XIII.
L'indomani mattina uscii di casa alle cinque e
mezzo. Piovigginava, la nebbia velava, in fondo alla contrada, il torrione
rotondo del Frauenthor. M'incamminai verso il posto dove avevo incontrato
Violet. Non si vedeva anima viva, il caffè Sonne era tuttavia chiuso, si udiva
solo la quieta voce della vicina fontana di bronzo. Per andare nella
Burgschmiedstrasse dovetti attraversare la città grigia di nebbia, deserta,
fantastica nella sua venerabile vetustà; vidi fra ponti potenti un fiume
scarso, avvallato entro due argini di casupole nere, coronati di torri e di pinnacoli
persi nei vapori; vidi squisiti monumenti intatti di un genio morto; vidi
santi, frati, guerrieri di quel tempo antico, pietrificati sugli spigoli delle
case, infissi sopra le porte, sui parapetti delle logge, sugli esagoni balconi
ogivali sporgenti dalle facciate. Pareva che le generazioni umane fossero
spente e il sole oscurato da lungo tempo, che quelle vie fossero una visione
magica del passato, ed io un'ombra.
Trovai la fonderia Yves poco fuori del
Thiergärtnerthor. Un tale, fra l'operaio e il soprastante, mi disse che gli
Yves abitavano nella Theresienstrasse, e m'indicò pure il numero della casa.
Gli domandai se il padrone sarebbe venuto, più tardi, alla fonderia. - Quale? -
mi rispose. - Sono tre fratelli. - Allora parlai di quello ch'era stato in
Italia e seppi ch'era tornato con la signorina da venti giorni, che non stava
troppo bene, che veniva poco alla fonderia, ma che all'indomani vi sarebbe
venuto certo. Chiesi se all'indomani non intendesse invece partire per Monaco.
Quegli affermò che era impossibile. Prima di partire mi arrischiai a
domandargli se gli operai non preparassero un regalo alla signorina per le sue
nozze; mi disse di non saperne niente. - Sapete almeno - soggiunsi - quando si
fa il matrimonio? - No, - rispose con indifferenza - questo non mi riguarda.
In dieci minuti fui nella Theresienstrasse,
passando accanto ai viali ombrosi della Burg, dove forse Violet soleva
passeggiare, e trovai, presso una fontana, la casa indicatami. Era elegante,
nello stile del Rinascimento tedesco, con i balconi sporgenti e i pinnacoli dal
cappello chinese sugli angoli del tetto. Due finestre vicine, al primo piano,
avevano fiori. Erano quelle di Violet? Stava ella forse scrivendo a me? Chiesi
a una donna, che attingeva acqua alla fontana nella sua gerla di metallo, se
quella fosse la casa Yves. Non lo sapeva. La pioggia cadeva ora più fitta e
tutte le finestre restavano chiuse. Passai e ripassai davanti alla casa, non
sapendo se fosse bene o male di farmi vedere da Violet, non potendo staccarmi dal
posto. Finalmente vidi un friseur aprire il suo gabinetto, ed entrai,
sperando cavar qualche cosa da costui; un giovinotto in abito nero ed occhiali,
che pareva uno studente di metafisica. Anche nel salutarmi al mio entrare aveva
l'aria di affacciarsi con pena e stupore dall'origine delle idee a questo basso
mondo, male rischiarato con poco chiaror di nuvole e una sottile fiammella di
gas. Ne estrassi a stento che la casa vicina apparteneva ai fratelli Yves; che
gli Yves erano celibi e tenevano presso di sè una nipote, la quale doveva
sposarsi presto ad un tale professore Topler; che il professore Topler aveva
vissuto parecchi anni a Norimberga ed insegnava attualmente nel ginnasio di
Eichstätt. Appresi altresì che il Topler toccava la quarantina, ch'era piccolo
e grosso e portava i baffi. Gli stessi occhiali del flemmatico parrucchiere mi
parevano stupefatti; certo non gli era mai toccato discendere dalla metafisica
per un avventore altrettanto curioso.
Eichstätt? Il nome non mi era nuovo; mi sembrava
averlo letto il giorno prima sulla fronte di una stazione solitaria fra colli e
boschi, e fors'anche udito dai miei amici di Monaco. Uscii nella strada assai
soddisfatto di questo primo raggio di luce. Pioveva ancora, nessuna finestra
della casa Yves si era aperta. Pensai di ritornare all'albergo e di cercare
Eichstätt nel mio Baedeker.
Vi trovai ch'è una piccola città molto antica, a
cinque chilometri dalla sua stazione sulla linea Norimberga-Monaco. Certo miss
Yves sarebbe andata ad Eichstätt, l'indomani; certo vi sarei andato anch'io.
Mentre stavo pensando come spiegherei, occorrendo, la mia andata colà,
bussarono all'uscio e un cameriere venne ad avvertirmi che nella sala da pranzo
c'era persona dalla quale potrei avere le informazioni chieste inutilmente la sera
prima. Discesi e trovai un signore dall'aria franca e cordiale, che stava
mangiando e conversando col padrone. Mi rivolse subito la parola per dirmi che
conosceva perfettamente gli Yves, padroni di una fonderia, onestissime persone;
non facevano buoni affari come una volta perchè la costruzione delle macchine, der
Maschinenbau, era in decadenza, a Norimberga; ma si reputavano tuttavia
solidi. Capii che m'aveva preso per un viaggiatore di commercio. Egli stesso si
avvide tosto che desideravo altro, e mi prevenne chiedendomi se volessi
informazioni personali. Risposi con la maggior disinvoltura possibile di non
tenerci gran fatto. Avevo conosciuto uno dei fratelli Yves in Italia, e
passando da Norimberga m'era venuta la curiosità di saperne qualcosa. Il signore
me ne fece allora molti elogi stando sulle generali e soggiunse che il viaggio
d'Italia non aveva rinfrancata la sua salute. Quando seppe che restavo poco a
Norimberga, e che non avevo intenzione di visitare gli Yves, ne parlò più
liberamente. Il discorso arrivò subito a Violet. Il mio interlocutore non le
aveva parlato che due o tre volte, ma n'era entusiasta e capii bene che la
teneva di gran lunga superiore per ingegno, coltura e sentimento, agli zii, e
che, secondo lui, ella non poteva avere, in casa Yves, una buona respirazione
morale. Gli zii erano galantuomini, ma troppo nel Maschinenbau; alquanto
bisbetici, per giunta, e d'idee anguste. Il padre di Violet aveva fatto il
pittore, si era accasato in Italia, ed era morto in Inghilterra poco dopo la
sua giovane sposa romana, lasciando non ricca l'unica bambina. Gli zii
l'avevano raccolta.
Ora miss Yves era sui venticinque anni. Si era
detto che, parte per la sua infermità, parte per una certa storia di anni
addietro, avesse rinunciato al matrimonio; poi un bel giorno fu annunciato che
sposava il signor Topler. Questo signor Topler era un professore molto stimato,
molto rispettabile, ma non troppo adatto, pareva, ad una giovine signora di
gusti squisiti come miss Violet. Insegnava nel ginnasio di Eichstätt. Il
matrimonio, stato differito più volte, doveva celebrarsi alla fine di luglio,
immediatamente dopo la chiusura delle lezioni.
Tutto ciò mi fu raccontato a riprese
dall'incognito signore col quale avevo finito per fare colazione, onde
agevolare il dialogo. Quando disse una certa storia di anni addietro, mi
sentii male al cuore. L'avevo inteso subito che la tristezza di Violet era il
guasto lasciato da una gran tempesta di passione; lei stessa, parlando meco e
scrivendomi, aveva alluso a un simile passato; pure soffersi come se prima vi
fosse stata in me una irragionevole speranza che Violet non avesse detto il
vero. Non osai chiedere una spiegazione lì per lì. Si parlò d'altro, dell'arte
a Norimberga, di Veit Stoss e Krafft, del Museo germanico. Il mio interlocutore
mi disse che se volevo avere un'idea del professor Topler guardassi, recandomi
al Museo germanico, l'antico frate di pietra ritto sul canto della
Karthaüsergasse. Allora avventurai in tono indifferente una domanda sulle
vicende passate di miss Yves. - Cose vecchie, - rispose colui, - cose tristi.
Troppa fede negli uomini!
Egli aveva finita la sua colazione, e con queste
parole si alzò, lasciandomi l'animo ancora più amaro e turbato di peggiori
pene, di peggiori sospetti. La fantasia non mi dava pace, mi mostrava
continuamente immagini che non poteva nè spengere, nè sopportare. Dovetti
soffrire molto, stancarmi il cuore prima di trovare quasi rinnovata di
freschezza, di dolcezza, di ristoro, almeno per qualche tempo, l'idea che
adesso Violet amava me.
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