L'alba
nasceva sopra i grandi sassi malinconici dell'Alpe dei Fiori, circonfusi da
ondate di nebbia; scopriva le alte cime grigie, sonnolente nei loro umidi
mantelli di boschi, le ultime colline di ponente sfumate in un chiaror di
piova, il lago plumbeo. Lì sul lago non pioveva ancora. Non si moveva fronda
de' fichi, de' gelsi, degli olivi pendenti dai campicelli delle rive sull'acqua
morta; le loro immagini e quelle dei muriccioli, delle rade casupole, dei sassi
cespugliosi vi tacevano ferme, intere. Ma da ponente la piova veniva avanti
come una vela obliqua dal cielo alla terra, sempre più grande. I pioppi delle
praterie la sentivano vicina, ne avevano i brividi. Anche il lago cominciava
laggiù a fremere, a picchiettarsi di brevi macchie scure. Queste corsero avanti
spandendosi rapidamente, si confusero in una sola striscia rugosa, in una fila
di ondicine tremole che si spiegavano a ventaglio, silenziose nell'alto,
bisbigliando lungo le sponde. E in queste sponde solitarie, nel lago stesso
diviso più che mai dal mondo, diviso, parea per sempre, dal sole, era un arcano
raccoglimento pieno di pensieri gravi, d'intimi colloqui sommessi, una quiete
di chiostro in cui l'aria e le pietre parlano di alti misteri e di occulte
passioni.
Le colline
sparvero del tutto dietro il bianco velo della piova su cui si disegnavano neri
i pioppi delle praterie, che uno dopo l'altro, da' più lontani a' più vicini,
diventavan grigi essi pure, si dileguavano come fantasmi fugati dal giorno.
Intanto le ondicine venivano avanti, sempre avanti, movevano in file serrate al
Palazzo. E vennero a battere gorgogliando le mura, entrarono a sussurrare
curiose nella darsena. Nessuna voce rispose loro. L'ala di ponente aveva tutte
le finestre chiuse, ma l'altra le aveva in gran parte spalancate. Pure nemmeno
da questa veniva voce né segno alcuno di vita, benché vi parlasse un disordine
di letti sfatti, di cassetti aperti, di sedie scioccamente ritte in mezzo alle
stanze; benché vi apparisse, a una finestra del secondo piano, una figura umana
pietrificata, più pallida di quell'alba.
Appena
lasciato il Vezza che gli aveva partecipate certe disposizioni del conte, Silla
era venuto a cadere sul davanzale della finestra. Sapeva ora che Marina non era
nemmeno nominata nel testamento e che a lui il conte aveva legate le
suppellettili appartenute a sua madre, una cassetta di lettere e diecimila lire
a titolo di compenso per il lavoro scientifico incominciato l'anno precedente e
da proseguire come e quando Silla crederebbe meglio. Ma egli non pensava a questo;
guardava venire avanti lentamente il giorno, la piova, le onde. Gli occhi
vedevano male: si sentiva la testa grave più del piombo, il petto voto d'ogni
sentimento. Si conosceva affondato nel disonore della sua azione sleale, in una
cupa necessità: legarsi a Marina, pazza o no. Ed era tranquillo, freddo sino al
cuore. Il cielo, il lago, la piova vicina gli consigliavano sonno. Chiuse la
finestra, si gittò vestito sul letto. Lo trovò soffice, morbido più che mai,
sentì dolce come una carezza la tela del guanciale, desiderò dormire,
dimenticare; si assopì e vide uno sconosciuto che lo guardava.
Lo guardava
placidamente, per qualche tempo; quindi alzando le spalle e le sopracciglia,
porgendo le mani aperte, scoteva il capo quasi per dire: non c'è verso. Silla
credette capire, come a cosa più naturale del mondo, che colui gesticolava sì,
ma non poteva parlare perché era morto. Allora lo riconobbe tosto per un
vecchio amico di famiglia suicidatosi quindici anni prima. Ne riconobbe la gran
fronte calva, il mento raso, aguzzo fra due solini diritti, sopra una cravatta
nera con la spilla di malachite. Meravigliò in pari tempo di non averlo
riconosciuto subito; dovea saperlo che sarebbe venuto. Infatti il fantasma,
leggendogli nel pensiero, gli sorrise. Quel sorriso fu per Silla un'altra
rivelazione. Vide in se stesso tutta la occulta via di un pensiero, dai giorni
dell'adolescenza sino a quel momento. Aveva cominciato da una dolce malinconia,
dal desiderio vago di una patria lontana: era diventato poscia presentimento
fugace, quindi sospetto sempre combattuto, sempre più gagliardo, sempre coperto
di segreto come qualche lento male orribile che ci rode, di cui si vede il nome
col pensiero e non vogliamo confessarlo mai; prevaleva finalmente, alla
volontà, diventava un ragionamento irrefutabile, una sentenza opprimente in tre
parole: INETTO A VIVERE. Silla se le vedeva dentro chiare queste tre parole, e
il fantasma sorrideva sempre, si avvicinava, gli procedeva pesante su per la
persona, con gli occhi sbarrati, mettendogli un gelo nelle ossa, fermandogli il
respiro. Quando giunse al cuore, Silla non vide né intese più nulla.
Gli parve
svegliarsi solo, provare una dolcezza infinita e dire fra sé adesso non sogno.
Era in un altro mondo, quasi senza luce, tutto silenzio e riposo. Guardava,
steso bocconi, in un'acqua immobile, vedeva passarvi dentro lentamente la
immagine di un globo alto nel cielo, color d'alba piovosa: e ripeteva seco
stesso: Eccolo, ne son fuori, son pur fuori di un gran mondo tristo. Era una
consolazione profonda e tenera la sua,come si prova in un sogno d'amore. Ma gli
parve a un tratto che quel globo color d'alba piovosa non procedesse più pel
suo cammino, si avvide che ingrandiva rapidamente, smisuratamente: colto da
indicibile terrore, si svegliò.
Si vide
davanti, per la finestra aperta, un largo chiarore bianco, alzò la testa
inorridito, sognando ancora. Quando, raccapezzatosi, si rizzò a sedere sul
letto, sentì, poco a poco, che il cuore gli doleva, la testa pesava tuttavia
come il piombo, le membra erano tutte intirizzite dalla fredda aria umida della
finestra; e disse a mezza voce rispondendo al proprio sogno: È vero, morire,
non c'è altro; dormire ancora. Dormire, dormire. Sopra il capezzale l'angelo
appassionato del Guercino pregava per lui con ardor veemente, gridava a Dio:
Chi lo ha gittato sulla terra? Chi gli negò il sospiro dell'anima sua? Chi lo
mise inconscio, lo trattenne, lo ricondusse sulla via di quest'ora angosciosa?.
Silla si
guardò involontariamente nello specchio scuro di fronte al letto. Vide appena
un viso pallido, due occhi spenti. Pensò che pareva già morto e ch'era stato
così pallido altre volte dopo un'ebbrezza tetra di sensi, nel doloroso sdegno
dell'anima. Ora non v'era più sdegno in lui né forza alcuna; lo stesso proposito
di morire che lo invadeva era come un infiacchimento, uno sfacelo dello
spirito. Scese dal letto, andò barcollando a sedersi al tavolo, si appoggiò i
gomiti, reggendosi con le mani il capo addolorato pieno di confusione.
Comprendeva in nube, che bisognava pure scrivere qualche cosa a' suoi parenti,
alla sua padrona di casa, e non se ne sentiva la forza. Lottò ad occhi chiusi
per raccogliere le idee, ne represse con violenza il disordine, stese la mano
alla penna e solo allora vide la lettera portata su da Rico. La guardò, non ne
riconobbe il carattere, la depose senza aprirla e cominciò a scrivere al cav.
Pernetti Anzati, suo zio, invitandolo a sospendere l'invio dei soliti
interessi, poiché lui, Silla, era fortunatamente in grado di far dono del
capitale alla famiglia Pernetti, statagli tanto amorosa. Prima di voltar pagina
riprese quella lettera e l'aperse.
V'erano
scritte queste poche linee senza intestazione e senza data:
Edith S. risponde
allo scrittore oscuro ch'egli può diventare grande e forte, contro la fortuna,
malgrado l'ingiustizia degli uomini. Edith ha promesso non appartenere ad altri
che al suo vecchio padre, il quale ha gran bisogno di lei; ma è libera di
portare nell'intimo del suo cuore un nome che le è caro, un'anima che non
affonderà mai se ama come lo dice.
Silla
sorrise. Adesso, adesso! diss'egli. Rilesse il biglietto e si sentì morire.
Trasse il
portafogli per chiudervelo, stette sospeso, considerando i caratteri netti e
slanciati, pensando alla mano, alla mente pura; e pentitosi della prima idea,
compreso della propria indegnità, ripose il portafogli, accese una candela, vi
arse lo scritto, ne sparse dalla finestra i brandellini neri al vento e alla
pioggia. Mentre li guardava svolazzar via lungo la muraglia, un domestico entrò
a dirgli che commendatore gli voleva parlare e lo attendeva nella sua camera.
Silla ripose la lettera incominciata, e uscì come stava, con i capelli
arruffati, con le vesti in disordine. L'orologio della scala suonò, mentr'egli
passava, le nove.
Qui disse
il commendatore una sorpresa non aspetta l'altra.
Silla non
fece domande: attendeva che colui parlasse, che anche questa noia fosse passata
per sempre. Ma il panciuto soldatino di gomma, invece di parlare, lo guardò
fisso con le mani in tasca e la testa piegata sul petto.
Cosa vuole
diss'egli, lasciando improvvisamente quella attitudine scrutatrice sono in una
condizione penosissima. Si soffoca poi anche, qui dentro.
Aperse una
finestra e andò a cadere in una poltrona di fronte a Silla.
Penosissima
ripeté.
Silla non
aperse bocca.
E pure
soggiunse il commendatore, sospirando bisogna starci. Io sono un ambasciatore
sa. Un'ora fa donna Marina mi ha mandato a chiamare.
Silla
trasalì.
Lei si
meraviglia. E io dunque? Ma! È così. Potevano essere le otto e un quarto; la
moglie del giardiniere viene a svegliarmi e a dirmi che la marchesina mi
aspetta. Io sono rimasto di sasso. Come mai? dico. Mi dice che ha dormito senza
avere preso medicine di sorta e che si è svegliata circa alle sette,
tranquilla, perfettamente in sé. Solo non ha voluto che si aprissero le
persiane; ha preferito tenere accesa la candela, anzi farne accendere altre due
o tre. Ha domandato, la prima cosa, se Lei è ancora qui, al Palazzo. E poi si
fece ripetere i discorsi del suo delirio, tutto l'accaduto dopo...
Il
commendatore si fermò esitando.
Parli pure
disse.
Dopo che
Lei l'ebbe portata via dalla camera del povero Cesare. E specialmente... scusi,
Lei l'ha rimproverata, per quello che ha detto là?
A parole
non l'ho rimproverata veramente: ma deve aver compreso che mi faceva orrore,
perché mi ha vituperato nel suo delirio.
Bene, è su
questo orrore manifestato da Lei, mi diceva la donna, che la marchesina fece
più insistenti domande. Poi si alzò e mi mandò a chiamare. Adesso, senta.
Premetto: per me è malata ancora: malatissima! Sta peggio ora di stanotte, per
me. Lo si vede quasi più nella bocca che negli occhi; la bocca è alla gran
tempesta. Ma è un fatto che mi ha parlato con una freddezza, con una calma da
fare sbalordire. Era pallida, se vuole, come un cadavere; ma non importa. Mi
domanda perdono di avermi incomodato, con un'affabilità insolita in lei, poi mi
dice che nella posizione stranissima in cui si trova, non ha nessuna guida,
nessun aiuto; che io sono il migliore amico del suo povero zio e che stima
doversi rivolgere a me per consiglio. Io, naturalmente, mi metto a sua
disposizione. Ella mi domanda allora... scusi, signor Silla, Lei è
disgraziatamente immischiato nelle cose che sono successe qui stanotte. Abbia
pazienza, io non voglio farmi suo giudice. Non si offenda se sono costretto di
ricordarle queste cose e forse anche di dirne altre che potranno spiacerle.
Parli,
parli disse Silla.
Bene. Mi
domanda dunque dei Salvador: perché sono partiti? Io la guardo. Eh dico per
questo e per questo. Perché dopo gli avvenimenti di stanotte hanno creduto di
non avere più niente da fare, qui. Allora ella mostra di turbarsi un poco, mi
dice che comprende e scusa questo procedere, che pur troppo ha tutte le
apparenze contro di sé, ma che non è colpevole affatto. E qui, poveretta, mi fa
un racconto dal quale mi son ben persuaso che c'è ancora follìa e follìa più
pericolosa, forse, del delirio violento. Per otto giorni dice non sono stata responsabile
delle mie azioni. Ho avuto da una persona morta comunicazioni che mi hanno
scombuiato il cervello. Queste comunicazioni dice il signor Silla le conosce.
È vero
disse Silla.
Euh!
esclamò il commendatore stupefatto. Non si aspettava questa conferma; gli
sconvolgeva le idee, gli suggeriva il sospetto che neppur quell'uomo pallido
dai capelli arruffati, dalle vesti scomposte, avesse il cervello interamente
sano.
È vero
ripeté Silla
Spiritismo?
chiese il commendatore.
No. Ma, La
prego, continui.
Il Vezza
aveva perduto la bussola e il filo del discorso; ci volle del buono perché
potesse raccapezzarsi.
Dunque
diss'egli ella sostiene, continuando, di aver vissuto otto giorni in una specie
di sonnambulismo, durante il quale ha fatto cose inesplicabili di cui ora è
dolentissima. Protesta della sua indifferenza, anzi della sua ripugnanza per
Lei, comunque si sia comportata durante questo periodo di allucinazione.
Soggiunge che spera di persuadere di tutto questo il conte Salvador, e mi
prega, in due parole, di aiutarla. Cosa vuole, che le rispondessi? Che per
parte mia credevo tutto, ma che non vedevo probabile di far credere nulla al
conte Salvador. E poi le dico capisce bene. Fanny non ha taciuto...
Silla lo
interruppe impetuosamente.
Quanto a
questo diss'egli posso dare la mia parola d'onore...
Benissimo,
benissimo, si calmi. Capisce bene che in ogni modo per allontanare Salvador ce
n'è più che abbastanza. Tornando alla marchesina, mi domandò allora con un
sorriso sarcastico se si conosceva il testamento. Io glielo riferii ed ella non
si turbò affatto. Se io sono esclusa dice questa è una ragione, per un
gentiluomo come mio cugino, di non abbandonarmi. Dopo di che mi fa un discorso
riguardo a Lei: debbo confessarlo. Un discorso sensatissimo. Vi sono proprio delle
convenienze imperiose che danno ragione a donna Marina, e Lei vorrà non
dolersi, credo, se ho accettato di esporle il suo messaggio. Le assicuro che
sono convinto di fare un'opera buona verso tutt'e due.
Ch'io
parta? disse Silla, concitato.
Il commendatore
tacque.
Ma cosa
crede Lei, che il conte Salvador possa tornare, che voglia prendere una moglie,
non foss'altro, inferma di mente e diseredata? Come si posson pigliar sul serio
i discorsi di una donna in quello stato? Ma si metta una mano sul cuore e mi
dica se io, che purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa notte,
mi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzato, anche per
causa mia, adesso che cade dalla ricchezza nella povertà perché di suo deve
aver poco o nulla, adesso che è malata di una malattia terribile, mi dica,
ripeto, se posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente
fosse stato, solo perché questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice:
andate pure. Andar via, lasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Lei,
commendatore, mi consiglia questa viltà?
Piano,
piano, piano disse il commendatore piccato. Non adoperiamo parolone e
riflettiamo un po' di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore
della marchesina di Malombra? Non voglio esser severo con Lei perché in affari
di cuore non lo sono mai, e perché dopo una notte simile, chi può avere la
testa a segno? Ma mi spieghi un poco, scusi sa, che sorta di protezione può
offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco
onorevole, una protezione che le allontanerà tutte le altre. Perché la
marchesina ha dei parenti che l'assisteranno se non per affezione, almeno per
un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vede, non è neanche
il caso, parlando chiaro, del matrimonio per riparazione; con una donna che vi
respinge? Con una donna, sopra tutto, che non ha la sua ragione intera? Dunque,
cosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire.
Silla
lottava fieramente per serbarsi freddo, per soffocare un lume indistinto di
speranza che gli entrava nel cuore, e poteva turbargli, in quel frangente, il
giudizio.
Sul Suo
onore, signor Vezza diss'egli crede buono questo consiglio?
Sul mio
onore, lo credo l'unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna
Marina, parlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente.
Io? Nemmeno
per sogno. Se partissi, non vorrei rivederla.
Un momento.
La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquio, ciò che farò
con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlare, a
ogni modo, con Lei.
Perché?
Ma!
Bisognerebbe domandarlo a lei. Vada, si faccia coraggio. Io ho il diritto, per
la mia età, di parlarle come un padre, signor Silla. Mi spieghi questa cosa che
non posso comprendere, ricordando una certa scena dell'anno passato. Ha Lei una
vera affezione per donna Marina?
Perdoni,
non si tratta de' sentimenti miei, adesso.
Basta,
basta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?
No, le dica
solo che mi faccia saper l'ora in cui dovrò recarmi da lei.
Sì. Per
dirle la verità, il mio interesse personale sarebbe ch'Ella restasse qui ancora
qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C'è da chiedere
al pretore l'apposizione dei sigilli. Capirà, qui c'è tanta gente! C'è da
scrivere alla Direzione dell'Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegramma,
ma non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è
a Oleggio. Il conte dev'essere trasportato là? Dev'essere sepolto qui? Mi han
promesso che prima delle due arriveranno gli annunzi stampati da diramare: un
bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonte, il povero
Cesare, e di mezza Toscana, anche. Insomma, quanto a me, se Lei restasse fino a
stasera, ne avrei certo piacere.
Un forte
soffio di vento entrò dalla finestra aperta, gonfiò le cortine.
Oh, il
vento cambia, meno male disse il commendatore. Anche questo tempaccio è una
cosa orribile.
Silla non
rispose, salutò in silenzio e tornò nella propria camera, meditabondo.
Cos'era
adesso quest'altro enigma? Cos'era quest'altra commedia del destino? Egli
ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all'altro, nello
svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso
passeggero, una esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane.
Se il Vezza
s'ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adesso, lo
respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio.
Restavano i
rimorsi, la vergogna d'esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità
con un coperto proposito di colpa, per farvisi complice di una mortale nemica
del conte, mentre quest'uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso
dalla infermità. Ma pure, se rimanesse libero, non vi sarebb'egli modo di
rialzarsi ancora, di purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce
occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranza, gli ripeteva le parole di
Edith: Non affonderà mai, se ama come lo dice. Non era più il Silla di prima
che fantasticava così, seduto sul letto, mentre l'angelo del Guercino pregava
sempre. Adesso l'idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non
voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l'avvenire: aspetterebbe di aver
visto donna Marina, di averle parlato. Oh, se Dio volesse essergli pietoso,
rialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religioso, la sua fede in un
segreto contatto di Dio con l'anima e nella salutare potenza del dolore,
rinascevano. Si coperse il viso colle mani e si sovvenne di un'ora triste in
cui, aperta la Bibbia a caso, vi aveva letto: Infirmatus est usque ad
mortem, sed Deus misertus est eius. Quanta consolazione, quanta energia di
vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee
nella mente ed egli le combatteva, temendo illudersi, prepararsi disinganni più
amari. Entrare, per punirsi, nella manifattura de' suoi parenti, dare il giorno
al lavoro più ingrato, la notte agli studi, poter dire a quella persona sono
ancor degno ch'ella mi porti nell'intimo del suo cuore!
Queste
immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava
i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancora, ma le scogliere dell'Alpe dei
Fiori nereggiavano sul cielo bianco, nitide, spazzate dal vento del nord che
copriva pure le altre cime di fragore, infuriava, volendo sereno.
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