Come hanno
fatto bene! Come hanno fatto bene! ripeteva Marta correndo su per la scala
della canonica a portar le valigette di Edith e di suo padre nelle stanze
preparate per essi, a spalancar porte e finestre. Gridava dall'alto a don
Innocenzo:
È contento,
mo? Tornava giù in furia, tutta scalmanata, veniva a protestare che la canonica
non era il Palazzo, che non avrebbero trovato questo, che non avrebbero trovato
quello. Ardeva dalla voglia di dare un bacio a Edith, ma non osò. Steinegge,
impolverato come una vecchia bottiglia di Bordeaux, protestava dal canto suo
contro tanti complimenti, esclamando, giungendo le mani, gesticolando: e don
Innocenzo, cui lucevano gli occhi dal piacere, gli dava ragione contro Marta,
diceva di credere che sicuramente i suoi ospiti si sarebbero trovati bene in
casa sua: altrimenti non li avrebbe pregati di venire. Allora Marta si voltava
contro il padrone. Ma ha da dire queste cose Lei? Ma tocca a Lei dire queste
cose? Bene bene rispondeva il povero prete vedendola inalberarsi via, via,
chetatevi. - Oh bella soggiungeva poi, volto agli Steinegge ho visto che ha
lavorato tanto, che ha preparata tanta roba!
Qui
Steinegge esclamava daccapo, e Marta, disperata di aver un padrone simile,
scappava in cucina per non perdergli il rispetto.
Mi dica Lei,
signorina chiese don Innocenzo a Edith ho detto male? Lo sanno anche Loro, non
è vero, che sono un povero parroco?
Noi gran
signori amiamo qualche volta discendere rispose Edith, scherzando.
La piccola
casa rideva tutta. Non c'era granello di polvere sugli arredi né sulle
invetriate: le tendine di percallo bianco, appena lavate e stirate,
diffondevano nelle stanzette una luce color di perla, mandavano odore di
nettezza. Nel salottino da pranzo a pian terreno un passero solitario
gorgheggiava festosamente fra le due porte che mettevano nell'orto; in mezzo
alla tavola un vasetto di porcellana bianca portava dei fiori. Da quelle due
porte, da ogni finestra della casa entrava il verde tenero della campagna,
entrava un senso profondo di riposo per chi veniva dalla città e aveva ancora
negli occhi il frastuono del treno, nelle ossa la stanchezza di una lunga corsa
in carrozza. V'era tranquillità e pace perfino nell'alto canapè di vecchio
stampo, nelle antiche incisioni giallognole del salotto, negli uccelli impagliati
che nidificavano dentro due campane di vetro, sopra il caminetto dello studio.
Anche l'orologio a pendolo fra le due campane, con la sua raucedine acuta e
sfiatata di vecchione sordo, riposava lo spirito. E v'era, sotto a questo
sorridere pacato della casetta, una castità verginale, senza sospetto, posata
innocentemente in seno alla natura amorosa, aperta alla contemplazione della
vita. La si leggeva perfino nella forma incomoda di certe suppellettili: perché
se tutto là dentro diceva pace e quiete, né gli alti canapè stretti, né le
seggiole impagliate a spalliera verticale permettevano la voluttà del riposo
spensierato e delle immagini vagabonde. Dallo studio, zeppo di libri, usciva
uno spirito di austerità pensosa; cosicché l'aspetto della casa rendeva
immagine, in qualche modo, dell'aspetto di don Innocenzo, ilare, semplice,
pieno di pensiero.
Questi era
beato di aver seco gli Steinegge. Gli ravvivavano un po' la solitudine di cui
soffriva, in fondo, nella sua ingenua ammirazione della società moderna, nella
sua passione per conversare di politica, di letteratura, d'ogni novità curiosa.
Di Steinegge s'era innamorato di slancio; per Edith sentiva, specialmente dopo
l'ultima sua lettera, un alto rispetto, misto però di soggezione. La fiducia di
uno spirito così nobile lo sgomentava, quasi. Temeva di non sapervi
corrispondere, di non poter afferrare certe finezze femminili, di non intender
bene certe squisitezze di sentimento in cui bisognava entrare per consigliar
quell'anima, per esercitare l'ufficio religioso che gli veniva chiesto. Sentiva
in pari tempo un vago sospetto che vi fosse nell'ascetismo di Edith qualche
cosa di eccessivo e di tenace da doversi combattere. Era insomma il suo compito
attraente ma grave, di quelli che lo trasformavano, che lo facevano pensar con
calma, parlar con misura, operar con cautela.
Prima
ancora che Edith e suo padre salissero alle loro stanze, il parroco volle
condurli, malgrado le osservazioni di Marta, a veder i rosai, le fragole e i
piselli dell'orto. Il suo orticello gli pareva meraviglioso e se ne teneva:
parlava del grossolano coltivatore come se il verde uscito dai pochi granellini
sparsi sulle aiuole, e i fiori usciti dal verde, e i frutti dai fiori fossero
tanti miracoli suoi. E ora Steinegge, un altro botanico profondo, spargeva a
destra e a sinistra, sulle fragole e sui piselli, i suoi grossi complimenti,
difendendosi con altri complimenti da Marta che gli veniva dietro per
spazzolargli il soprabito. Edith s'indugiava a guardar distratta il verde un
po' freddo dei prati sotto il cielo nuvoloso, a odorar i bottoni di rosa. Puro
odore pio! Faceva pensare alla preghiera d'un bambino. Ma don Innocenzo beveva
voluttuosamente le profane lodi di Steinegge con dei: Non è vero? Eh! dica la
verità! Dopo i piselli fece vedere a' suoi ospiti le novità della casa. Prima Veuillot,
un passero solitario, chiacchierone impertinente, al quale era rimasto quel
nomignolo dopo che un allegro prete, seccato dal suo cicaleccio continuo, si
era voltato a gridargli: Taci, Veuillot. E io mi godo di tenerlo in gabbia
soggiunse ferocemente don Innocenzo, raccontato l'aneddoto. Aveva pure a
mostrare de' nuovi tegami preistorici trovati scavando le fondamenta della
cartiera, del gran dado bianco che si vedeva sorgere laggiù oltre i pioppi del
fiumicello, in mezzo a una chiazza nerastra, a una piaga schifosa del verde.
Don Innocenzo era ancora entusiasta della cartiera, forse anche un po' per la
scoperta dei suoi tegami. Passando per lo studio, Steinegge chinò un momento il
capo a un libro aperto sullo scrittoio davanti al seggiolone di Don Innocenzo.
Questo saltò lesto come un ragazzo a ghermire il libro e se lo strinse al
petto, ridendo, rosso fino al vertice del cranio. Steinegge, rosso anche lui,
fece le sue scuse.
A Lei! A
Lei! Vada là! Lo prenda, lo prenda! rispose don Innocenzo porgendogli a due
mani il libro che l'altro non voleva pigliare.
Ah!
diss'egli, appena v'ebbe data un'occhiata Mein Gott, Mein Gott! Non avrei
mai creduto questo.
Era una
grammatica tedesca.
Taccia,
vada là, vada là che non capisco niente! esclamò don Innocenzo ridendo sempre;
e gli ritolse il libro, lo gittò sullo scrittoio, vi posò su il suo berretto a
croce e scappò a raggiungere Edith.
Adesso non
c'era proprio più nulla da vedere e la casetta tornò silenziosa, perché gli
Steinegge si ritirarono nelle loro stanze al primo piano, mentre Marta stendeva
la tovaglia.
Placido
silenzio, interrotto appena dal tintinnìo delle posate di Marta, da qualche
passo pesante sulla stradicciuola di là dall'orto. Edith era felice di sapersi
così lontana da Milano, in mezzo a tanta quiete e a tanto verde, come ella
stessa aveva scritto; e, nel disfare la valigetta, chiamò suo padre, gli
domandò s'era contento. Egli venne dalla sua camera con la cravatta in mano e
gli occhietti scintillanti. Altro che contento! Edith gli fece vedere due bei
bottoni di rosa in un bicchiere posato sul cassettone e un volume di Lessing: Nathan
der Weise. Li aveva anche suo padre i fiori sul cassettone e aveva la
storia della guerra dei trent'anni di Schiller in tedesco. Che gentilezza di
quel don Innocenzo e che accoglienza cordiale! A Edith pareva un po'
invecchiato; a Steinegge no. E Marta, che cordialità, povera donna! Si
scambiavano le loro impressioni a bassa voce, mentre Edith disponeva nel cassettone
la sua roba. Aveva portato alcuni libri tedeschi e italiani, ma non Un sogno.
A suo padre che si dolse un poco di questa omissione, ella non rispose parola;
gli passò invece una mano sotto il braccio, lo trasse alla finestra che
guardava l'orto, la stradicciuola, i prati, i pioppi lontani dal fiume, le
colline al di là e tanta distesa di nuvole bianche.
Mi par
d'essere una fanciulla disse Edith e trovarmi la sera nel mio letto dopo
essermi smarrita il giorno fuori di casa, e aver pianto, aver provate tante
angoscie. Non ti senti, papà, meno straniero qui che a Milano?
Qualcuno
parlava nell'orto. V'era don Innocenzo con una vecchia contadina che si
lagnava, piagnucolando, della sua nuora. Il parroco cercava di chetarla; allora
la vecchia cominciava, chinando il capo, un'altra storia più segreta ed
egualmente triste che don Innocenzo interrompeva con dei bene bene
soddisfatti, come se a questo nuovo malanno gli fosse più facile trovar il
rimedio. Le cacciò di fretta in mano alcune monete e la mandò via bruscamente.
Che strega
quella donna lì! disse Marta di dentro. Spero bene che non le avrà dato niente.
Cosa vi
viene in testa? rispose don Innocenzo.
Anche le
rose, anche i libri tedeschi disse Steinegge dalla finestra. Questa è troppa
attenzione, signor curato. Noi non sappiamo...!
Oh, son
libracci vecchi di casa mia. Vengano giù, vengano giù che si desina subito.
Il desinare
cominciò allegramente. Marta si moltiplicava. Aveva il suo posto a tavola, ma
andava e veniva continuamente dalla cucina, malgrado le preghiere degli ospiti
e le osservazioni del padrone. Edith le dichiarò che per quel primo giorno
lasciava fare, ma che all'indomani si sarebbe presa, o per amore o per forza,
la sua parte dell'azienda domestica. Marta rispose con una fila di mai più
acuti. Steinegge si offerse come aiutante cuoco, promise i Klosse, disse
di averli insegnati a Paolo del Palazzo. Il povero don Innocenzo non sapeva che
riscaldare il caffè e si propose, modestamente, per questo.
A
proposito! esclamò Steinegge, guardandolo parlare senz'ascoltarlo, impaziente
che finisse, Non abbiamo ancora domandato del signor conte!
Sono stato
al Palazzo due ore fa rispose don Innocenzo. Andava un po' meglio di ieri sera.
Come, un
po' meglio?
Steinegge
si piegò in avanti, ansioso.
Malato?
esclamò Edith, sorpresa.
Non sanno
niente? replicò il curato.
Ma no!
Credevo che
Marta, non so, che qualcheduno lo avesse detto Loro. Euh, cose tristissime,
dolorosissime!
Ah,
Signore, non sanno niente! disse Marta in piedi, con le mani appoggiate alla
tavola. Ma sicuro! Come han da fare Loro a saperlo? Non son che due giorni.
Ma in nome
di Dio, cosa è questo? disse Steinegge.
Ecco
rispose don Innocenzo cos'è oggi? Mercoledì. Bene, lunedì mattina, anzi nella notte
dalla domenica al lunedì, il conte ebbe un attacco d'apoplessia.
Oh!
Don
Innocenzo, corretto qualche volta da Marta, raccontò quello che sapeva della
malattia. Steinegge non poteva darsi pace di questa sciagura; Edith pure n'era
dolentissima.
E gli sposi?
diss'ella.
Oh, non
sono ancora sposi rispose il curato.
E lo
diventeranno giusto il giorno del Giudizio soggiunse Marta.
Il suo
padrone la sgridò, disse che il matrimonio era solamente differito e che
c'erano bene state tutte le ragioni per differirlo. Marta se n'andò in cucina
brontolando.
Ci sono poi
degli altri pasticci disse don Innocenzo a mezza voce.
Steinegge
non pensava più a mangiare; posò le braccia sul tavolo aspettando.
Dopo, dopo
sussurrò il prete con un gesto e un'occhiata verso la cucina.
Oh, non mi
attendevo questo! esclamò Steinegge.
Edith
domandò di donna Marina. Il parroco disse che stava bene, che l'aveva veduta la
sera prima.
Intanto
Marta aveva portato l'allesso e non parlava più, indispettita pel rabbuffo del
padrone, dolente che quel vitello così tenero e saporito e i capperi in aceto
preparati da lei avessero, per il malaugurato discorso, a passar senza lodi;
prevedendo che la stessa sorte sarebbe toccata all'arrosto.
Dopo pranzo
andremo a Palazzo, non è vero, papà? disse Edith.
Certo, oh!
Il solo
Veuillot non aveva perduto la sua loquacità allegra: a furia di chiacchiere si
fece ascoltare dai commensali, fece parlare di sé, dell'ingiusto nome di guerra
che gli avevano dato. Il sole cadente rideva sul soffitto. Don Innocenzo cominciò
a parlare de' suoi cocci preistorici, dei dotti che dovean venire a vederli.
Edith
faceva delle osservazioni critiche di cui suo padre si scandolezzava. Egli
prestava intera fede ai cocci e ai dotti, parlava delle palafitte svizzere che
conosceva. Ad un tratto s'interruppe ricordandosi che doveva andare al Palazzo.
Aspetti gli
disse don Innocenzo aspetti il caffè. Mi pare che si potrebbe uscire a
prenderlo nell'orto, non è vero?
Uscirono
nell'orto all'aria dolce, odorata di primavera. Il sole avea rotto le nuvole e
toccava quasi le colline di ponente: la casetta ne ardeva, i vetri ne
sfolgoravano. Edith volle portar lei il caffè. Steinegge e don Innocenzo
sedettero ad aspettarlo sul muricciuolo dell'orto in faccia al salotto.
Marta è una
buona donna disse don Innocenzo ma è una gran chiacchierona. Ci sono de'
pasticci al Palazzo. Intanto è tornato quel tale Silla.
Steinegge
diè un balzo.
Oh scusi,
non è possibile! Se l'ho visto io a Milano l'altro giorno, in casa mia, e non
mi ha detto niente!
Tant'è; adesso
è qui.
Lei lo ha
veduto?
Certo.
Oh, ma
questo!... Scusi molto, io credo che i Suoi occhi non L'hanno servita bene! Oh,
è impossibile questa cosa! Lui qui, al Palazzo?
Si alzò e
si pose a camminar in fretta su e giù lungo il muricciuolo, borbottando in
tedesco.
Si fermò
su' due piedi. Gli era balenata un'idea.
Forse è
stato richiamato? diss'egli. Forse per telegrafo?
Può essere,
ma non credo, perché il conte Le ho detto in che stato è, la marchesina non lo poteva
soffrire quando fu qui l'altra volta, e i Salvador non lo conoscono.
E che cosa
fa qui?
Ma! Sa bene
cosa si diceva di lui? Pare che venendo in questo momento abbia messo una spina
negli occhi della marchesina e dei Salvador.
Per
l'eredità? Oh questa è bugia, questa è calunnia! disse Steinegge concitato. Mi
scusi, Ella non sa, signor parroco, Ella non creda. Il signor Silla non è
niente affatto quello che si diceva e giuro che non è venuto qua con questa
cosa vile nel cuore.
Don
Innocenzo gli accennò di tacere. Marta sulla porta della cucina, contendeva a
Edith il vassoio del caffè.
Ma no
diceva ma no, son mica cose da far Lei queste: Bene, faccia un po' come vuole,
là!
Edith
veniva a passi corti, sorridente, un po' compresa della sua missione, tenendo
gli occhi sulle chicchere a fiorami rossi e verdi, sulla zuccheriera pure a
fiorami, sul bricco che traballava. Il fuoco del tramonto le batteva in viso,
batteva sul vassoio, sulle mani sottili.
Non sai, le
disse suo padre in tedesco, impetuosamente che il signor Silla è qui?
Ella si
fermò e tacque un momento, senza fare altro segno di sorpresa.
Poi chiese
quietamente:
Dove, qui?
Al Palazzo.
Venne a
posar il vassoio sul muricciuolo e domandò a don Innocenzo se il caffè gli
piaceva dolce o amaro.
Suo padre si
stupiva di una tale indifferenza. Forse ella sapeva qualche cosa? Forse Silla
le aveva detto una parola l'altro giorno?
No, Silla
non le aveva detto niente, ed ella non sapeva niente. Osservò che il signor
Silla poteva essere stato richiamato per telegrafo.
Signora no,
per quel signore là non l'hanno mica fatto battere il telegrafo disse dietro a
lei Marta ch'era venuta a portare un cucchiaino. Don Innocenzo, intento al
caffè e alla discussione, non s'era avvisto di lei.
Che ne
sapete voi? diss'egli.
Perché non
ho a saper qualche cosettina anch'io, povera donna? rispose la petulante Marta.
Quel signore lì è proprio caduto dalle nuvole. Nessuno se l'aspettava, cari
Loro. Non c'è che la Giovanna che sia contenta, perché sa, neh, che il signor
conte gli voleva così bene. Gli altri non lo possono vedere, specialmente la
signora donna Marina. Il mio signor padrone a me, magari, non dice niente; ma
lui lo sa bene che ieri sera la signora donna Marina l'ha fatto andar giù in
giardino, questo signor Silla, per dargli una ramanzina!
Come sapete
voi queste cose? disse don Innocenzo stupefatto.
Ne so così
delle cose io. È mica vero forse?
Che lo ha
fatto scendere in giardino sì, è vero; ma cosa gli abbia poi detto non la so io
e non lo sapete neanche voi.
Che abbiamo
udito, no, magari; nessuno ha udito; ma chi può saperlo dice che gli avrà detto
d'andar via perché è lei che lo ha fatto andar via l'altra volta.
Ma non è
partito? disse Edith.
No, sinora,
no, non è partito; almeno credo. Lo ha visto Lei oggi, signor curato?
Sì, l'ho
incontrato sulla scala.
Vogliamo
andare, Edith? chiese Steinegge.
Oh no,
papà, ho pensato che il momento non è opportuno per la mia visita. Vacci tu. Io
resto con don Innocenzo.
Stasera
abbiamo il mese di maggio le disse questi.
Bene, verrò
in chiesa.
A Steinegge
dispiaceva andar solo, ma non insistette e partì. Marta rientrò in casa col suo
vassoio, lasciandoli soli, seduti sul muricciuolo, il parroco e Edith.
È buono sa
diss'ella con passione. È buono; oh tanto più di me! E le vuole un bene a Lei!
Desiderava immensamente di venir qua. È una provvidenza questa simpatia che ha
per lei, malgrado la Sua veste. Anche ieri a sera si parlava di religione. Io
dicevo che vi sono delle anime naturalmente mediatrici fra il comune degli
uomini e Dio, qualunque sia la forma della loro vita terrena, e che Lei, per
esempio, signor curato, anche se non fosse sacerdote...
Oh, signora
Edith!
Sì, sì, Lei
è una di queste anime. Lo credo e mi fa bene il crederlo, mi fa bene il dirlo.
Se sapesse quanto abbiamo bisogno di Lei! Bene, mio padre diceva anche lui di
poterlo credere.
Parlava con
emozione tanto forte quanto era stata subitanea.
Si consoli
disse don Innocenzo si consoli. Suo padre è forse più vicino a Dio di molti che
esercitano il mio ministero, di me per il primo che ho sempre vissuto una vita
blanda, una vita neghittosa, senza vere tribolazioni, senza opere, con
frequenti languori di spirito, benché da tanti anni io entri ogni giorno nella
profondità di Dio, benché io viva, si può dire, nel calore di tante anime
grandi che lo hanno amato. Sono meno che niente, signora Edith. Ma sa cosa c'è
di vero in questo che Lei ha detto? C'è che un sentimento puro d'interessi
terreni, anche per qualche persona indegna, anche, arrivo a dire, per le cose
inanimate, o almeno che noi crediamo inanimate, alza l'anima. E quest'anima che
si alza, vede, naturalmente più in là; se lo slancio è molto forte, può vedere
addirittura la meta; non vedrà la via, ma vedrà la meta. Il Suo signor padre mi
vuol bene, non so come né perché. Non c'entra il sangue in questo affetto, né
la consuetudine, né alcun interesse. Non c'entra neppure quella comunanza di
opinioni ch'è il solito fondamento dell'amicizia e che pure vi mette, non Le
pare? un'ombra di egoismo. Il suo affetto per un povero disutile come me gli
allontana il cuore da quei rancori iracondi che sono, credo, il più grande
ostacolo sulla sua via verso la Chiesa e anche, dirò, stando nel campo della
religione naturale, verso Dio. Mentre egli è con me e sente piacere d'essere
con me, sono sicuro che, senza alcun merito da parte mia, una certa pace si fa
nel cuore; se gli viene in mente, allora, quel tale passato, gli parrà un po'
più lontano di prima. Lavoreremo. Otterremo, vedrà. Lei ha fatto benissimo
intanto a non insistere, a non premere, a non molestarlo con troppo zelo.
Povero
papà! disse Edith, sospirando. Lo immaginava con il suo caro viso onesto, lo
vedeva contento, sereno, lontano dal sospettare di malinconie segrete nel cuore
di sua figlia.
Gli ha mai
parlato di pratiche? chiese don Innocenzo, sottovoce.
Direttamente,
mai rispose Edith nello stesso tono. Cosa vuole? La confessione, per esempio!
Io comprendo che per lui è l'atto più odioso, più ripugnante che si possa
concepire. Quando vado in chiesa vuol sempre accompagnarmi. In questo tempo io
sono andata due volte alla confessione. Sa, io ci vado assai di rado.
Non
biasimo! disse don Innocenzo.
Parlar di
religione all'aperto nelle prime ombre della sera move l'anima. N'escono allora
certe intime opinioni timide che di giorno stanno nascoste per paura della
gente e anche un poco di altre opinioni imposte alla nostra coscienza docile,
venute dal di fuori con autorità di maestri o di libri o di esempi.
Egli non
parlò né la prima né la seconda volta proseguì Edith ma soffriva, s'intendeva
bene: e dopo, per un po' di tempo restava triste, taciturno. Io vedo i suoi
pensieri. Povero papà, non può immaginarli Lei i cattivi compagni che ha avuto.
Non han potuto guastare il suo cuore, ma gli hanno empita la mente di tante
vecchie volgarità misere!
Il
sagrestano entrò nell'orto e, salutato il parroco, andò a prendere le chiavi
della chiesa. Don Innocenzo tolse commiato da Edith, che rimase seduta sul
muricciuolo. Appena fu sola, si sentì spossata da un accoramento profondo.
Ell'aveva amato e rinunciato all'amor suo, ma pure solo allora le pareva di
aver interamente perduto Silla, solo allora che lo sapeva tornato al Palazzo,
presso Marina. Pochi minuti dopo le campane della chiesa, colorata ancora
dall'ultima luce calda del tramonto, suonarono. A Edith pareva che dicessero
Addio, amore, dolce amore; addio, giovinezza soave. Si alzò e rientrò in casa;
ma anche lì penetrava la voce delle campane benché più languida. Addio addio.
Edith salì nella sua stanza. La finestra n'era aperta, e le campane vi
ripetevano più forte che mai Addio. Fra le cortine bianche, nel ponente,
scintillava la stella della sera. Edith non voleva intenerirsi: andò nella
camera di suo padre, vi si sentì tranquilla e vi chiuse la finestra senza
sapere bene il perché. Si pose a spazzolar un soprabito, guardò se i bottoni
eran saldi; poi lo ripiegò, lo posò sopra una sedia, si fece a comporre i
guanciali sul suo letto, a spianare e rincalzar le lenzuola col tenero studio
di una mamma che rifà il letticciuolo del suo bambino convalescente. Stette
quindi a guardare la stella pura, in pace, stavolta; e udì Marta che chiamava
dall'orto:
Signora!
Oh, Signora!
Marta
desiderava sapere se la signora Edith sarebbe andata anche lei in chiesa,
perché allora avrebbero potuto uscire insieme e chiudere la porta di casa.
Si
confusero alle poche donne che salivano dal paesello, coperte il capo di grandi
fazzoletti scuri, entravano una dopo l'altra nella chiesa muta, porgevano la
destra alla pila dell'acqua benedetta e, piegato il capo a pochi lumi
dell'altar maggiore si perdevano, quale a destra, quale a sinistra, nelle
tenebre dei banchi. Don Innocenzo uscì presto in cotta e stola a leggere le
preghiere alla Vergine, alternandole con parecchi pater e ave.
Edith
avrebbe voluto seguir quelle preghiere col cuore e non lo poteva, tanto erano
pomposamente false e sdolcinate. Le pareva impossibile che don Innocenzo non
avesse potuto trovar nulla di più degno del grande spirito puro di Maria, la
impersonazione cristiana del femminile eterno. In fatto, don Innocenzo aveva
tentato in addietro d'introdurre altre preghiere di sua fattura, molto più
semplici e severe; ma quelle prime si recitavano da anni ed anni, piacevano
alla gente assai di più. Gli arroganti santocchi e le santocchie del paese
fecero una tale devota sommossa, seccarono tanto il povero curato per avere
daccapo i troni, i manti, le corone di stelle, che bisognò cedere. Edith non si
accorse di allontanarsi col pensiero dalle preghiere e dalla chiesa. Tornava
all'Orrido, udiva Marina chiederle di Silla, parlare di suo cugino, delle sue
idee sul matrimonio, dirle: Se in avvenire udrà parlare di me, contro di me, si
ricordi questa sera. Poi passeggiava sui bastioni di Milano con Silla, lo
ascoltava parlar di Marina, rileggeva la dedica manoscritta di Un sogno,
le parole se n'è respinto, si lascerà cadere a fondo. Una gran luce le spiegava
tutto. Si scosse, si dolse della sua distrazione e, chino il viso sul banco,
chiusi gli occhi, con uno sforzo del pensiero e del cuore, si slanciò a Dio.
Ma non
poteva perseverarvi. I pensieri di prima la riprendevano tosto, la portavano
lontano, cedevano per poco a un altro sforzo di volontà. Così lottando non udì
la voce di don Innocenzo, né il mormorio grave, uniforme della gente
nell'oscurità, non ascoltò il canto delle litanie che uscì per la porta aperta,
andò lontano sopra i sussurri del vento vespertino.
Una mano le
si posò sulla spalla; era suo padre.
Sono venuto
adesso le diss'egli all'orecchio. Vuoi che mi fermi un poco qui con te?
Oh sì,
papà. Sarai stanco, siedi.
Sedette
ella pure e gli prese una mano fra le sue. Steinegge tacque un momento poi
disse timidamente:
È finito?
Sì, papà.
Vuoi aspettarmi fuori?
No, no. Non
possiamo noi dire qualche cosa insieme?
Ella gli
strinse la mano.
Parla tu
diss'egli.
Pensiamo
alla mamma rispose Edith. Parli lei al Signore, gli domandi per noi la sua luce
e la sua pace, sempre. Gli dica che perdoniamo a tutti coloro che ci hanno
fatto del male; e non è vero, papà? A tutti.
Steinegge non
rispondeva; la sua mano tremava fra quelle di Edith.
Dimmi di
sì, papà. Siamo così contenti!
Oh, Edith,
s'è per quelli che han fatto del male solo a me!
A tutti,
papà, a tutti.
Farò il
possibile diss'egli.
La chiesa
era vuota, il sagrestano aveva già chiusi i chiavistelli della porta laterale e
don Innocenzo scendeva verso la porta maggiore. Gli Steinegge si alzarono e
uscirono con lui. Edith si fermò un momento sulla soglia.
Come è
bello! diss'ella.
Tutto il
cielo era terso fra i profili taglienti dei monti e delle colline sin giù nel
ponente, dove la stella della sera discendeva scintillante. Tirava vento.
Dietro alla chiesa, sul monte, le macchie stormivano. La valle pareva un
immenso drappo scuro, mal disteso a piè delle limpide stelle ignude.
Peccato che
non è luna! osservò Steinegge.
Edith disse
che qualche volta preferiva alla luna la luce non sentimentale delle stelle. Il
suo pensiero era che la luna, piccola terra, piccola schiava nostra, forse un
tempo congiunta al pianeta, blandisce col suo lume certe passioni terrene,
ammollisce i cuori; mentre le stelle austere, indifferenti, a noi, esaltano lo
spirito. Questo era il suo pensiero, ma non lo spiegò. Fece solo osservare a
don Innocenzo, che quella sera la luce di Venere era tanto forte da segnare
ombre sul muro bianco della chiesa.
È quasi
come la luna diss'ella e dolce anche questa, ma a me pare più pia.
Tutto le
pareva pio in quella disposizione di spirito, anche la voce del vento dietro la
chiesa.
Come va al
Palazzo? chiese don Innocenzo che doveva scendere a visitare una ragazzina
inferma.
Un poco
meglio, pare un poco meglio; pare che l'attacco al polmone è passato.
Oh Edith,
questa casa, questa casa! esclamò Steinegge dopo che don Innocenzo se ne fu
andato.
Oh!
Egli fece
tre gran passi avanti, alzando le braccia, agitando le mani distese.
Edith non
parlò fino al cancello della canonica.
Credevo che
non venissero più disse Marta aprendo.
E così,
signore?
Va un poco
meglio. Vogliamo fare ancora due passi, Edith?
Ella
acconsentì. Invece di scendere direttamente al villaggio, presero la
stradicciuola che gira sotto l'orto e cala di sghembo a raggiungere la strada
comunale a poche centinaia di metri dalle prime case.
Steinegge
raccontò la sua visita al Palazzo, dove aveva visto la contessa Fosca e Giovanna.
La Contessa, prima di salutarlo, aveva esclamato: Oh, non è qua anche
quest'altro adesso?. Ma poi saputolo ospite della canonica, gli si era mostrata
cordialissima. Steinegge non aveva inteso un terzo de' suoi discorsi sul triste
fatto, delle sue lamentele sulla babilonia che regnava al Palazzo. Secondo la
contessa, Marina era inconsolabile, non usciva mai o quasi mai dalle sue
stanze. Del matrimonio non gli aveva detto verbo, ma gliene aveva parlato
Giovanna. La povera Giovanna, sparuta, lagrimosa, gli aveva fatto infinita
pietà. Il suo gran pensiero era il conte; del resto si curava soltanto per le
impressioni che potesse riportarne il suo ammalato, ricuperando la
intelligenza. Ell'avrebbe voluto che il matrimonio si facesse subito e se ne
andassero via tutti. Secondo lei, quella signora contessa e quel signor conte
di Venezia non miravano che ai denari. Le avean già domandato s'ella sapeva che
il suo padrone avesse fatto testamento.
Ma vi è
qualche cosa che mi mette più angustia di tutto questo soggiunse Steinegge. Ho
veduto Silla.
Edith
tacque.
Oh, mi ha
fatto una impressione di trovarlo lì! Parve sorpreso anche lui, ma mi sfuggì,
mi salutò appena, non mi chiese di te, niente!
Non c'era
bisogno, papà, che ti chiedesse di me.
Ma eravamo
pure buoni amici, io credo? Non è naturale questo. Temo di saper troppe cose,
Edith. Temo... Tu puoi capire cosa temo. D'altra parte, quella sera, a Milano,
pareva ben guarito quando si parlò del matrimonio. Non è vero, mi pare di
averti già raccontato...
Sì, sì, lo so,
papà. Dove andiamo? Qui non è piacevole.
Avean
raggiunta la strada comunale. Vi faceva scuro, Venere era scomparsa; l'aria
portava dalle bassure della valle uno sparso gracidar di rane, un odore grave
ai prati umidi.
Prendiamo a
sinistra disse Steinegge faremo il giro e torneremo a casa per il paese e la
chiesa.
Si
avvicinarono pian piano verso il villaggio, a braccetto. Edith parlò della cara
Germania e del passato. Avea sempre da raccontar qualche cosa di nuovo sulla
sua adolescenza, qualche cosa che le tornava alla memoria a caso, specialmente
nelle ombre della sera. Suo padre se ne commoveva, s'inteneriva, non tanto per
le piccole vicende narrategli, quanto per l'idea che adesso gli anni tristi
eran passati, che ella era lì al suo fianco.
Nel
villaggio trovarono don Innocenzo che usciva da una povera casupola. Udirono
una donna, che lo avea accompagnato col lume sulla via, dirgli angosciosamente:
E così,
signor curato?
Fatevi
coraggio, Maria rispondeva don Innocenzo donatela al Signore.
La donna
appoggiò il capo al muro e pianse.
Andate,
Maria, tornate su disse don Innocenzo dolcemente.
La donna
piangeva sempre e non si moveva.
Si conforti
disse Edith. Pregheremo per lei.
Quella si
voltò al suono della voce sconosciuta e rispose come se avesse dimestichezza
con Edith.
Venga su
anche Lei, venga a veder com'è bella.
Don
Innocenzo sulle prime si oppose, ma Edith volle contentar quella povera donna e
salì con lei dall'inferma. In cucina due fanciulle giocavano sedute a terra. Il
padre, curvo sul fuoco, stava riscaldando un caffè; non si mosse né a salutare
né a guardare. Chiese bruscamente a sua moglie:
Devo
portarglielo?
Oh,
Signore! diss'ella sconsolata.
Egli
proferì, con voce rotta, poche parole iraconde e sedette, cupo, sul focolare.
L'ammalata
era una fanciulla di dodici anni, bionda, delicata, che moriva tranquilla,
credendo di guarire.
Edith
ridiscese pochi minuti dopo nella via dove suo padre e don Innocenzo
l'aspettavano.
È da
vergognarsi diss'ella di tanti nostri piccoli dolori.
Nessuno dei
tre aperse più bocca a casa, dove si divisero. Steinegge, sentendosi stanco,
andò a letto, don Innocenzo si ritirò nel suo studio a dir l'ufficio. Edith
andò in cucina ad ascoltare una conferenza di Marta su vitali argomenti
d'economia domestica, sui prezzi dello zucchero e del caffè, sul modo di metter
là i pomidoro e i capperi in aceto, sulla tela più robusta e a buon mercato.
Dopo mezz'ora di chiacchiere Edith lasciò la cucina e venne a bussar
sommessamente all'uscio dello studio.
Don Innocenzo
non si aspettava la sua visita; le domandò sorridendo se fosse accaduta qualche
cosa. Ella rispose:
No, volevo
dirle una parola.
Il prete
comprese tosto dal volto di lei che doveva essere una parola grave, e si
compose pure a gravità.
Prego
diss'egli, alzandosi a mezzo e accennando una sedia presso di lui. Quindi
attese in silenzio.
Passarono
due minuti prima che le labbra di lei si aprissero. Don Innocenzo si pose a
guardare attentamente il piano della scrivania, a spazzar col mignolo della
destra, a soffiar via leggermente una polvere immaginaria. Finalmente Edith
parlò.
Ella non
fece alcun preambolo e cominciò subito a raccontare quello che suo padre le
aveva detto intorno alla passione concepita da Silla per Marina prima della sua
fuga dal Palazzo; proseguì a dire dello strano contegno, degli strani discorsi
tenuti da Marina durante la gita all'Orrido, delle proprie impressioni
nell'udir annunciare, quella stessa sera, il matrimonio Salvador. Narrò quindi
con voce men sicura il passeggio sui bastioni, la indifferenza ostentata con la
quale Silla avea accolto la notizia che le nozze stavano per celebrarsi, le
confidenze che le aveva fatte poi. Soggiunse risolutamente, lottando con la
emozione interna e vincendo, che si era confermata quella sera in un sospetto
concepito qualche tempo prima riguardo alle disposizioni di Silla verso di lei;
che non v'era stato un discorso diretto ma molti indizi, e che il proprio
contegno era forse apparso tale da lasciar credere a una corrispondenza di
sentimenti. Disse, coprendosi il viso con le mani, che n'era dolentissima e se
ne trovava ben punita.
Oh Dio
disse don Innocenzo con voce imbarazzata fin qua... poi... non so... ma non mi
pare...
Allora
venne il racconto della mattina seguente della visita di Silla, della gelida
accoglienza fattagli, delle parole trovate nel suo libro. Qui don Innocenzo si
scosse, indovinando, assai tardi, a quale sospetto conducesse il racconto di
Edith. Ella non tacque il recente incontro di Silla con suo padre e la
impressione riportatane da questo. Temeva di qualche triste mistero nascosto
nell'ombra del Palazzo!, si rimproverava di aver favorito, per poca vigilanza,
un sentimento che, non accolto, poteva spingere Silla a men che onesti
propositi.
Ho creduto
diss'ella di dover raccontare tutto a Lei perché mi pare bene che Lei, andando
al Palazzo, sappia queste cose quantunque vi sia del biasimo per me.
Don
Innocenzo si fregava le mani lentamente, suggendo l'aria come se gli dolessero.
Non so proprio
diss'egli quale biasimo vi possa essere...
Pareva
tuttavia che una lieve ombra fredda ve ne fosse dentro di lui. Masticava parole
vaghe come chi non arriva a raccapezzarsi bene. Domandò a Edith che uomo fosse
questo signor Silla. Ella disse che lo credeva uno spirito nobile, ma ammalato,
offeso dalle contrarietà della vita.
E Le pareva
che avesse inclinazione per Lei?
Edith non
rispose.
Ma Ella dal
canto Suo non ne provava alcuna per lui, e solo per un equivoco il signor Silla
poté sperare d'essere corrisposto?
No,
signore, temo di no, non per un equivoco.
Ella
pronunciò queste parole a voce bassissima, chinando la fronte alle mani
conserte sulla scrivania.
Don
Innocenzo tacque guardando i capelli giovanili, lucenti di bagliori dorati.
Quella scoperta gli faceva pena; gli doleva trovar passione dove aveva pensato
non esser che pace, gli doleva veder piegarsi afflitta la bella testa
intelligente. Al tempo andato, nelle lunghe ore ch'egli soleva passare
meditando e leggendo, nel suo studiolo, altre immagini di donne pensose e
vereconde erano salite dalla terra o uscite dai libri santi innanzi agli occhi
suoi. Gli pareva ora che la rauca voce dell'orologio gli dicesse ti ricordi?.
Ecco, dopo tanti anni, una di queste figure, viva e vera, non più pericolosa
ormai per lui che per un fanciulletto innocente. E soffriva di vederla ferita,
perché vi era pur qualche cosa in lei della sua propria giovinezza intemerata,
di certi ideali femminili contemplati a quel tempo, con trepida riverenza, da
lontano.
Edith alzò
il viso e se lo coperse con le mani.
Temo
diss'ella di non aver fatto tutto il possibile per nascondere l'animo mio.
Ma, se
questo giovine signore ha uno spirito nobile, se aveva inclinazione per Lei, se
Ella stessa... scusi, sto alle Sue parole... se Ella stessa... ma perché
allora?
Le mani le
caddero dal viso, due occhi umidi brillarono davanti a don Innocenzo.
Oh, signor
curato, Lei che sa, come può credere? Come farei ciò mentre mio padre ha tanto
bisogno di me? Mettere accanto e forse contro al mio dovere di figlia un dovere
più forte! Sarei venuta in Italia per questo, signor curato? Non è poi neppure
la mia vocazione; ne sono convinta.
Veramente
convinta? disse don Innocenzo, grave. Sa veramente quanto è grande oggi, quanto
lo può essere domani il sacrificio che si propone?
No rispose
Edith giungendo le mani non dica questo, non dica questo! Ciò che faccio è
niente rispetto a quanto io debbo a mio padre. Così Dio mi accordi ch'egli
venga alla fede! Intanto, son felice che non abbia sospettato di nulla. Quanto
a me potrò anche dimenticare. Lei mi aiuti!
Povero
prete, aiutare a combatter l'amore! Nella sua grande bontà ingenua, il
sacrificio di Edith gli pareva irragionevole. Se quest'uomo era nobile, se
l'amava, certo avrebbe amato egli pure con affetto filiale il padre di lei,
certo avrebbe cooperato al santo fine che Edith si prefiggeva.
È
necessario diss'egli è utile davvero questo sacrificio? Pensiamo bene.
Potrebb'essere che Suo padre desiderasse veder Lei collocata, che questo
pensiero gli procacciasse delle angustie segrete. Anche questo; sa Ella di
quanti e quali mezzi si può servire Dio per condurre alla fede un'anima? Forse
nell'ambiente di una famiglia cristiana ve ne sono tanti che Lei adesso non
immagina neppure. Parlo per l'avvenire. Per quello che è stato metta il Suo
cuore in pace. Se qualche male avesse a succedere, nessuna colpa può ricadere
sopra di Lei. No, nessuna, lo creda. Quand'anche Ella avesse dato a questo
signore segno... non so... di simpatia, insomma, Ella non sarebbe mai responsabile
davanti a Dio delle azioni disoneste che colui ora commettesse.
No
diss'ella ma però sarebbe un gran dolore.
Don
Innocenzo tacque; cercava parole che non venivano. Gli facevano invece violenza
altri pensieri generati dal racconto di Edith; il sospetto di una trama
disonesta, il dubbio di dover fare qualche cosa presto, fors'anche subito, per
combattere i disegni che Edith pareva attribuire a Marina e che Marina stessa
le aveva manifestati indirettamente dal settembre, parlando di un'amica sua sposatasi
per odio e per disprezzo, per giungere all'amante attraverso il marito.
Mi parli
con piena sincerità diss'egli ex abrupto: è convinta o no che vi sia un
accordo tra il signor Silla e donna Marina? Non abbia riguardi: non si tratta
qui di maldicenze né di quei giudizi che il Vangelo riprova. Il mio ministero
potrebbe forse venir esercitato per il bene e io debbo sapere, per quanto è
possibile, la verità. Ella che conosce le persone e i fatti, mi dica schietto,
che convinzione ha?
Due giorni
fa non c'era di sicuro rispose Edith ma oggi temo di sì.
Come? Che
ci sia accordo?
Temo che
succeda: ho questo presentimento.
Teme che
succeda disse don Innocenzo parlando a se stesso, e, fattosi puntello d'un
gomito alla scrivania, con il palmo della mano sulla fronte e le dita inquiete
sul cranio, rifletté. Dopo qualche tempo aperse il cassetto della scrivania e
ne tolse della carta.
Ella non ha
risposto diss'egli alle parole che il signor Silla scrisse in quel volume per
Lei?
No,
signore.
Come?
chiese don Innocenzo.
Ella
presentiva forse la proposta del curato, parlava così piano!
No, non ho
risposto.
Il prete si
alzò in piedi.
Bene,
risponda diss'egli.
Anche
Edith, involontariamente, si alzò; vide, senz'altre parole, il concetto di don
Innocenzo.
Subito disse
questi, accostando il calamaio alla carta, che aveva posta sulla scrivania.
Crede,
signor curato, che questo possa essere un dovere per me? Subito?
Lo credo.
Il mio dovere sarà poi di giudicare se e quando la lettera debba essere
consegnata. Sieda al mio posto.
Edith
sedette tacendo, prese la penna con mano ferma e guardò il curato.
Gli occhi
di lui presero un'espressione solenne, la fronte diventò augusta.
Non so di
queste cose diss'egli commosso ma ho sempre avuta l'idea che invece di un
legame di passione, santificato o no, vi possa essere fra due anime veramente
nobili, veramente forti, un altro legame d'affetto, santo in se medesimo; un
amore, diciamo pure questa parola tanto grande, interamente conforme all'ideale
cristiano dell'intima unione fra tutte le anime umane nella loro via verso Dio.
Arrivo a dire che non v'è sulla terra niente di più bello di un legame simile,
benché il legame coniugale sia sacro ed abbia un significato augusto. Ella vuol
fare questo sacrificio a suo padre: sia; ma perché svellersi dal cuore anche la
memoria della persona che Le fu cara? Perché rinunciare a un sentimento
vivificante che Le fa desiderare il bene temporale ed eterno di questa persona
quanto Lei stessa? Perché l'altra persona non potrebbe serbare un sentimento
simile verso di Lei, sì che ambedue, sapendo l'uno dell'altro, battessero vie
diverse nel mondo e compiessero i propri doveri con questo gran vigore nel
segreto dell'anima? Scriva così, scriva così.
Lei è un
santo disse Edith. V'erano sul suo viso e nella sua voce dei tristi ma.
Io sento
bene soggiunse la bellezza di questa unione, ma gli basterebbe, a lui? Non
combatterebbe poi con tanto maggior violenza il mio proposito, non mi
porterebbe a cimenti dolorosi?
Don
Innocenzo rimase mortificato. Sentiva di conoscere il mondo tanto meno di lei,
di non poter sostenere la discussione; ma il suo convincimento rimaneva.
Sarà
diss'egli sospirando. Scriva come vuole, anche poche parole, purché gli
rialzino il cuore.
Ella non
disse niente, si mise a pensare con la penna in mano, guardando il lume. Il
curato aperse la finestra e appoggiò le braccia sul davanzale. Le stelle lo
guardavano, davano ragione a lui, ma la terra nera gli dava torto.
Dopo brevi
momenti Edith lo chiamò, gli porse spiegato il biglietto che aveva scritto.
No
diss'egli non leggerò certamente; mi dica solo se son parole che possano
infondere...
Oh don
Innocenzo esclamò Edith, supplichevole ho scritto, ho fatto il Suo desiderio.
Legga se vuole, ma non mi faccia più domande, non me ne parli più!
Bene, bene,
stia di buon animo, si ricordi che il Signore ci dice di non abbandonarci alla
tristezza e vada a riposare che è tardi.
Prima
d'entrare in camera Edith origliò all'uscio socchiuso di suo padre. Dormiva.
Non vi poteva esser per lei sonno più dolce, più commovente del suo respiro
placido, eguale come quello d'un bambino. Andò a posar il lume nella propria
camera, tornò lì al buio, appoggiò la fronte allo stipite ascoltando, cercando
una pace, una forza di cui aveva bisogno.
In quel
momento le ore pesanti caddero a una a una dall'orologio del campanile,
batterono con la loro gran voce solenne sul tetto, sulle scale, sui pavimenti
sonori della piccola casa addormentata. Edith alzò il capo a contarle con
sgomento, come se fossero colpi menati a una porta di bronzo da qualche
formidabile ospite inatteso.
Erano le
dieci e mezzo.
|