
Allora come fra due gocce vicine sopra un piano liscio basta il tocco di un
capello perché trabocchino l'una nell'altra, così il tocco di una parola sola
rompe gli ultimi ritegni alla effusione del cuore e l'amicizia diventa piena.
Ma Edith e
Silla non parevano vicini a questo punto.
Ella
accettò ben volentieri la proposta di suo padre e andò a mettersi il soprabito
ed il cappello. Anche Steinegge chiese licenza a Silla, con grandi cerimonie,
di attendere all'ornamento della propria persona. Silla andò intanto ad
affacciarsi al balcone sul Naviglio.
L'aprile
brillava quella sera nel cielo lucido e soffiava la lieta novella di primavera
sulla vecchia città che beveva i soffi tepidi per ogni finestra. Quei soffi si
spandevano blandi per le piazze, saltavano per le vie, sibilavano ai canti.
Lassù in alto passavano a grandi ondate silenziose, movendo per le finestre
degli abbaini biancherie pendenti dalle imposte, fiori schierati sul davanzale,
che nella dolcezza infinita del tramonto primaverile ridevano al cielo,
innocenti, dalle vecchie case piene di colpa. Il sole cadeva alle spalle di
Silla. La casa dove egli stava e le altre sulla stessa linea a destra e a
sinistra, cupo bastione colossale, gittavan ombra sui giardinetti ai loro
piedi, sul Naviglio, la via e parte delle case di fronte. Sotto il balcone, a
sinistra, si spiccava dal primo piano, fra due macchie di grandi magnolie, una
terrazza a quadroni bianchi e rossi e balaustrata di granito rosa. Cinque o sei
uomini in giubba e cravatta bianca, senza guanti, vi passeggiavano fumando. Una
signora, una lunga cometa di velluto azzurro con una camelia bianca in testa,
vi comparve a braccio di un signore piccolo, grasso, anch'egli in giubba e
cravatta bianca. I fumatori le si fecero tosto attorno con rispettosa premura.
Dal balcone di Silla non si potevano intendere le parole, ma si udivano le voci
e si distingueva benissimo quella del piccolo signore grasso, il commendatore
Vezza. Silla conosceva quella dama, tenace bellezza di quarantacinque anni,
divisa da pochi anni da un marito giuocatore e nota per le sue velleità
letterarie, per i suoi cuochi di prima riga e per gli amanti di quarta che le
si attribuivano. Un acre sapore di sensualità elegante saliva da quel terrazzo
nella purezza della sera, un'aura di mille piaceri squisiti, raffinati dallo
spirito, come l'odore indistinto di leccornie che dalle cucine sotterranee d'un
grande albergo fuma nella via. Ma lassù nelle grandi ondate del vento questo
filo di fumo mondano si perdeva. Lassù si respirava una dolcezza simile alle
malinconie indefinibili dell'adolescenza casta, un turbamento d'affetto che non
ha uscita, un desiderio di aprire il cuore. Silla non pensava a cosa alcuna:
gli tornavano in mente i ricordi di paesi lontani, vaghe sensazioni amorose
della sua prima giovinezza, cadenze in minore e versi di canzoni popolari; uno
fra gli altri che lo perseguitava quel giorno, un verso marchigiano, quanto
dolce!
Boccuccia
riderella spandifiori.
Signor
Silla disse Edith sorridendo Ella resta qui?
Egli si
scosse, si voltò in fretta e si scusò della sua distrazione.
Edith e
Steinegge non attendevano che lui. Edith aveva un soprabito grigio scuro e una toque
nera, con il velo calato.
È un
peccato le disse Silla di dover scendere.
Lei
amerebbe camminare nelle nuvole?
Egli la
guardò un po' piccato, notò la recondita tristezza del suo sorrise e tacque.
Scusi
diss'ella non ho poesia.
Non aveva
poesia, forse, ma ve n'era tanta nella voce con cui lo disse, nella graziosa
persona illuminata dal sole cadente.
Andiamo,
dunque disse Steinegge.
Non è
possibile rispose finalmente Silla a Edith, nell'uscire.
Ci aveva
pensato molto. Edith non parlò, né si poté vedere con qual viso accogliesse la
tarda risposta di Silla, perché ella era già sulla scala e vi faceva scuro.
Era una
consolazione uscire da quella scala fredda e buia nella strada ancor chiara del
sole recente, nitida dopo una giornata di vento, quanto il cilindro di
Steinegge. Questi camminava a sinistra di sua figlia, rigido come un Y
capovolto.
Oh
diss'egli, fermandosi a un tratto sapete, caro amico? Oggi mi ha scritto
Innocenzo.
Fece atto
di cercarsi la lettera nelle tasche del soprabito, ma, ad una rapida occhiata
di Edith, disse di averla dimenticata a casa e ne parlò a Silla con entusiasmo.
Molto
affettuosa disse Edith e molto...
Non trovava
la parola.
Non spiritosa,
no. C'è un'altra parola italiana che mi pare, così per istinto, migliore in
questo caso.
Arguta?
disse Silla.
Sì, arguta.
Edith seppe
ripeterne gran parte a Silla. Non era la prima volta che don Innocenzo aveva
scritto al suo buon amico tedesco, appagando così un desiderio segretamente
confidatogli da Edith prima di lasciare il Palazzo. Le sue lettere improntate
di bontà e di arguzia erano scritte classicamente, in forma alquanto
artificiosa, come usa l'uomo colto che ne scrive poche. Toccava stavolta di tristi
casi avvenuti nella sua parrocchia, di grandi dolori sopportati con la umile
pace cristiana. Parlava con riverenza di queste virtù dei suoi poveri contadini
punto democratici; parlava della fede come un uomo che nella sua giovinezza ha
combattuto per non smarrirla e, avendo pur vinto, guarda con grande indulgenza
a chi ha lottato e perduto. Narrava che la neve, il gelo e le grandi piogge,
avevano danneggiato il soffitto della sua chiesa e che, la domenica precedente,
vi era venuto per caso a suonare l'organo un giovane maestro, il quale aveva
magistralmente eseguita certa musica di un tedesco, di Bach, gli pareva. Al
popolo la musica era piaciuta poco: ma lui n'era ancora imparadisato.
Raccontava che i lavori della cartiera erano molto avanzati e che parecchi
tegami e cocci preistorici, scoperti nello scavo delle fondamenta, fregiavano
adesso il suo museo privato. Annunciava che le tepide coste de' suoi monti, le
rive settentrionali del lago, erano in piena primavera e ne descriveva
l'aspetto con studiata eleganza di stile. Chiudeva con un caldo invito agli
Steinegge di venir a passare qualche giorno da lui presto, presto.
Edith
ripeté quasi alla lettera lo scritto del curato, omettendone solo una certa
parte. Era strano udir parlar di lago, di montagne, di vita semplice, sul corso
di Porta Venezia tra il doppio flutto della gente che calava ai bastioni, tra
il fragor sordo delle ruote sulle trottatoie e il calpestìo vibrato dei cavalli
di lusso, davanti alle cantonate bianche, rosse, gialle di affissi d'ogni
genere. Non c'era più sole; le nubi dorate riflettevano da ponente una luce
calda sulle case più alte e il vento portava in viso tratto tratto odore di
primavera, di sigari, di profumeria. Le signore che scendevano il bastione in
carrozza, parevano correr giù verso l'orizzonte limpido, abbandonarsi con
insolito languore, silenziose, alle carezze dell'aria tepida. E due lunghi rivi
neri di gente, picchiettati d'abiti chiari femminili, scendevano a destra e a
sinistra del Corso con un gran rombo confuso di passi e di voci, come due
lunghe striscie di stoffa pesante trascinate pei marciapiedi fuori del fitto
ombroso della città. Tutte le finestre erano aperte. Pareva a Silla che tutti i
cuori lo fossero pure, che quella corrente di uomini portasse tesori di
pensieri gai, d'immagini ridenti, che riflettesse la ingenua giovinezza eterna
della primavera. Anche nel color delle pietre, tuttavia calde di sole, egli
sentiva il prepotente aprile che non valendo a mettervi la vita, ve ne metteva
quasi il desiderio, la speranza lontana. Non gli toccava il cuore udir parlare
del lago e delle montagne; nessuna voce del passato si ridestava in lui.
Non scrive
altro quel signor curato? disse egli a Edith.
Null'altro
rispose per lei Steinegge.
Come? Non
parla del Palazzo?
Oh, qualche
parola, sì.
Non parla
del matrimonio di donna Marina?
Steinegge
non poté rispondere, perché un tilbury sopravvenne di gran trotto, tuonando sul
ciottolato vicino a Silla che si voltò a guardare il cavallo, un bel sauro
snello.
Bello
s'affrettò a dire il capitano di cavalleria, appena passato il tilbury bello,
ma troppo leggero. Cavallo ungherese; io conosco. Migliore da sella.
Dunque
ripeté Silla non parla del matrimonio?
Steinegge
lo guardò. Non gli pareva vero che fosse così indifferente.
Sì diss'egli
mi pare che scriva qualche cosa.
Suo padre
fa il diplomatico, signorina.
Non lo
credo rispose Edith. Lo faresti troppo male, papà; non è vero? Ma, e Lei,
signor Silla, cosa fa?
Faccio il
curioso, vuol dire. Ha ragione. Ma è curiosità innocentissima, lo creda.
Disse
queste ultime parole con enfasi, come per far loro esprimere più di quello che
potevano. Allora Steinegge uscì dalle sue trincee; con qualche cautela, però
spiegandosi lentamente.
Ecco
diss'egli pare che le cose vadano liscie e che il matrimonio non tarderà molto
a farsi.
Lo credo
bene. Non è combinato da sei mesi?
Sì, sì, ma
capite bene, caro amico, i preparativi, questo è lungo. Adesso poi si fa
presto, pare; prestissimo.
Me ne
rallegro assai disse Silla tranquillamente.
Steinegge
fece uscire anche le sue riserve.
Il
matrimonio diss'egli si fa, pare, questa sera, ventinove aprile. Pare che il
popolo vuol fare grandi cose; musiche, fuochi d'artificio. Ci è stata la
scritta. Si dice che il conte Cesare voleva costituire a donna Marina una dote
di trecentoventimila lire, ma che essa ha preferito un'obbligazione diretta del
conte allo sposo per questa somma, da sottoscriversi all'atto del matrimonio.
Il conte Cesare non è stato bene due giorni, ma ora è guarito. Il conte Nepo si
è fermato al Palazzo una settimana, in principio di questo mese, e i domestici
vanno dicendo che è molto avaro, ma il parroco afferma che non è vero e
racconta di aver ricevuto cento lire per i poveri.
Steinegge
scherzò su questo splendore di munificenza che aveva abbagliato il povero
prete; ma Silla lo contraddisse risolutamente, sostenne che alle buone azioni
non si piglia la misura, che non si arrovesciano per guardarne la fodera.
Parlava vivacissimo, di vena, interrompendosi spesso per salutare i suoi
conoscenti, per fare a Edith osservazioni gaie su persone e cose che gli
passavano sotto gli occhi. Tutti coloro che lo salutavano, guardavano poi Edith
curiosamente. Edith gli rispondeva breve, senza guardarlo, o solo quando non ne
poteva a meno. Ella non sorrideva più, si era fatta grave. Prese il braccio di
suo padre.
Silla
ammutolì poco a poco esso pure. Sospettò che Edith avesse attribuito un
significato preciso alla sua dichiarata indifferenza per il matrimonio della
marchesina di Malombra, e che volesse tenersi in guardia. Il cuore gli batté
forte, una oscura dolcezza gli confuse i pensieri. Qualcuno, dall'onda della
gente, lo salutò in quel momento; non rispose. Camminava in mezzo alla folla
come se né vedesse né udisse alcuno.
Erano
giunti presso al bastione. Vi spirava un'aria men tepida, pregna dell'odor de'
prati; ma la folla saliva tuttavia densa al viale di sinistra, e, al di sopra
de' cappelli si vedevano sfilar lentamente nel viale di mezzo, facendo il giro,
cocchieri pettoruti, cocchieri umili, cocchieri appaiati a staffieri, cocchieri
solitari, cocchieri soddisfatti, cocchieri rassegnati, cocchieri scuri,
cocchieri gialli, rossi, azzurri, e verdi. Edith avrebbe voluto ritornare
indietro; l'aria le pareva umida; temeva che suo padre ne soffrisse. Steinegge
ne rise. Quando mai aveva notato sua figlia ch'egli si curasse del secco e
dell'umido? E il Corso lo divertiva tanto! Edith non insisté.
All'entrata
del viale Steinegge alzò in aria tutte e due le braccia e tirò una allegra
mitraglia d'interiezioni tedesche a un signore piantato lì a vedere sfilare le
carrozze. Questo signore, un tal C... col quale Steinegge aveva tentato fondare
tempo addietro una Corrispondenza litografica si voltò, lo guardò e gli
venne incontro stendendogli la mano.
Scusate disse
Steinegge a Edith e Silla questo è C... Io debbo parlare. Andate avanti; vengo
subito.
Edith non
ebbe tempo di rispondere perché suo padre era già sgusciato via attraverso la
gente che, sopravvenendo fitta e continua, non consentiva di fermarsi. Fatti
pochi passi, ella volle uscire sul gran viale a guardare indietro, ma non vide
suo padre. Fermarsi lì ad aspettare non le garbava; le pareva di sentirsi più
imbarazzata, più sola. Silla le consigliò sommessamente di andare avanti, come
le aveva detto suo padre, ond'egli, passando oltre fra la gente, non li avesse
poi a cercar senza frutto.
Essi
camminavano fra il viale affollato e il lungo cordone di curiosi intenti a
guardar le carrozze che andavano al passo, fermandosi di tempo in tempo.
Camminavano discosti l'uno dall'altra, senza parlare, guardando tutte le
carrozze con grande attenzione, fossero calessi alla Daumont o sudicie
cittadine. Ad ogni tratto Edith voltava il capo a guardar indietro.
Intanto le
sconfinate campagne di levante, al di là del bastione, si vedevano nelle ombre
della sera sotto l'azzurro pallido del cielo che si confondeva quasi, laggiù
all'orizzonte, con esse, distese, aperte avidamente agli inenarrabili amori
della notte di aprile. Apparivano fra una carrozza e l'altra, scomparivano,
riapparivano, grande immagine di pace, al di là di quel brulichìo mondano. A
ponente le case oscure della città si disegnavano sul cielo aranciato che
posava una languida luce calda nei bassi prati dei giardini, il margine
scoperto del viale. La striscia nera della gente a piedi moveva lenta,
assaporando l'ora dolce, l'aria pura, odorata di primavera e di eleganza, il
rumor soffice delle carrozze, musica della ricchezza indolente, piena
d'immagini tentatrici. E le signore, negli equipaggi di gala, passavano e
ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platani, come Dee infingarde,
fra gli sguardi ardenti, la curiosità invidiosa del pubblico, blandite da
questi acri vapori d'ammirazione, fiso l'occhio al di sopra di essi, in qualche
invisibile. Quel moto lento e molle, quella stanca inquietudine umana pareano
consentire col nuovo turbamento, con le nascenti passioni della terra. Silla
avrebbe voluto parlare, interrompere un silenzio pieno d'imbarazzo e di trepide
immaginazioni, ma non ne trovava la via. Arrivarono davanti al caffè dei
giardini mentre molte persone se ne rovesciavano sul viale, rompendo la
corrente del passaggio. Egli offerse allora il braccio alla sua compagna, che
lo ringraziò e vi pose appena la mano. Silla sentì sul cuore quel tocco
leggero. Fendette la gente, facendo strada a Edith, guardando alla sfuggita la
piccola mano che gli pendeva inerte sul braccio. Strinse, per istinto, il
braccio e, senza saper bene quello che si dicesse, sentendo confusamente di
fare un discorso avventato:
Scusi
cominciò donna Marina Le ha mai parlato di me?
Edith non
s'aspettava una domanda simile. Non ritirò più la mano e rispose semplicemente:
Sì.
Certo ella
stava preparando qualche spiegazione cauta per una seconda domanda,
inevitabile; ma la seconda domanda non venne.
Che sera
soave! disse Silla. Si rinasce. Si sente l'aprile nel cuore. Lei non voleva
dirmi tutto quel che ha scritto quel signor curato: e io ho avuto tanto piacere
di udirlo da Suo padre!
Il braccio
di Edith si mosse un poco, ma non si ritrasse.
Ella non
sa, quando si ha una mano ferita, come si eviti ogni stretta, anche d'un'altra
mano amica, e quale consolazione sia sentirsela afferrare un giorno e non
provare più dolore!
Vuol dire
rispose Edith ch'era una scalfittura e che questa persona teme molto il male.
Se son poi ferite dell'anima, allora per me sarebbe un grande avvilimento non
sentirle più, guarire come si guarisce da una febbre, come queste piante
guariscono dall'inverno. Non le pare? Quanta gente! E papà che non viene?
Ella si
sciolse pian piano da Silla e si fermò; Steinegge non compariva.
Perdoni,
signorina Edith disse Silla con voce leggermente tremante. Ella mi giudica
male. Ad esser giudicato male ci sono avvezzo sin da quando è morta mia madre.
La colpa n'è in gran parte mia, del mio carattere; però è una cosa amara! Con
un po' di orgoglio e di fede in altri giudici o qua o via di qua, si resiste;
ma qualche volta anche l'orgoglio e la fede cascano in fondo al cuore; il cuore
stesso pare che si sprofondi. Mi lasci dire una parola, signorina Edith. Io non
trovo negli uomini che indifferenza e nella fortuna che derisione. Vado
tuttavia avanti a fronte alta, finora; ma, creda, è crudele di ferire uno cui
tutti voltan le spalle. La prego di darmi il Suo braccio e di ascoltarmi un
momento.
Non credo
d'averla offesa disse Edith, appoggiando ancora la mano al braccio di lui son
cose umane.
Egli prese
risolutamente con la sinistra quella mano restìa, allargò il braccio, la trasse
avanti e parlò tra la folla indifferente, a voce bassa, con maggior effusione
di cuore, con maggior franchezza di spirito che se si fosse trovato solo con
Edith in un deserto:
Cose umane?
Sì, certo, ma non la cosa che Lei crede. Non sono guarito come una pianta, a
forza di sole e d'aria, dimenticando; ho voluto guarire, con indomita volontà;
mi sono strappato dal cuore una febbre maligna che mi avviliva. Perché io non
la stimo e non l'ho stimata mai.
No? disse
Edith con vivacità involontaria.
No, mai. Mi
creda, Lei che ha l'anima tanto alta. Ho bisogno che qualcheduno come Lei mi
creda e abbia un poco d'amicizia per me. Non ne parlo mai a nessuno, sa, ma mi
succede spesso, solo come sono, senz'amicizie, senz'amore, senza genio, senza
riputazione, senza speranze, mi succede di sentirmi morire nell'altezza in cui
mi sforzo di tenere il mio spirito, studiando, lavorando, pensando a Dio. Sento
allora tante voci sinistre, sempre più forti, sempre più forti, chiamarmi giù
abbasso, in qualche fango che spenga il pensiero. Scusi, signorina Edith, Le dà
noia che io parli tanto di me?
Oh no
diss'ella piano. Non avrei creduto quello che dice.
Lo so; il
mio cuore è ben chiuso di solito. Questa sera parlo perché mi pare di essere in
sogno.
Ella sogna
disse Edith di parlare ad una persona morta da lungo tempo, cui si può confidarsi.
No, faccio
un sogno da notte di primavera, come ne potranno fare questi vecchi platani
pieni di speranze, quando si alzerà la luna e la gente andrà via. Sogno di
mettere anch'io una volta foglie e fiori, di parlar sottovoce, dopo tanto
silenzio, con la primavera blanda, di raccontarle tutte le tristezze
dell'autunno e dell'inverno, come se fossero passati de' secoli. Dunque senta.
Io non la stimavo. Premetto questo: nelle mie ore di sconforto ho sempre avuto
lo stolido istinto di qualche fatalità oscura che mi domini. Ora Suo padre non
ha potuto raccontarle tutto perché non sa tutto. Io mi confido alla primavera
blanda. Qualche tempo fa ho publicato un libro anonimo, intitolato Un sogno.
Si potrà
leggere? chiese Edith.
Lo leggerà.
Poco tempo prima ch'io partissi pel Palazzo, capitò, alla tipografia ond'era
uscito il libro, una lettera diretta all'autore di Un sogno e
sottoscritta Cecilia. Era una lettera sfavillante di spirito sarcastico,
intarsiata di motti francesi, profumata, in cui si parlava molto di fatalità e
di destino. Il tono di questa signora Cecilia non mi era pienamente simpatico,
ma pure la lettera aveva un certo fascino d'ingegno e di stranezza: e poi
sorrida pura, blandiva il mio amor proprio che ha ben di rado assaporato la
lode pubblica, e trovava una dolcezza molto più delicata nelle parole direttemi
segretamente da una lettrice sconosciuta. Vede se Le confido anche le mie
miserie. Insomma risposi. La replica di Cecilia mi capitò la vigilia della mia
partenza per il Palazzo. Era piena di frizzi e di domande curiose,
impertinenti. Decisi di rompere: le scrissi un'ultima lettera che cominciai a
Palazzo e spedii qui nei due giorni in cui venni a prender i miei libri. Lei sa
da Suo padre per qual cagione e in qual modo partii dal Palazzo. Quel giorno
stesso avevo scoperto per caso, indovini!... che Cecilia era donna Marina.
Nella notte parto, trovo lei nella sua lancia. Avemmo un colloquio violento.
Sopravvenne un temporale: dovetti ricondurla a casa. Non Le dirò come né
perché, ma fui tentato fieramente di non partire più. Mi strappai da lei
gittandole il suo finto nome, Cecilia. Fuggii pieno di sgomento, pieno
della stolta idea che mi perseguita, d'esser giuoco di una potenza nemica che
mi mostra ogni tanto la felicità vicina, me la offre, me la porta via quando
sto per afferrarla. Ci volle tutto il mio orgoglio... Lei mi crede modesto,
signorina Edith?... No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di
scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio
orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure
vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce,
sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose
ideali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo
questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei...
Oh disse
allora Edith fermandosi dove siamo?
Erano soli
sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e
la gente giravano indietro.
Edith
arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di
Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco.
Non potevo
sapere queste cose diss'ella. Non ho compreso tutto quello che ha raccontato,
ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana
soggiunse con forza non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo
vero continuò abbassando la voce che Ella non ha amicizie.
Fosse per la
tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era
così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese
il braccio.
Ah disse è
vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che
ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei
cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta...
Il braccio
di Edith tremò nel suo.
Egli
proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le
gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo:
Per
un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le
creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che
a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il
puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con
un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione,
come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti
del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere
delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del
nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?
Sarebbe
un'anima egoista disse Edith, se volesse tutte per sé sola le opere del Suo
ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di
vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la
potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non
usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a
traverso questa gran confusione torbida del mondo!
Questo non
è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio,
partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi
del merito, tra le cose dimenticate...
Ecco
Steinegge, rosso, trafelato.
Finalmente!
diss'egli. Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e
giù come un bracco.
Perdonami,
caro papà disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio
di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. Siamo esciti per
un breve tratto dalla gente.
Ella gli
parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo,
provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non
averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava.
Passeggiarono
così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i
giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando
languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si
udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose,
i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno
dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un
tepido chiaror di perla che si stendeva blando sul margine scoperto del
bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si
avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un
elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il
capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel
passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie:
Si ricordi.
Dopo il Re.
Io mi
congratulo molto, caro amico disse Steinegge.
Oh, di che?
rispose Silla sdegnosamente. È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di
Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un
certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro
antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli
altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a
Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa
sua, qui a Milano. Ella fa una corsa da Varese proprio quel giorno e m'incontra
in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e
dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di
sorpresa. Ma io dice ho della roba Sua! Io non capisco e non rispondo. Lei
soggiunge è ben l'autore di Un sogno?. Rimasi sbalordito. Allora ella mi
parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto
dentro un biglietto dove si leggeva: Mandami una copia del tuo Sogno. Mi
fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di
volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava
parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro.
Silla
raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella
relazione.
Sedettero
fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti.
Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei
garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei
cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di
quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel
1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge
parlava assai volentieri del suo soggiorno nei dominii del sublime portinaio.
Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre
del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue
sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi
ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri
si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la
elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di
cipressi, di fontane moresche, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni
linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva
segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava;
ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri
di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la
tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena,
un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un
sorgere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire,
alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi
ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune
intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto
e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza.
Steinegge
intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da
Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume
dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith.
Ella era
pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad
ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla
se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto.
Quando più
tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono
scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad
accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di
Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a
capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi
di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le
parole scambiate, le proprie confidenze, la protesta d'amicizia, così singolare
sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal
padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non
ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata
la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a
poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge,
moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a
spesseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze.
Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non
del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la
folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla
col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume
della gente.
Egli aveva
detto a Edith: Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio
ingegno!. Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva
debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel
suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato
sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro
taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze
del pubblico, le ingiustizie amare della critica, la insolenza dei fortunati,
il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né
per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma
per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano
prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul
suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora
ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli
correvano lunghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni
luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate
delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli
numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza,
le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul
suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a
poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente
nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel
sangue.
Era il
demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano
state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la
squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione
letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano
quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze
femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione
delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamorato. I suoi amori cercavano
sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di
qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi.
Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco
della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime
disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante
gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò
abbasso. Non cercò facili amori, gli era impossibile piegar l'anima alla
ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle
ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso;
ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori
ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una
fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre,
soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col
presentimento angoscioso di un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo
avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello
spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva
l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né
potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli
invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due
volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col
fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e
ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di
terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La
passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una
vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei
in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro
fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo
silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi.
Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la
freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel
petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto,
vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore
gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la
stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella
folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa
intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di
certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro,
abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la
viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro
sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della
parola, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in
questa fiamma, dal fango ignobile!
Passava,
così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali
a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume
che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco
albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve
lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili,
adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte
di ambizione e di rancori contro gli uomini, gli refrigerò il cuore, vi mise un
gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano,
presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò,
alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il
cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e
solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi
della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni
sull'Alpe di Fiori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama
d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla
vecchia amante.
Egli vegliò
a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile
quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra
sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore
nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra
gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida
nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato
durante l'inverno con questo titolo Nemesi, ne rilesse alcune pagine e
non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. Buona sera disse una
voce dalla finestra.
Era uno
studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo
salutò.
Vengo di
là, sa soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. Mi ha
congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di
essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!
Il giovane
pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando.
Sa, sono
sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla
finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce?
Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona
sera.
Se ne andò
cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta
composta per il prof. B...
Per ridurre
all'orizzonte
La pendenza
del terreno
Si
moltiplica il coseno
Per la
stessa inclinazion.
Entrato nella
sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico,
da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò
per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva
tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La
signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava
alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e
rispondevano a interlocutori invisibili; un capitano in pensione stava alla
finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la
finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse
vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo
con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente:
È amore?
Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi
finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di
ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è
tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna.
Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto.
Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla
esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in questo punto, di ragionamento
freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è
solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più
nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non
concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente
più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi
trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il
cuore nel cuore, un fuoco di pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento
ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia
intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili.
Signore
degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi
ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato.
Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà,
è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza
degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi
al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato!
Vedi, tra
queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e
mi stringo ad esse e sospiro.
Ah no!
Gettò la
penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un
libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima:
È finito.
Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un
ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per
qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli
uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona.
Vi scrisse
sotto: 29 aprile 1865.
Spero.
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