XV.
La lettera di miss Yves mi aspettava
all'albergo. È la sola che non ho conservata. La bruciai dopo averla letta o
riletta infinite volte, in un impeto d'orgoglio, di gelosia, non potendo
sopportare presso a me certe parole che mi dovevano guarire col ferro e col
fuoco e solo mi mettevano una febbre amara, che conoscevo, che avevo prevista,
che tanto più m'irritava quanto più ero sicuro di vincerla. Non ricordo
l'esordio troppo bene. Miss Yves cominciava, mi pare, con attribuire in gran
parte alla sorpresa il suo turbamento della sera precedente, e parlava poscia
con gratitudine delle lettere in cui le avevo aperto l'animo mio: prometteva
serbarne affettuosa memoria. Non dimenticai una sola delle parole che seguivano
«Vi hanno per me invincibili ragioni di non
andare più oltre. Se lo facessi, mi risospingerebbero indietro i rimproveri del
mio passato, l'impero del presente, le minaccie dell'avvenire.
«Mi sono convinta, dopo una notte di riflessioni
non piacevoli, che devo essere ancora più dura di così. Fin da quando
c'incontrammo la prima volta con simpatia ebbi lo stesso concetto della mia
situazione che ne ho in questo momento. Io fui debole quando Le inviai quel
fiore da Napoli e fui debole anche iersera. Devo impedirmi simili debolezze per
l'avvenire, devo pregarla di considerare cessata ogni relazione fra noi, meno
che nella memoria. Se Ella non accetta e cerca vedermi ancora dovrò mostrare
d'aver perduta anche la memoria di Lei.
«Non è vero ch'Ella non m'infliggerà un simile
dolore? Ciò che Le ho scritto è la mia inflessibile volontà. Se questo può
temperare la sua passione, sappia che io ho amato anni sono come non potrò
amare mai più e mi sarebbe vergogna se lo potessi. Ella non saprebbe rendermi nè
felice, nè infelice quanto un altro mi ha resa.»
La mia mano vibrava di commozione tenendo questa
lettera in fiamme. Erano parole false che s'incenerivano, era un'artificiosa
freddezza che ardeva; tutte queste inutili menzogne sparivano fra lei e me. E se
hai amato, le dicevo abbracciandola in mente con passione e con ira, se hai
amato altri prima di me, cosa m'importa? Puoi tu sapere, tu che mi ami, quanto
ti renderò felice? E qual è, in nome di Dio, il passato, qual è il presente,
qual è l'avvenire che può toglierti a me?
Risposi sull'atto, così:
«Ho bruciata la Sua lettera. Un giorno, quando
Iddio ne avrà uniti, Le potrebbe dolere ch'io la avessi serbata.»
Recato questo biglietto, di mia mano, alla
posta, mi sentii sufficientemente tranquillo e andai a vedere la città.
Per verità pensavo molto più al momento in cui
miss Yves mi avrebbe veduto alla stazione, al momento in cui mi avrebbe udito
nominare Eichstätt, che ad ammirare la vecchia Streusandbüchse des deutschen
Reiches, come i tedeschi chiamano Norimberga. Perchè mi proponevo far
sapere a Violet il più presto possibile che andavo a Eichstätt, che conoscevo
la meta del suo viaggio. Non cercai vederla; appena nel salire da S. Sebaldo
alla Burg guardai un momento, dalla bocca della Theresienstrasse i balconi
eleganti di casa Yves. Più tardi, andando al vecchio cimitero di S. Giovanni,
dove dorme Alberto Dürer, passai dalla porta della fonderia senza nemmanco
guardarvi dentro.
Pensavo più all'amore che all'arte. Confesso tuttavia
che qualchevolta l'energia e la grazia di un antico artista mi esaltavano, mi
traevano a sè, non sopra l'amore, ma sopra le cure e le incertezze presenti.
Davanti al Schönen Brunnen, al tabernacolo di Adamo Krafft nella
Lorenzkirche, alle porte insigni della Sebalduskirche mi assaliva la gioia
della bellezza, mi gloriavo d'essere io puro artista, pensavo felice che
l'amore di Violet avrebbe saputo trarre anche da me un fuoco d'idee e di opere.
L'altra signora si diceva gelosa della Musa; ma Violet! Negli amori e
nell'anima mia Violet vedrebbe sè, sempre sè, dappertutto sè, come il sole
potrebbe veder sè in ogni cosa vivente. Quell'altra povera donna parlava di
gelosia perchè non sapeva come si ama.
Mi ricordo che quando salii sul Vestner Thurm
pioveva, folate fredde di vento e pioggia entravano per le finestre senza vetri
in quella stamberga a tetto, dove il custode della torre indicava placidamente,
con la pipa, le altre torri, le chiese, i monumenti della città, poi le nebbie
lontane, nominando con gran sicurezza paesi invisibili. Gli domandai da qual
parte fosse Eichstätt. Quegli ripetè sorpreso - Eichstätt? Lei dice Eichstätt?
- e, steso il braccio da una finestra, si diede a menar di taglio la mano verso
il Sud, come chi dice un lungo, lungo cammino. Rimasi lì trasognato a guardare
senza veder niente, senz'accorgermi del vento e della pioggia che mi battevano
in viso.
|