PARTE
QUARTA.
MALOMBRA.
1. Lo so, lo so, egli è qui ancora.
Silla
arrivò alle dieci e mezzo alla stazione di... Il mattino era caldo e ventoso. Le
vette dei grandi abeti che nereggiavano lì presso in un giardino, i nitidi
profili de' monti lontani spiccavano nel cielo vitreo. Molti viaggiatori
salivano sul treno, aspettati, salutati da' loro conoscenti. In tutti i vagoni
si chiacchierava, si rideva, si vociava. Quando la locomotiva ebbe trascinato
via quegli strepiti con il soffio leonino, parve a Silla, nel silenzio vôto
della strada, esser colto dalla stessa ferrea mano di cui otto mesi prima aveva
immaginato, partendo in ferrovia di notte, che chiudesse inesorabilmente gli
sportelli dei vagoni e portasse via tanti esseri umani nelle tenebre. Guardò il
treno già lontano, bramò per un istante seguirne la fuga disperata.
Fuori della
stazione c'era il giovinotto dell'altra volta con la sua cavallina.
To'
diss'egli quando vide Silla è il signore di quella sera. Andiamo al Palazzo,
non è vero, signore?
Sei qui per
me, tu?
È quello
che vorrei sapere anch'io. Era di venire ieri mattina coi bagagli degli sposi,
là del Palazzo. Vado a prenderli. Fronte indietro. Non si parte più. E poi,
ieri sera, io dormiva pacifico come un tre lire, mica ubbriaco, vede! È l'acqua
che mi mette sonno a me. Basta. Si sente un maledetto
toc-toc, la donna (ce l'ho ancora quell'impiastro) la va ad
aprire; cosa l'è, l'è quel Rico, quel figlio del giardiniere del Palazzo con un
dispaccio di esser qui stamattina con la cavalla, vuoto, alle 10. Trovarmi
vuoto a quest'ora, magari, è una di quelle asinate che io non ne faccio.
Sicché...
Basta,
basta. E il conte come sta?
Sta bene.
Come! Non è
ammalato?
L'ho visto
io l'altro giorno. Era un po' giù, un po' vecchio, un po' brutto, un po' gobbo,
che so io! un po' mezzo andato, ma stava bene. Se però non si è ammalato ieri.
Cosa
t'hanno detto ieri mattina quando sei andato al Palazzo per i bagagli?
M'han detto
niente del tutto. C'era il giardiniere al cancello, che quando mi ha visto
venire da lontano, si è piantato in mezzo alla strada e ha cominciato a far di
no col braccio a questa maniera qui e poi a fare a questa maniera qui che
andassi fuori dai piedi: ed io allora ho fatto piglia! a quest'altra maniera
qui, ho voltato la bestia e sono andato a fermarmi a Lecco. Son venuto poi a
casa tardi e sono andato a letto subito.
Intanto
s'eran posti in viaggio e la cavalla trotterellava a capo chino, fiutando la
strada, spazzando via con due noncuranti colpi di coda a destra e a sinistra le
frustate tra serie e scherzose del padrone. Questi smise di parlare. Passavan
gli alberi, le siepi fiorite. Casupole sedute nei campi si venivano alzando su
tra i gelsi, guardavano, e poi, adagio adagio, si riacquattavano. I monti
giravano, mutando aspetto, intorno alla strada serpeggiante. Le note cime
imminenti al lago nascosto si affacciavano a Silla ora da destra ora da
sinistra, gli crescevano sugli occhi, come le inquietudini febbrili nelle vene.
Il
vetturino non poteva tacere a lungo.
Ah
diss'egli l'altra sera era bello trovarsi al Palazzo!
Perché?
Perché la
signora donna Marina si è fatta sposa ieri mattina; non lo sa! Prima anzi la
era di sposarsi l'altra sera e poi, lo so io! han come cambiato. Insomma
l'altra sera ci fu una casa del diavolo.
Egli
continuò un pezzo a descrivere enfaticamente le luminarie, i fuochi, le
musiche; ma Silla non ne ascoltò parola.
Ella era
dunque già sposa davvero e gli scriveva in quel modo con quel nome! Ma la
parola Cecilia a piè del telegramma aveva pur vita, voce, passione;
gridava ti amo; vieni!. Un giorno dopo le nozze! E il conte era veramente
ammalato, o no? Se non era ammalato, perché gli sposi non erano più partiti? La
sua fantasia si perdeva; egli trasaliva quando, in mezzo a dubbi d'ogni sorta,
gli lampeggiava in mente con una tagliente nettezza di dettagli, la immagine
del Palazzo, del giardino, del lago, quali li avrebbe veduti fra due ore, fra un'ora
e tre quarti, fra un'ora e mezzo. Ne provava una contrazione nervosa, pensava
chi avrebbe veduto prima, quali parole avrebbe udite, come si sarebbe
comportato con lei. E se il conte non avesse nulla, se fosse un inganno! Ad
ogni svolta della via tutti questi pensieri lo martellavano più forte. Tratto
tratto ne balzava fuori, rinnovando il proposito di andar ciecamente, a
coscienza muta, là dove lo portassero la occulta violenza delle cose e le
passioni sue libere, oh sì, libere finalmente dopo tante stolte lotte inutili
che non gli avevano conciliato né gli uomini né Dio. Non era una strada quella
striscia bianca, nitida innanzi a lui, fumante di polvere alle sue spalle; era
una furiosa corrente che non risale, una corrente da seguire oramai nel piacere
e nel dolore sino a qualunque abisso, tanto più avidamente bramato quanto più
profondo. Attraverserebbe forse qualche ora splendida come quel magico paese
lì, quel verde poema ariostesco di folli colline che dalle montagne saltavano
al piano in disordine, portando in collo e sui fianchi ville, torri, giardini,
inghirlandate di vigneti, curve intorno a laghetti pieni di cielo. E poi...
Dica un po'
Lei, signore saltò il vetturino è vero che lo sposo ha questo gran mucchio di
denari?
Non lo so.
Ma lo conosce,
però, Lei?
No.
Vedo. Io
l'ho visto un paio di volte, ma stando al mio poco talento di me, dev'essere
un... Che pazzia, un fior di ragazza come quella lì! Segno che i denari son
tanti. E io devo esser nato pitocco! Ci promettono sempre il mondo di là, a
noi; ma io ci ho una maledetta paura che sia ancor peggiore di questo. Se in
paradiso non si hanno a trovare che preti, vecchie, bambini da mammella e
straccioni, caro il mio signore, è proprio mica il mio sito. Ih!
Egli tirò
una frustata rabbiosa alla povera bestia che toccava allora una strada selciata
fra due file di case, l'ultima borgata sulla via del Palazzo.
Faceva
caldo. La cavalla si fermò davanti a un'osteria e il suo padrone gridò che gli
portassero il solito calamaio e inchiostro.
E così disse
l'ostessa che venne a servirlo è morto, eh?
Chi è
morto?.
To', il
signore, là del Palazzo.
Chi l'ha
detto! esclamò Silla, pallido.
L'uomo
della Cecchina gobba che è passato adesso, saranno cinque minuti. L'hanno mica
incontrato?
Andiamo,
presto! disse Silla.
Andiamo
pure rispose il vetturino rendendo il bicchiere all'ostessa ma se è andato
avanti lui, per me non gli corro dietro.
Presto, ti
dico!
L'altro si
strinse nelle spalle e frustò la cavalla.
Morto!
disse tra sé Silla. E io che non ci pensavo nemmeno, a lui!
Si
rimproverò acerbamente questa dimenticanza di egoista, e gli riempì il cuore
una dolorosa tenerezza per l'intemerato amico della madre sua, per il vecchio
severo che gli aveva aperto le braccia in nome d'una memoria santa. Egli lo
aveva offeso con la sua fuga occulta dal Palazzo; lo sapeva per una lettera
ricevutane subito dopo, a Milano. Non ne provava rimorso, parendogli aver
operato allora onestamente; ma pure gli era acerbo che il conte fosse sceso
nella tomba con questo risentimento. Morto! Mezz'ora ancora e vedrebbe il
Palazzo, tetro, solenne, pieno di freddo e di silenzio, circondato dalle
austere montagne; come uno a cui la morte portò via qualche persona cara, siede
impietrato dal dolore fra gli amici muti. E le proprie avversità incomportabili,
come le sentiva ora, nello stupore di quell'annuncio, stranamente attenuate!
Una porta segreta gli si era spalancata davanti improvvisamente; non vi si
vedeva che ombra; ma ne spirava un'aria fredda, piena di calma. Godere,
soffrire, amare, quanto durano? Ove finiscono? E, sovra tutto, cosa ne resta?
Il cuore
gli batteva forte forte quando dal colle dell'ultima salita cominciò a
discendere verso il lago, che si vedeva luccicare in fondo alla valle tra le
frondi dei vecchi castani.
A mezzo il
viottolo che dalla strada provinciale mette al giardino c'era il Rico, grave,
col berretto in mano.
Dunque?
disse Silla.
Sempre lo
stesso rispose il ragazzo.
Ah, è vivo?
Signor sì,
signor sì. Adesso ci sono già i signori dottori.
Quali
dottori?
C'è il
nostro, quello nuovo, e il signor padre Tosi. È arrivato da Lecco stamattina.
Aspetti. Ci ho un biglietto per Lei dalla signora donna Marina. Lei non deve
dire a nessuno che ha trovato me, e io ho da dir niente che ho trovato Lei.
Silla prese
il biglietto che non aveva indirizzo. Non poteva venir a capo d'aprirlo, tanto
le mani tremavano. Finalmente lo aperse e vi lesse. Silenzio sul telegramma.
Intanto il Rico mise un fischio acutissimo.
Perché,
silenzio? pensò Silla, e come è possibile?
Ripose il
biglietto e chiese al ragazzo della malattia del conte. Il conte non si sentiva
bene da qualche tempo. La mattina del giorno prima era stato trovato a terra,
fra il suo letto e l'uscio, svenuto, con la fisionomia stravolta. Soccorso, si
era un po' riavuto. Però la Giovanna diceva che non aveva più ricuperato la
parola né l'intelligenza. Era una testimonianza gravissima che colpì Silla. Se
il conte non parlava né intendeva, come spiegare il telegramma di Cecilia?
Poteva esserci stato un lucido intervallo. Ma se il telegramma era menzognero,
si spiegava bene il biglietto.
Chi c'è
adesso nel Palazzo? diss'egli.
C'è il
signor sposo, la sua signora mamma, la signora Catte, un signore vecchio di
Venezia, che è poi uno dei signori compari, e un altro signore che è stato qui ancora
quando c'era Lei.
Finotti?
Signor no.
Ferrieri?
Signor no.
Vezza?
Vezza,
signor sì, Vezza, che è poi l'altro compare.
Il cancello
del giardino era aperto. Il Rico si cacciò fra gli abeti e scomparve. Silla
discese verso la scalinata.
Ed ecco i
cipressi, la voce quieta del fonte, ecco laggiù, tra il verde vigneto e il
verde lago scintillante di sole, i tetti neri del palazzo. La voce uguale
diceva nel gran silenzio del mezzogiorno: Lo so, lo so, l'ho saputo sempre,
egli è qui ancora, non v'è stupore per l'acqua indifferente che passa senza
posa. So la sua storia, so il suo destino e quello di Lei e quello dell'uomo
che giace nella stanza buia, nell'ombra della morte. Lo so, lo so. So qual
mistero hanno nel cuore colui che più non parla e la donna che palpita, sola,
con la fronte appoggiata all'ebano freddo, agli avori dello stipo antico.
Questo non può turbare la mia pace. Va, va discendi, confondi ad altre parole
il suono delle tue, ad altre passioni il rivo torbido di quelle che gitta il
tuo cuore finché passino e si dileguino insieme. Tutto questo è simile alla mia
sorte. Lo so, lo so, lo so.
Arrivato
all'ultimo ripiano della scalinata, vide la Giovanna attraversar la loggia in
punta di piedi e a capo chino, dall'ala destra alla sinistra. La vide levare il
braccio a un gesto sconsolato in risposta a qualcuno che le era venuto
incontro, e tirar via.
Nel cortile
non c'era nessuno. Nel vestibolo, neppure. Salendo le scale Silla udì camminare
in alto e, a intervalli, una voce maschia che parlava forte. Un domestico venne
su, correndo, dietro a lui, lo inquadrò nel passargli a fianco, lo salutò
meravigliato, lo accompagnò sino alla porta del salotto da cui usciva la voce
forte. Silla si dispose di veder Marina; entrò.
Marina non
v'era. V'erano la contessa Fosca, suo figlio, il comm. Vezza, un altro signore
attempato vestito di nero e il padre Tosi dei
Fatebene-fratelli, che Silla conosceva di vista, un
bell'uomo maestoso, sui cinquanta, dalla gran fronte piena d'anima, dal profilo
falcato, dagli occhi pregni di volontà veemente e di umorismo bizzarro. Egli
diede appena un'occhiata allo sconosciuto che entrava e continuò a parlare col
comm. Vezza. Il signore attempato si alzò rispettosamente, la contessa Fosca e
Nepo si guardavano attoniti, il Vezza inarcò un momento le sopracciglia e fece
un freddo cenno di saluto.
Per fortuna
entrò la Giovanna. Ah, caro Signore! diss'ella il signor Silla! Ella gli andò
incontro con gli occhi lagrimosi e le mani giunte sul petto.
Ah, come ha
fatto bene a venire! Dev'essere stata la Provvidenza che gliel'ha posto in
cuore. Venga a vederlo! Può venire, signor padre Tosi?...
Per carità,
cosa vi pensate, Giovanna? esclamò la contessa. Bisogna lasciarlo quieto.
Lasciarlo
quieto, quieto per carità ripeté Nepo.
Silla si
voltò al frate, che guardò un momento la Giovanna con singolar espressione di
dolcezza, e disse quindi a Silla bruscamente:
Lei conosce
l'ammalato?
Sì,
signore.
Se le fa
piacere di non conoscerlo più e di non esserne conosciuto, vada pure. Per
l'ammalato fa lo stesso, finora.
La Giovanna
fece un gesto supplichevole.
Cara
vecchia! disse il frate. Conducilo pure, ma non bisogna mica mettere tanto in
moto la Provvidenza. Cosa fai?
Quest'apostrofe
era diretta al cameriere che gli disponeva davanti, sulla mensa, un gruppo
scintillante di vasellami d'argento e di cristallo.
Per qual
frate mi pigli? Portami un pane e un bicchier di vino.
Mi pare
un'imprudenza insistette Nepo vedendo la Giovanna uscir con Silla.
Se fosse
un'imprudenza non l'avrei permessa rispose il frate.
Ci farei un
bacio diss'egli al Vezza ci farei un bacio a quella vecchiettina, povero
topolino bello, che trotticchia sempre di qua e di là, con quella cuffiettina a
punta, con quella faccetta piena di magon. È una bellezza.
La contessa
lo guardava con tanto d'occhi.
Che tomo
ch'el xe! diss'ella al signore attempato, mentre il frate si sbrigava rapidamente
della parca refezione. Bisognerebbe anche ridere se si potesse. Non La parte
mica subito, padre?
Non lo so
rispose asciutto il frate.
Eh, perché
si diceva che La volesse partir subito.
Si diceva.
Ma non La
parte più?
Non lo so.
De dia! mormorò la contessa
indispettita.
Signora
disse il frate con forza e solennità la malattia, l'ho già detto, è
semplicissima. Una emiplegia destra. L'ammalato può riaversi o morire di questo
primo assalto, come Dio vorrà. La causa della malattia è oscura e io vorrei
conoscerla, onde, se l'ammalato guarisce, impedire una ricaduta.
Ma, oh Dio,
la causa, benedetto...
Il frate le
piantò in viso due occhi sfolgoranti.
Sì, non
serve, caro, che La mi tiri quegli occhi saltò su la contessa inasprita. Ella è
una cima di professore ma ne ho conosciute anch'io delle cime e ho sempre udito
dir loro, che, quanto a cause di malattie, è un brutto discorrere.
E poi lo
zio non può parlare disse Nepo.
Signora
rispose il frate senza badare a costui il padre Tosi non è una cima e ha fatto
due grandi corbellerie; ha voluto esser medico, ha voluto esser frate; ma
L'avverto che se si fosse fatto commissario di polizia, sarebbe diventato
grande. Ho l'onore.
Egli si
toccò la calotta, si alzò e uscì.
Bel
discorso! disse la contessa. Mi pare un bel matto! E quell'altro? Come è
capitato qua quell'altro? Non capisco. Vedete diss'ella, volta al signore
attempato colui è quell'amigo. Vi ricordate, che v'ho raccontato, quel
tale che si temeva... sì, mi capite. Vi pare un bel momento di venire qua? Ed
era convenienza, domando io, che quella pettegola di quella siora Zanze
lo facesse entrare in camera così sui due piedi? Per carità, per amor del
cielo, Zorzi, non andate via, non piantatemi qua. Non la può andar lunga, si
capisce.
Come posso
fare, dama? rispose il vecchio cavaliere giungendo le mani. A Venezia mi
aspettano fra due giorni.
Zitto!
disse Nepo accostando l'orecchio alla porta ond'era uscito il frate.
Il signor
Zorzi tacque. La contessa Fosca guardava suo figlio, ansiosa, trattenendo il
fiato.
Niente
disse Nepo, scostandosi dall'uscio.
Cosa c'era?
chiese la contessa.
Mi pareva
udir parlare, ma non è stato vero. Senta, avvocato; come intende Lei quel
discorso di quel cialtrone di frate sul commissario di polizia? Che intende
dire? Che siamo assassini? Che rubiamo? È una cosa intollerabile.
Oh no
rispose il signor Zorzi si capisce che è uno strambo, che tante volte gli vien
da dire una spampanata, e lui, fuori!
Commissario
di polizia! Bel discorso ripeteva Nepo camminando a gran passi su e giù per la
stanza e facendosi vento.
Un uscio si
aperse pian piano, ne spuntò il naso di Catte.
La contessa
Fosca e Nepo corsero a lei. Si mosse anche l'avvocato, ma sostò riguardoso
qualche passo indietro dagli altri due che scambiarono con Catte poche parole
sommesse. Catte si ritirò, l'uscio fu chiuso; madre e figlio si voltarono
accigliati all'avvocato che chiese premurosamente:
Dunque?
Niente, fio
rispose la contessa sconsolata. Non mi vuole.
Neppure
Lei, contessa?
Ma no. Oh
Dio, hanno da toccare a me queste storie. Ne capite qualche cosa Voi?
In
coscienza, contessa, non potrei dir di sì.
Ah, qua bisogna
finirla, qua bisogna finirla. Nepo mio, bisogna che tu La veda, per amore o per
forza; bisogna che tu Le parli, che La si spieghi, che si sappia se La è
malata, cosa La pensa, cosa La vuole; sapere, insomma, in nome di Dio, sapere!
Nepo scosse
l'occhialino dal naso. Tu non capisci niente diss'egli.
Zitto!
soggiunse vedendo ch'ella voleva parlare, e continuò col suo fare cattedratico:
Non facciamo sciocchezze. Non c'è da insistere. Non si farebbe che irritare. Io
ho abbastanza cuore, cara mamma, per comprendere che bisogna rispettare in
questi momenti il dolore di una nipote affettuosa. Vorrà che si ritardi il
matrimonio! Sia. Non son mica, avvocato, un ragazzo impaziente. Capisci bene
cara mamma, un giovinotto...!
L'avvocato
ebbe negli occhi, guardando la contessa, un lampo d'ironia e di pietà.
Nepo gli si
avvicinò, lo pigliò per un bottone del soprabito, gli parlò mettendogli quasi
il naso sul viso:
Ella che a
tanta probità congiunge tanta oculatezza e comprende così bene fino a qual
punto possano andare insieme i legittimi interessi e le convenienze, Ella non
vorrà certo censurarmi se io dico che un altro grave affare si impone in questo
momento. Io sono disinteressato, premetto; ma... Bravo! esclamò, ritirando la
mano e il naso. Vedo che mi capisce. L'obbligazione, capperi! Io prego Dio che
conservi lo zio al nostro amore per lunghi anni, ma se succede una disgrazia!
L'obbligazione a mio favore doveva essere sottoscritta ieri mattina. Sarà più
in grado di sottoscriverla? Ci vuole una sorveglianza d'ogni ora. Non bisogna
lasciar passare un lucido intervallo!
Sì, ma, ohe
disse l'avvocato serio serio patto avanti, che sia lucido questo intervallo;
patto avanti, che sia molto lucido; e che ci sia il dottore; sì, perché tutto
va bene, ma che non andiamo in un imbroglio.
Si udì la
voce di padre Tosi che parlava in loggia.
Vado a
vedere dello zio disse Nepo; e uscì.
Dopo tutto
disse la contessa mio fio aveva ragione con quell'affare del commissario
di polizia. È stato un bel tiro, sapete.
Altro se è
stato un bel tiro! Parlerò io a quel signor frate, se la contessa permette.
Sì, sì,
fate, parlate, tutto ciò che volete. Oh Dio, Zorzi, che monte di pasticci! Qua
non si sa in che mondo si sia. Qua non si capisce niente. Qua ci si marita e
non ci si marita. Qua non c'è ora di mangiare, qua non c'è ora di dormire. E
tutto, in nome di Dio...! Oh che vita, oh che vita! Entrò il cameriere a
sparecchiare. Non si sbrigava mai; pareva che giocasse con le posate e il
vasellame.
Andate là,
andate là anche voi, Zorzi disse la contessa. Io vado a riposare un pochetto.
Non ho chiuso occhio stanotte, non ne posso più. E tu chiamami Catte,
benedetto. Zorzi diss'ella poi che il cameriere se ne fu andato in cerca di
Catte guardate di cavarci qualche cosa a quel signor Silla.
Silla non
era entrato subito dal conte. S'era fatto prima raccontar dalla Giovanna i casi
di quei due giorni. Povera Giovanna! Parlava con una fioca voce accorata che
pareva venir da lontano, da lontano, da un mondo di dolore.
Il
matrimonio era stato fissato per la sera del 29. La signora donna Marina,
all'ultimo momento, lo aveva fatto differire al mattino del 30. Però la sera
del 29 vi erano stati ugualmente i fuochi sul lago e la musica. Il conte vi si
era divertito e stava secondo il suo solito. Giorni addietro aveva sofferto di
un leggero malessere, ma non ne parlava più. Di aspetto era giù, questo sì, ma
da un pezzo, oh, da un gran pezzo! La Giovanna ebbe una reticenza espressiva;
pare che facesse risalire, nel suo pensiero, questo crollo del conte all'epoca in
cui Silla aveva lasciato il Palazzo. Insomma quella sera non c'erano novità. Il
matrimonio si doveva fare alle sette del mattino. Alle cinque Giovanna aveva
dovuto entrare dal conte per certe chiavi e lo aveva trovato a terra semivivo,
con tutti i segni dell'apoplessia. A questo punto del suo racconto, fosse
commozione o altro, s'interruppe. Ripigliò dicendo che s'eran chiamati subito
il medico e il parroco; che il primo, un brav'uomo succeduto da pochi mesi al
vecchio dottore, giudicando il caso gravissimo, aveva chiesto subito un
consulto, e consigliato di provvedere alle cose di religione. Purtroppo non
c'era né parola né intelligenza; il parroco non aveva potuto far altro che
amministrare l'olio santo. Fatalmente il padre Tosi non era stato trovato nella
sua residenza, e non era venuto che un paio d'ore prima di Silla. Durante la
giornata il conte non aveva migliorato né peggiorato. Alla sera il medico era
stato contento di trovare un po' di febbre che si era forse anche accresciuta
nella notte. La fisionomia pareva alquanto ricomposta, l'occhio era meno
vitreo, e anche le labbra, ogni tanto si provavano di articolare qualche
parola. La Giovanna sperava che se potesse riconoscere Silla, ne avrebbe un
gran conforto. Non può averne altri diss'ella.
E il matrimonio?
chiese Silla.
Ah signore!
rispose la Giovanna. Non so niente. La signora donna Marina non ha mai posto
piede fuori della sua camera dal 29 di sera in poi. Pare che sia ammalata
perché ieri mattina s'è fatta portare una quantità di ghiaccio. Non vuol vedere
né il suo fidanzato né la signora contessa. Da lei non ci va che la sua
cameriera e il ragazzo; sa, il barcaiuolo. Oh Signore, per me già desidero solo
che guarisca il signor padrone e poi per tutto il resto...! Venga, venga. Chi
sa come sarebbe contento se lo potesse riconoscere!
Appena si
vedeva, entrando nell'afa della camera, la testa dell'infermo come una macchia
oscura sul cuscino biancastro, e seduto, presso alla finestra socchiusa, il
medico curante. La Giovanna si accostò al letto con Silla, si chinò su quella
povera testa e sussurrò qualche parola. Il conte guardò Silla con due occhi
torbidi, poi si volse lentamente a Giovanna e mosse le labbra. Ella vi accostò
l'orecchio, raccolse a stento questa parola:
Beive.
Per lunghi
anni non gli era venuta alla bocca parola alcuna nel dialetto natìo, se non in
qualche momento di sdegno; tornavano adesso nelle ombre sinistre della morte.
La malattia fulminea lo aveva atterrato, spogliato in un secondo della sua
forza imperiosa, della sua intelligenza rapida, della sua memoria tenace di
tante cose, di tante persone: lo aveva risospinto dalla forte vecchiaia alla
infanzia radendogli dalla mente tutto, fuor che le prime voci apprese ne' primi
anni.
La Giovanna
gli diede da bere, poi tentò di richiamare la sua attenzione a Silla.
Basta disse
la voce del medico nelle tenebre.
La donna
uscì con Silla, accorata. Incontrarono il frate nel corridoio.
E così
diss'egli. Niente, eh? lo sapevo bene.
E cosa ne
dice? gemette la Giovanna.
È presto,
cara la mia tosa. Bisognerebbe sapere se avremo o no un secondo attacco. Certo
occorre che il giuoco non si rinnovi, altrimenti me lo ammazzano di colpo. Ci
hai detto nulla a questo giovinotto?
Signor no.
Bene,
senti, Giovanninetta, vorrei che mi accompagnassi a veder la casa. Dopo mi
farai preparare una sedia in loggia perché possa fumare un poco. Se non fumo,
tra un quarto d'ora scoppio.
Mentre
Giovanna e il frate giravano per la casa, Silla, appoggiato alla balaustrata
della loggia, guardava il lago verde dormente al sole. Eran proprio passati
tanti mesi? Le montagne, la quiete profonda lo riprendevano come cosa loro; e
gli pareva non essere mai andato via, aver sognato Milano, un lungo inverno,
penosi pensieri. Ma dalle pietre, dalle vecchie pietre austere prorompeva subito
il vero presente, lo sgomento che una malattia mortale diffonde intorno
all'uomo colpito, sopra tutto la immagine di lei, che, tenendosi nell'ombra,
empiva la casa di sé. Perché si nascondeva? gli pareva ad ogni momento udirne
il passo, il fruscìo delle vesti, veder avanzarsi da quella parte quella sua
bellezza altera e fantastica. E si voltava a guardare la loggia vuota, stava in
ascolto.
Eccola,
forse! No, era l'amico dei Salvador, l'avvocato Giorgio Mirovich. Passò camminando
in punta di piedi, salutò Silla con un cerimonioso servo e s'avviò verso la
camera del conte. Ne ritornò subito e chiese a Silla, parlando mezzo veneto,
mezzo italiano, se avesse visto quel signor frate. Avutane risposta che era in
giro per la casa con la Giovanna, soggiunse: ha un certo linguaggio quel signor
frate! e si fermò lì a conversare. Perla d'onest'uomo, ma cortigianescamente
devoto alla contessa Fosca, antica fiamma, aveva modi quando burberi, quando
cerimoniosi, un parlar franco, e insieme cauto. Mirava a scoprire come Silla
avesse risaputa la malattia del conte. Silla gli disse che se ne parlava da
tutti nei paesi vicini e ch'erano persino corse voci di maggiore sventura. Non
lasciò intendere dove precisamente avesse attinta la notizia egli stesso né di
dove fosse partito quella mattina, benché non dubitasse che per mezzo del
vetturale lo si avrebbe facilmente conosciuto. L'avvocato, a cui ripugnavano le
investigazioni oblique, uscì presto di argomento. Confidò a Silla la profonda
avversione per quei luoghi inospiti, per le montagne dritte come muri, per
quella casa della malinconia. Anch'egli, come la sua vecchia amica, non ne
poteva più; non vedeva l'ora di sentirsi gridare sià premi e sià
stali sotto le finestre.
Finalmente
il frate ritornò e Silla discese in giardino.
V'era il
commendator Vezza che si divertiva a gettare del pane ai cavedini. Silla lo
evitò, attraversò il cortile per uscire dal cancello. Passò accanto alla
porticina della darsena, guardò le barche, guardò su per la scaletta segreta
che serve all'ala destra del Palazzo. Vuoto e silenzio. Oltrepassò il cancello
e, fatti pochi passi sulla strada di N... si voltò.
Lassù la
nota finestra d'angolo era chiusa. Il sole, declinando, batteva sulle persiane,
sulla grande muraglia grigia, scintillava sulla magnolia lucida del giardinetto
pensile. Di vita umana non vi era indizio. Silla fece un lungo passeggio
vagando per i sentieri più solitari e tornò al Palazzo dalla stessa parte. La
finestra era ancora chiusa benché il sole non battesse ormai più che sui tetti.
Silla rientrò in casa, con il presentimento che Marina non avrebbe dato segno
di vita durante il giorno, ma che la vedrebbe nella notte.
|