III.
Nel giugno del 1872 la signora andò col marito a
passare l'estate sul lago di Ginevra. Intendevano ritornare in Italia per il
Sempione e trattenersi poi alquanto sul Lago Maggiore, a Stresa o a Pallanza.
Ella mi doveva scrivere da Ginevra se una mia visita segreta colà fosse
possibile. In caso diverso avrei tentato vederla sul Lago Maggiore. Le promisi
di lavorare, nel frattempo, alacremente.
Ella era infatti alquanto sorpresa e mortificata
dell'assoluta inerzia intellettuale di cui l'amore mi aveva colpito, e ch'io,
nel mio segreto, mi spiegavo perfettamente. Durante un anno e mezzo non avevo
scritto che quattro o cinque liriche amorose, eleganti secondo il poter mio,
perchè tale era il suo gusto, ma freddine. Ora ella si era innamorata degli Idyls
of the King di Tennyson e avrebbe voluto ch'io scrivessi un poemetto
di quel genere, il più raffinato, il più aristocratico possibile. Le promisi di
fare qualche cosa, e sentendomi bisogno io pure di aria montana e di quiete,
pensai di salire a Lanzo d'Intelvi dove conoscevo l'Hôtel Belvedere, comodo, elegante,
ammirabilmente posto in una pittoresca solitudine, frequentato quasi
esclusivamente dagl'Inglesi. Vi avrei potuto lavorare in pace.
Vi andai il 28 giugno, per Argegno. Trovai la
valle così fresca e verde, l'aria così pura! Mi pareva di respirare libertà,
innocenza e vita. Il mio vetturino si fermò alcuni minuti nel paesello di
Pellio, poche casuccie fra i castagneti, con le finestre fiorite di garofani.
Discesi alla fontana. Una giovinetta bellissima, dalle mani abbronzate e dalle
braccia di latte, stava attingendo acqua e me ne offerse. Le chiesi se l'acqua
era buona. Rispose nel suo dialetto:
- La guariss de tucc i maa (guarisce
tutti i mali).
La
guardai con ammirazione. «Proprio tutti?» replicai. Ella non rispose più,
arrossì e sorrise come se mi avesse letto nel pensiero. Bevvi alla secchia
della bella giovinetta, e partendo da Pellio pensavo che forse la sua piccola
bocca, il suo piccolo cuore, le sue braccia di latte avrebbero potuto veramente
guarire ogni male. Era forse lei l'idillio che cercavo, con un poco di dramma e
di mistero? Quelle braccia così bianche non eran d'alpigiana ma di dea; λευκώλενος Ἥρη
Osservavo, salendo adagio fra le montagne, che
la natura, mia vecchia amica, dopo due anni di silenzio, incominciava a
parlarmi ancora. Bisogna essere un visionario inutile per sapere che gioia è
questa di sentirsi in istato di grazia presso i sassi, le acque o le piante. Mi
parve un segno che avrei finalmente potuto scrivere. Quando la montagna mi
parla, il primo effetto n'è una dolcezza malinconica, un molle desiderio di
sciogliermi nella vita delle cose; ma poi viene il fervore del concepire e la
facilità dello scrivere. È lo stesso effetto che mi fa qualche volta
Mendelssohn.
All'albergo non trovai lettere di Ginevra e
n'ebbi piacere. Io che quando ho amato non ho mai amato più forte che
nell'assenza, adesso, lontano dalla signora, non la sentivo più. Non v'era
molta gente. Alla table d'hôte delle sei eravamo una trentina, quasi
tutti inglesi. Io sedevo presso una bella ed elegante signora bionda, dagli
occhi orientali come il profumo di rose audacemente singolare che usava. Le
altre signore erano quasi tutte vecchie e bruttissime. Gl'italiani, non più di
quattro o cinque, avevano, fra tanto grave silenzio di esotici, un'aria assai
compunta, e mi guardavano con la evidente ingordigia di arruolarmi per le
passeggiate, le chiacchiere e il biliardo. Ciò mi metteva orrore, per cui fui
gelido con un piccolo vecchio signore, il quale, dopo pranzo, fatto un
preambolo sui miei celebri poemi (!), mi disse che lui o i suoi compagni si
trovavano molto a disagio fra gl'inglesi ed erano felici della mia venuta.
Soggiunse di chiamarsi il cavalier Tale; gli altri si chiamavano il conte Tale
e il cavalier Tal altro; il quarto non aveva titoli, ma era tuttavia una
persona molto civile. Finalmente questo povero signore mi promise di parlare al
cuoco per ottenere un po' meno plum-pudding, un po' più di rispetto alla
minoranza nazionale; e mi lasciò in pace, nè più ci siamo parlato.
Uscii a prendere il caffè sotto i tisici
ippocastani del belvedere, dove anche la mia bella vicina stava ammirando
l'infocato tramonto e, all'orizzonte, il lungo arco, la magnifica pompa lontana
della nevi eterne. Ma io non guardavo il cielo, nè le Alpi, nè lei; guardavo là
in faccia, oltre il lago scuro affondato ai nostri piedi in un abisso di
settecento metri, oltre la prima fronte erbosa della montagna opposta, uno
scoglio colossale con la sua famiglia di torrioni diroccati attorno, noto e
caro agli occhi miei da molti anni. Sono stato un fanciullo timido e
orgoglioso. A sedici anni, con la testa piena di Leopardi e di Victor Hugo, di
panteismo e di pessimismo, con un gran disprezzo esteriore dell'umanità e
un'intima disperata voglia d'esser lodato dagli uomini e amato dalle donne,
m'era venuta la melodrammatica idea di farmi seppellire lassù. Non vedevo lo
scoglio da un pezzo, esso ignorava affatto i miei stupidi amori con la signora,
e tutti i pensieri della mia adolescenza, mezzi falchi e mezzi passerotti, vi
avevano ancora il nido. V'erano ancora le mie malinconie calde, l'orgoglioso
sdegno di ciò che udivo da' miei compagni chiamar l'amore, i fantasmi femminili
che soli mi parean degni di me. Se allora mi avessero detto: t'invischierai
senz'amore, per debolezza, a una donna che ti avrà cercato senz'amore, per
vanità, avrei risposto: no, mai! E invece! Non avrei davvero meritato di giacer
solo, da poeta delle montagne, in quel sublime sepolcro.
Mi diedero una camera con due finestre al Nord.
Anche alla sera vidi lo scoglio nero coronato di stelle, che mi gittava in
faccia i ricordi della mia adolescenza pura e superba. Tentai lavorare; dalle
mie prostrazioni di spirito basta qualche volta a rialzarmi l'ala d'un verso
felice. Mi provai a disegnare una tela d'idillio, pensai alla bella giovinetta
dalle braccia di latte, alla sua fontana sul crocicchio, alle finestre fiorite
di garofani; pensai anche a Lei, mi perdoni, amica mia. Ella sa il mio metodo
di lavorare; piglio una figura vera e ci filo attorno poesia, seguendone le
forme e insieme nascondendole altrui. Ma quella sera non trovai un solo filo
fine e forte, non feci che imbrattar carta inutilmente. Mi cadde il cuore.
Cosa dice Heine? «Il mio cuore somiglia al
mare.» Io, piccolo poeta, dirò solo che il mio cuore somiglia ad una laguna misera,
senza perle nè coralli, che tuttavia ascende e ricade come il mare, ogni
giorno, per la propria natura e l'arcano influsso di qualche potenza occulta
nel cielo.
L'indomani mattina mi arrivò la lettera di
Ginevra. Mi si attendeva fra dodici giorni, dopo i quali ci saremmo trovati
soli e senza sospetto. In seguito a questo esordio venivano raccomandazioni
solenni che parevano rimproveri; mi si proibiva la menoma famigliarità. Tutto
ciò mi parve gesuitico e disgustoso e mi venne subito in mente di non andare;
ma poichè avevo ancora sei giorni di tempo, mi proposi, secondo una viziosa
abitudine, di deliberare all'ultimo momento. Intanto la svogliatezza e
l'inerzia antica mi riprendevano. Abbandonai la ricerca dell'idillio; non mi
destavano interesse nè gl'italiani, nè la bella signora bionda, nè alcun'altra
persona dell'albergo. Passavo le mie giornate vagando col cuor pesante per le
campagne, sedendo lunghe ore sull'erba ad ascoltar il vento e a contemplar i
moti lenti delle ombre. I castagni di Pellio, i prati del pian d'Orano, le gole
solitarie della Val Mara devono ricordarsi di me. Nelle mie corse non
incontravo mai nessuno; non vedevo esseri civili che alla table d'hôte,
sempre silenziosa e solenne.
La sera del primo luglio, verso le dieci, stavo
leggendo nella mia camera colle finestre aperte quando udii suonare sul cattivo
piano della sala di conversazione la
Gran scena patetica di Clementi, che ho udita
da Lei tante volte. La mano mi parve eccellente, e discesi. Suonava una signora
inglese e c'erano in sala, credo, tutti gli ospiti dell'albergo. La sala è a
pian terreno; ha una porta e due finestre sulla fronte della casa. Andai a
sedermi fuori nel buio.
La notte era tempestosa. Un balenar continuo
senza tuono batteva, di là dal lago, le nuvole nere e le creste selvagge, che,
in quei sùbiti bagliori, parevano vivere. Sul nostro capo il cielo restava
buio, restava buio l'abisso a' nostri piedi; e, quando il piano tacque, si
udirono giù nelle valli profonde tutte le campane dei paeselli. Due signore
uscirono e sedettero poco discosto da me. Non le potevo vedere, ma sentii il
profumo di rose della mia vicina. «Molto bene, non è vero?» disse questa, in
inglese. Era la sola voce femminile che conoscessi lassù.
Non vi fu risposta. Dopo brevi momenti udii
un'altra voce dir piano:
- The bells (Le campane).
Ho sempre pensato, e non so come questo strano
pensiero sia nato in me, che l'odore dell'olea fragrans possa dare
un'idea della dolcezza di quella voce. Trasalii e mi domandai dove l'avessi
udita. La signora dall'essenza di rose disse ancora qualche cosa che non intesi
e la voce dolce rispose:
- Yes, there is hope (Sì, vi è speranza).
Ebbi come un baleno interno; era la voce del mio
sogno. Mi misi a tremare, a tremare senza saper perchè, senza capir più niente,
sebbene le due voci parlassero ancora. Tre o quattro altre signore uscirono
dalla sala e tutta la compagnia s'avviò poi verso gli alberi. Io non pensai a
seguirla, avevo una indicibile avidità di esser solo. Corsi nella mia camera e
là mi sfogai.
Ero come pazzo, m'inginocchiavo a ridere e
piangere, balzavo in piedi a pregare, sentendo Iddio infinito e me niente,
stendevo dalle finestre le braccia verso il nero scoglio sovrano battuto dai
lampi, gli dicevo con trionfante gioia di volermi bene ancora perchè ne tornavo
degno. Parlavo così a voce alta e poi ridevo di me stesso, ridevo di esaltarmi
per una persona di cui non conoscevo ancora il viso; ma era un ridere felice,
pieno di fede, senza la menoma ironia. «There
is hope, there is hope» ripetevo «vi è speranza.» E poi mi coprivo il viso
colle mani, pensavo; e lei? e lei? Chi sa se aspetti anche lei, chi sa se abbia
avuto sogni, presentimenti? Che viso, che nome avrà? Poi non pensavo più a
nulla, mi riprendeva il fremito di prima. In un'ora triste dell'adolescenza,
vagando per le colline in fiore della mia patria, mi ero veduto nell'avvenire
una scura e fredda giovinezza e, sul cader di questa, uno splendido fior di
passione, improvviso come il fiore dell'agave. Ora il mio cuore batteva
«l'agave, l'agave!» Vi strinsi ambo le mani su, ansando. Credetti in quel punto
che gli occhi miei mandassero veramente luce.
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