XVII.
Attribuivo il malessere di miss Yves alla sua
emozione e allo sforzo di reprimerla! per cui le mie angustie non erano senza
molta speranza che ella si rimettesse prontamente. Soletto in una camera
d'albergo, andavo pensando alla mia situazione. Quando potrei veder Violet?
Quando sarebbe bene di parlare al dottor Topler? Perchè intendevo fare la mia
confessione a lui; ciò che gli avevo udito dire del matrimonio di suo fratello
m'inanimava. Pensai pure a casa mia dove non avevo ancora scritto, alle
meraviglie che farebbe mio fratello vedendosi arrivare una lettera da
Eichstätt; pensai agli uffici pubblici che tenevo nella mia città e che avrei
dovuto trascurare se l'attuale incertezza fosse durata lungamente. Me ne
doleva, ma mi dissi che in quel tempo, più o meno breve, si sarebbe deciso che
la mia vita avvenire avesse a salir molto in potenza o ardore di opere buone, o
molto a discendere. Così tranquillai la mia coscienza, com'è sempre il primo
studio di ciascuno che la sente inquieta; e quantunque il modo che tenni fosse
dei più volgari e fallaci, posso affermare di avervi portato una fede profonda.
Il bisogno di parlare a Violet e ch'ella sapesse
un giorno quali fossero stati, dopo il nostro incontro, i miei pensieri e il
mio cuore, mi fece scrivere in certo quaderno, mio fedele compagno, quel che
segue:
«Eichstätt, albergo dell'Aquila Nera,
11 maggio 1872.
«Cara, sono ancora con te. Chiudo gli occhi e
costringo l'anima mia ad uno slancio, il più intero e veemente. Forse mi senti,
ne hai ristoro. Quanto è debole lo spirito umano! Non posso durare in questo
sforzo, sono ripreso dalle sensazioni del presente, e ciò mi rattrista come se
dentro a me tante ali cadessero. Dovevo dire: quanto è debole il mio spirito.
Ma solo adesso mi avvedo che la vanità egoista ha voluto dire in quell'altro
modo.
«Sono debole di mente, sono vano. Il mondo non
lo crede, ma che m'importa del mondo? A te, a te lo dico, a te che mi ami. Mi
tormenta l'idea che tu non sappia, malgrado le mie lettere, quanto sia povera e
inferma l'anima mia. Che dolcezza, che infinito riposo quando ti avrò detto
tutto tutto, e m'amerai ancora! Sarà come un'ombra della vita ventura, dopo
l'ultimo perdono.
«Dio, non oso quasi dirlo a me stesso! Vedo te
che rileggi queste linee dopo lunghi e lunghi anni felici, quando non avrai più
di me che la memoria e la speranza. È questo il posto d'una lagrima tua?
«Palpito, fuoco, amor
diventa verso!
Entra nei dolci occhi di
lei, va immerso
Nel fedele suo cor,
sciogliti allora,
Torna palpito, fuoco,
amore ancora.»
Più tardi uscii dall'albergo, non senza la
lusinga irragionevole d'incontrar chi venisse dal Parkhaus; non vidi alcuno.
Prima di uscire avevo chiesto dove abitasse la famiglia Treuberg. M'indicarono una
casa del Rossmarkt, piccola, bassa, graziosa; in fondo alla via si leva sopra i
tetti il dorso verde di un colle. Non ci vidi altro segno di vita che le
finestre del primo piano aperte. Tornando per la Residenzstrasse, sostai nelle
ombre di un giardino ad ascoltar la voce blanda di una fontana, l'unica voce
della strada deserta. Era domenica e me n'ero dimenticato. Mi venne allora il
pensiero che l'uomo non dovrebbe lasciarsi signoreggiar così dall'amore, e mi
sovvennero le parole di un libriccino che dai venticinque anni in poi io porto
meco ovunque vado, gli Essays di lord Bacon. Mi dissi però tosto che le
parole del Saggio sull'amore non facevano per l'amore mio, destinato a
suscitar il fiore dell'agave. Allora tutto era tumulto, tutto era discordia nell'anima
mia, tutto era fervore di una trasformazione che altri vi operava, che rendeva
attonito me stesso, mentre sentivo in me il germinar oscuro di tante idee, di
tanti sentimenti nuovi e persino gli occhi pareva che cominciassero a vedere in
un modo diverso.
Verso sera uscii nuovamente e combinai il dottor
Topler che veniva appunto ad annunziarmi il felice arrivo di miss Yves, la cui
indisposizione era stata di breve durata. Mi domandò se mi trovassi bene all'Aquila
Nera e mi propose di accompagnarlo a casa sua.
- Lei mi piace molto, signor poeta - diss'egli ex
abrupto. - Cosa diavolo è venuto a fare ad Eichstätt? - Come? - soggiunse,
vedendomi esitare. - Lei non domanderebbe questo ad un amico? - Credo - risposi
- che Le dirò perchè sono venuto ad Eichstätt, ma non adesso.
Il dottor Topler si piantò, come un quadrupede
curioso, su i due piedi, la canna e l'ombrello, torcendo in su il viso a
guardarmi senza dir nulla; e riprese la via.
Egli alloggiava con suo fratello, presso al
monumento del vescovo S. Villibaldo. Volle che salissi - Mio fratello sarà a
casa Treuberg - diss'egli. - Aspettava me pure a prendere il thè, ma non ci
vado. Non posso sopportare nè il thè nè il padrone di casa. Ho capito
stamattina che Lei ama molto la musica e voglio farle sentire della musica
italiana.
Non potrò mai dimenticare la figura del
vecchietto curvo che portava il suo lungo naso a destra e a sinistra sopra la
tastiera, dietro al moto composto e agile delle mani. Quelle dita scarne,
aggrappate come uncini ai tasti, si discorrevan sotto, non parendo quasi
muoversi, una musica quieta, legatissima, serena con qualche punta di affetto e
di scherzo.
Ogni tanto esclamavo - bello! - ed egli rideva
muto, suonando; poi diceva suonando sempre - Sa di chi è? Sa di chi è? - Gli
nominavo qualche nostro maestro antico. Rideva, suonava e non rispondeva.
- Toplerus - mi disse quand'ebbe finito
il pezzo. - Toplerus senior, organista di villaggio.
Credo di avere interamente conquistato il suo
cuore quella sera. La sua musica, così bella, non era originale; non riesce
difficile a un compositore d'ingegno che abbia dimestichezza con le opere dei
nostri primi classici scrivere in quello stile per modo da ingannar un
dilettante; ma io, preso così alla sprovveduta, ne rimasi stupefatto. Topler ne
era felice e mi fece udire non so quante suonate e toccate.
L'ultimo pezzo fu uno scherzo capriccioso intitolato Nonnenschlacht -
Battaglia di monache - che Topler mi commentò suonando. Faceva oramai buio.
Quando tacquero le ultime note6 gravi del pezzo che figuravano i
rimbrotti rauchi della vecchia badessa e che Topler accompagnava con certi
sordi abbaiamenti orribili, osai pregarlo di chiarirmi un dubbio, di dirmi se
fosse sacerdote.
- No - rispose molto gravemente - ho voluto
diventarlo un giorno e non ne fui degno.
Più di così non mi disse e più di così non potei
saper mai, neppure in seguito.
Egli fece portare un lume e il caffè;
immaginando di offrirmi uno squisito regalo. Il caffè, per verità, era
detestabile, ma non mi pareva vero di legarmi sempre più con Topler, il quale
mi confessò alla sua volta ch'era felice di conversare con un italiano. - Con
Lei mi accordo - diss'egli - più che con parecchi dei miei compatriotti.
Poco dopo arrivò suo fratello da casa Treuberg.
Miss Yves stava oramai bene; tuttavia il fidanzato pareva assai pensieroso e si
ritirò quasi subito. Io mi alzai, ma il mio vecchio amico non mi permise di
partire. Egli era venuto osservando suo fratello con l'attenzione di un padre e
non sapeva nascondere le sue angustie. Mi disse che temeva suo fratello non si
sentisse bene, e mi chiese licenza di andargli a parlare un momento. Quando
ricomparve aveva una faccia piuttosto dispettosa che triste.
- Qualchecosa di male? - diss'io.
-
Oh no no, eine alte Geschichte, storie solite.
Si tacque entrambi un poco, e poi Topler mi
lasciò finalmente andare.
Prima di ritornare all'albergo passai sotto le
finestre illuminate di casa Treuberg, e guardai lungamente la porta dove avevo
oramai deciso di entrare all'indomani.
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