X.
L'idea di viaggiare m'era venuta in fatto, ma
l'abbandonai subito. Mi ritirai in campagna. Mio fratello e una cognata erano ai
bagni, e Lei sa che non abbiamo vicini; mi trovai dunque affatto solo; era il
mio desiderio.
La sera stessa del mio arrivo le scrissi, Non
sapevo ancor bene, incominciando la lettera, dove l'avrei diretta, e non sapevo
neppure se fosse opportuno scrivere così presto. Le stelle e una voce interna
mi dicevano «scrivi, scrivi!» Appena prendevo la penna in mano mi assalivano i
dubbi, la pesavo ancora. Finalmente le tempeste del sì e del no presero insieme
un solo furioso corso. La penna non poteva correr tanto. Raccontai questi miei
dubbi, queste paure, la voce delle stelle che vedevano in quei momenti lei e
me, la prepotente voce interna. Dissi che avevo potuto compiere il sacrificio
di non seguirla, solo per la mia ardente fede che Dio ci avrebbe uniti. Ora lo
confesso, la mia fede soffriva spaventose eclissi! Cercai dirle quale cammino
avesse fatto l'amore in me dopo la nostra separazione, come avesse oscurato
ogni altro sentimento tranne il sentimento della Divinità, col quale si
confondeva, perchè lei, Violet, era una parola di Dio, susurratami nell'ombra.
Finalmente le dicevo che, come il mio presente e il mio avvenire le
appartenevano, pure doveva appartenerle il passato, e che volevo
raccontarglielo tutto.
Così feci in più lettere. Scrivevo ogni giorno,
e sempre le impressioni del presente erano miste alla storia del passato. Non
spedivo lo scritto che una volta per settimana e dirigevo le lettere a
Norimberga. Non conoscevo Norimberga, ma avevo degli amici a Monaco e mi venne
in mente di pregarli ad informarsi se dimorassero colà tre fratelli Yves,
industriali. Seppi così che vi dimoravano veramente e non dubitai che le mie
lettere non capitassero, girando per lassù, a miss Yves.
Scrivevo, di solito, a tarda notte. Con quale
indicibile desiderio, con quale impeto le aprivo il mio cuore, che voluttà era
di dire a lei antiche colpe, antiche miserie di cui prima non avevo quasi osato
parlare a me stesso! Ospiti amari della mia coscienza si levavano uno dopo
l'altro ed uscivano. Qualcuno vi dormiva in fondo, dimenticato. Si svegliava a
un tratto, tocco da questo fuoco nuovo dell'animo, si rizzava, mi batteva. Un
lampo di dolore, un impeto di lotta, una vampa vincitrice; era scritto, era
fuori di me per sempre. Che ristoro! E dicevo anche il poco bene che mi pareva
aver fatto in qualche occasione; lo dicevo colla gioia d'un bambino che dopo
aver confessato un grosso fallo si affretta a dire, tutto palpitante, tutto
sorridente di speranza, le piccole opere buone che pure ha. Talvolta, finita la
lettera, mi correva su dal petto al volto un riso come d'infermo che
rapidamente risana, mi si bagnavano gli occhi. Poi giungevo le mani, mi dicevo
«crederà, crederà» andavo a guardar le stelle, a ripeter loro «crederà, guarirà
con me.»
La mia vita esterna si dice in due parole, ma la
mia vita interna è un fortunoso dramma, che mi occupò molte lettere. Miss Yves
non mi rispondeva e non la richiedevo nemmeno di rispondermi. Volevo solo
preparare un futuro momento, poichè non sapevo dove, non sapevo quando, ma
certo un giorno sarei andato a tentar l'ultima prova, a chiederle, con la mia
voce, di esser mia.
Quand'ebbi detto tutto della mia vita sino
all'incontro con lei, le mie lettere diventarono anche più gradevoli a
scrivere. Ella non poteva specchiarsi nelle acque torbide del mio passato; solo
ne avevano qualche luce i due sogni! Ma ora l'immagine sua viveva in me,
pensava ne' miei pensieri, amava nel mio cuore, ogni giorno più intensamente,
tanto che ne stupivo io stesso, dubitavo talvolta di amare una miss Yves
ideale, distinta dalla vera, e provavo il bisogno, per sincerarmene,
d'immaginar la cara persona, l'amor felice, perdendone quasi il lume degli
occhi e il respiro. Oramai parlarle di me era come parlarle di lei stessa.
A mezzo l'autunno mi venne in mente di comporre
un romanzo. All'idillio non pensavo più, tra per l'essermi stato suggerito
dall'altra signora, tra perchè trovandomi la testa piena di motivi non
solamente patetici ma anche comici, il verso m'avrebbe fatto impedimento. Ne
scrissi subito a Violet; le scrissi, mano a mano, le prime idee confuse che mi
vennero e tutti i pentimenti per cui passarono, le ritrassi le figure vere da
cui volevo prendere i miei personaggi. Oggi pensavo un modo di aggruppare e di
sciogliere i nodi della azione, domani ne pensavo un altro. Le scrivevo tutto.
Sapevo di guastare così l'effetto futuro del libro sopra di lei, ed ero appunto
felice di sacrificare una soddisfazione perchè ella sapesse tutto tutto
dell'anima mia, i miei tentennamenti, le aridità della fantasia, la parte del caso
nelle mie trovate artistiche. Volevo essere amato senza fine, ma l'idea di
farmi ammirare da Violet più che non meritassi, mi metteva orrore come un
inganno.
Dopo un mese d'incessante lavoro fantastico il
mio manchevole ingegno non era ancor giunto a concepire un intero piano di
romanzo che mi soddisfacesse. Non ne avevo in mente ben chiari che i primi tre
o quattro capitoli. Intesi che ostinandomi a immaginare tutto il romanzo di
primo getto, avrei finito con darmi per disperato, e mi buttai addirittura a
scrivere, nella fiducia che, piantata bene l'azione, si sarebbe poi svolta,
anche più naturalmente, da sè. Trascrivevo regolarmente il mio lavoro per
Violet e glielo mandavo ogni settimana. Alla fine del quarto capitolo ebbi un
assalto di malinconia nera. Incominciò col dubbio di non saper continuare; il
dubbio diventò terrore; poi anche i capitoli scritti mi parevano assurdi,
gelidi, pessimi; poi mi figurai di perdere l'ingegno, di non sapere, di non
poter più niente. Mi persuasi che se Violet non si era risolta di mandarmi una
sola parola, era per questa indegnità dell'opera mia. Le scrissi come soffrivo
e caddi al fondo dell'abbattimento. Per due settimane tralasciai ogni
corrispondenza.
Il 12 dicembre mi arrivò da Napoli una lettera
con l'indirizzo di pugno di miss Yves. Conteneva la vetta d'una foglia di palma
e una violetta bianca; nient'altro. Mi sentii mancare di gioia, appena ebbi
forza di baciar la lettera, il fiore, l'aria odorosa.
Ebbra di fuoco, ebbra di
luce l'anima
Spande l'ali e in tempesta
agita il vol.
Era ancora così. Tutto era ritornato in un
lampo, la fede in me stesso e la potenza. I miei capitoli mi ridiventarono vivi
e belli, e quando pensavo al futuro cammino del romanzo, non lo vedevo ancora
tutto, no, ma un lampeggiar continuo mi mostrava tante scene, tante fila
d'intreccio. Ripresi tosto il lavoro, e so che non ebbi mai una vena
altrettanto copiosa. Non parlo della risposta che feci a Violet sull'istante.
Bastava veder quei caratteri per intender la furia della mia gioia.
A mezzo dicembre ritornai in città. Che inverno
fu quello! Studiavo accanitamente di tutto. Non era la prima volta, per verità,
che spaventandomi di larghe, vergognose lacune del mio sapere, non certo
sospettate dal mondo, m'infuriavo a studiare. Divorai in pochi mesi la Storia
del Papato di Ranke, tutto Alfieri, tutto Mickievicz, non so quanti volumi di
poesie popolari italiane, buona parte del Wilhelm Meister di Goethe, i Principles
of Sociology di Herbert Spencer e le commedie di Plauto. In pari tempo
m'era imposto un canto di Dante, cento versi di Virgilio e cinquanta versi
dell'Odissea al giorno. Faticavo immensamente, non trovando ristoro che nelle
lettere a Violet, nel romanzo e in Omero. Benchè sapessi pochissimo di greco,
Omero mi riposava come un bagno in una grande acqua pura e limpida. Andavo pure
in società e facevo delle apparizioni in teatro. Lei ricorderà che non mancavo
mai ai Suoi mercoledì. Visitavo qualche volta, per le apparenze, la mia antica
fiamma. Credo che avesse nell'oscuro miscuglio del suo cuore e della sua
coscienza un caritatevole odio per me; ma non me ne curai, benchè sentissi
un'ostilità sorda in lei come nelle persone cui era più legata; e indovinassi
che sparlavano dei miei libri e di me. Ho sdegnato sempre, e allora più che mai,
occuparmi di cose simili. Forse avevano ragione, ma se Violet mi amava e mi
mandava una palma, cosa era questa gente per me? Se mai ho pensato ad essi ed
alle loro accuse fu con una specie di gratitudine, essendo salutare all'uomo, e
sopratutto a noi poeti, razza vanitosa, di sapere che tutta la diretta lode
umana di cui c'inebbriamo, è mista di menzogna, perchè, comunemente, lodando in
faccia uno scrittore o si mente del tutto o si mente in parte. Sono io stesso
affatto senza colpa? Omnis homo mendax, ne sono convinto, e quando ne ho
la riprova nelle acerbe censure che mi si fanno alle spalle da chi m'ha lodato
in faccia, godo di confermarmi nel vero, godo di costringere il mio orgoglio a
considerar le ragioni dei detrattori, prendo il buono, disprezzo il resto e poi
sento la terra più salda sotto i miei piedi, l'ingegno più libero, il cuore più
forte.
La gente mi trovava cambiato. Si facevano
commenti sulla mia rottura con la signora, non si poteva credere che non avessi
un'altra amante, si arrischiavano supposizioni, si scoprivano false. Qualche
signora civettava un pochino con me e smetteva presto, giudicandomi di
ghiaccio. Mio fratello e mia cognata non erano meno sorpresi de' miei modi, del
mio umore, del mio aspetto istesso. Dapprima mi fecero qualche interrogazione,
poi vedendo che non le gradivo o che rispondevo sulle generali, non parlarono
più. Credo che mia cognata - glielo perdono - abbia persino osservato la
calligrafia delle lettere che mi pervenivano, onde vedere se qualche mano
ignota mi scrivesse spesso.
In principio d'aprile riseppi da' miei amici di
Baviera che il signor Yves era atteso a Norimberga verso la metà di maggio.
Giudicai venuto il momento di vedere Violet. Le scrivevo sempre, le scrivevo
tutto; era leale di tacerle il mio proposito per riuscire più facilmente
nell'intento, per evitare un rifiuto e sorprenderla? Non era leale; scrissi che
partivo.
Non partii subito. Aspettai per otto giorni una
lettera di miss Yves, che non venne. Il 15 aprile ero a Napoli.
Non ci voleva una fede meno salda della mia per
mettermi in Napoli a quella ricerca, senza un aiuto al mondo. Dopo otto giorni
di corse inutili, di speranze e di angoscie, trovai una traccia,
inaspettatamente, al Museo Nazionale. Vedutevi alcune signore intente a copiare
quadri, mi venne in mente di domandare se miss Yves ne avesse pure chiesto il
permesso.
Così potei scoprire che una miss Violet Yves
aveva infatti frequentato il Museo dal dicembre al marzo. Uno dei custodi finì
con ricordarsi di lei e mi assicurò che da oltre un mese non si vedeva più.
Supposi allora che fosse a Roma presso i suoi parenti, e partii tosto per Roma.
Ricorderò sempre quanto palpitai alla stazione
di Albano, vedendo alle spalle una giovane signora, alta, bionda, che camminava
come lei. Non era lei. Salì nel mio coupè e vidi che somigliava un poco a
Violet anche in viso. Non so come la guardai; certo il mio sguardo ebbe qualche
cosa di singolare, perchè ella arrossì e si mise tosto a discorrere co' suoi
compagni. Era tedesca, bellina, aveva una voce piuttosto aggradevole e trovava
che il lago di Nemi era märchenhaft. Io trovavo in lei un'ombra di
Violet. Gentile straniera, avete indovinato perchè vi guardavo? Ella rispondeva
talvolta al mio sguardo senza civetteria, con una limpida meraviglia. Quando non
guardavo lei, guardavo col cuore oppresso il solenne deserto e le rovine
spettrali della Campagna. Mi si affacciava, mi tornava sempre, malgrado me
stesso, l'idea della morte di miss Yves, di una lunga vita deserta e gelata.
Corsi al cimitero dei protestanti. Non dubitavo
che miss Yves l'avesse visitato. Interrogai il custode, ma non ne potei spremer
niente. Gliela descrissi, lo pregai di fare attenzione ai visitatori, caso che
la signorina ci capitasse. Mi pareva probabile che volesse rivedere la pietra
di Shelley prima di partire per la Germania. A Roma non avevo che questo fioco
lume, non sapendo il nome dei parenti di lei, e andavo ogni giorno a Porta San
Paolo, trovavo ogni giorno la stessa risposta sconfortante. Frequentavo il
Pincio, la chiesa anglicana, tutti i luoghi ove potevo sperare d'imbattermi in
lei. Era un vivere tormentoso, un continuo crucciarmi di non poter essere
contemporaneamente dappertutto, di perdere forse la mia fortuna per un minuto
di ritardo o d'anticipazione. Correvo sempre, la sera mi sentivo morire di
stanchezza e l'implacabile cuore mi martellava ancora: «va, va!»
Intanto era venuta la fine di aprile. Forse miss
Yves aveva affrettato la sua partenza dall'Italia e io non potevo durare a
quella febbrile fatica; fermai di cessare dalle mie vane ricerche e di partire
per Norimberga. In questo tempo avevo scritto a Violet due volte; la prima da
Napoli, la seconda da Roma. La scongiuravo, s'era vicina a me, di rivelarsi.
Nella seconda le indicavo pure la pietra di Shelley per luogo di convegno. Per
designare il giorno avevo calcolato largamente il tempo necessario alle lettere
per andare a Norimberga e tornare. Stetti nel Camposanto quattr'ore ad
ascoltare il silenzio mortale, a vedere ondeggiare nel vento le rose banksiane
sulla torre in rovina dietro Shelley, a leggere e rileggere:
Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange.
Immaginai che i versi arcani incisi sulla tomba del
poeta parlassero del mio amore. Fiorirebbero solo, chi sa con quale splendore
strano, nel mondo promesso cui occhio mortale non vide. Come non mi bastava una
così lontana, incerta speranza, con che disperata passione abbracciavo in mente
la donna mia, la sposa mia viva, palpitante di questa vita che muore, la
difendevo, stringendola sul mio petto, contro l'ignoto, chiedevo a Dio, per
pietà, un giorno, un'ora sola!
Ella non venne. Partii col treno della notte per
l'Alta Italia, e pochi giorni dopo, il sette maggio, correvo sulla via del
Brenner.
|