XXXIX.
Adesso è la cara, nitida Heidelberg che mi vien
su dal cuore. Si va dall'Hôtel Victoria al Castello per la Wolfshöhle cogli
amici nostri che hanno proposta e diretta questa gita di tre giorni.
Che ombre quiete, che verde odoroso, che musica
di primavera in quei boschi profondi della collina, dove tanti viali salgono,
girano, s'incrociano, si perdono nelle solitudini e mostrano ai crocicchi
tacite indicazioni di luoghi invisibili!
- Fairyland - mi disse Violet,
sorridendo. - Sì - risposi macchinalmente - Fairyland. - E mi passò il
cuore un presentimento del tempo in cui quell'ora sarebbe lontana nella mia
memoria, vi diventerebbe visione d'un Fairyland goduto un momento,
perduto per sempre. Violet mi guardò.
- A che cosa pensi? - diss'ella.
- A niente - risposi.
Ella si dolse e si rise di me ad un tempo; ma
poi mi disse sottovoce:
- Ho visto che hai pensata una cosa triste. L'ho
pensata anch'io.
- Quale? - risposi.
- Che io sono la tua Fairy, una povera
fata così debole e stanca; ferita! -
Soffriva, quel giorno, di spossatezza e io le
avevo proposto di rinunciare la passeggiata, ma ella vi si oppose, e non
insistetti perchè vidi che la mortificazione di non poter venire era forse un
male peggiore. Questo pensiero ch'ell'avrebbe voluto essere sana e robusta per
me, venne una volta sola sulle sue labbra; negli occhi lo aveva ogni volta
ch'era sofferente.
Gli Steele vollero salire a Molkencur e noi li aspettammo
non lontano, mi pare, dalla Kanzel dove la via gira cingendo il colle a mezza
costa. Dal nostro sedile ci vedevamo a piedi la valle chiusa del Neckar, e di
fronte ancora lontano, sopra un'altra sporgenza della costa, il vecchio Schloss,
con le sue torri enormi in rovina, sommerso nel verde. Bianche nuvole passavano
allora sul sole, un'aria molle ci ventava in viso. La via era deserta, ci
sentivamo più soli che a Geisenheim; Violet mi abbandonò la sua mano, e le
parlai del primo tocco delle nostre mani a Belvedere, della mia gioia di
quell'istante.
- Adesso non senti più così - disse Violet. -
Sei troppo avvezzo ad avere la mia mano. - Devi tornare come a Belvedere -
soggiunse togliendomela.
Ella si mise a scherzare con una civetteria, con
una grazia indescrivibile. Adesso aveva sovente di questi momenti deliziosi in
cui mi pareva un'altra Violet, una tale Violet che non avrei mai creduto
potesse esistere, che mi faceva quasi impazzare d'amore e insieme di terror
geloso. Ah se mai si mostrasse ad altri così! Fui per serrarla nelle mie
braccia ed ella se ne avvide, si sgomentò alla sua volta, tornò seria e
tranquilla, e mi susurrò poi che non sapevo ancora niente, che neanche le
parole sue più amorose conoscevo ancora e che bisognava aspettare a quando
sarebbe mia moglie.
Tacque perchè si avvicinava una comitiva di
bambini e di signore; passata la comitiva, mi porse sorridendo un suo piccolo
portafogli perchè vi scrivessi qualche verso in memoria di Heidelberg. Mi parve
un po' sorpresa e forse anche mortificata di apprendere che non sapevo scrivere
versi così all'improvviso, e io pure credo essermi un po' turbato di questa sua
sorpresa come se ne potessi scadere nell'affetto suo. Ella protestò senza
parole, ma con un tale represso slancio della persona, con una luce tale negli
occhi!
Presi il portafogli.
- Sai? - diss'ella sottovoce - anche se tu
perdessi tutta la tua ispirazione di poeta, sempre ti amerei così!
La sua tenera voce era commossa come se
veramente mi accadesse in quel punto la disgrazia che diceva; volle, non so
perchè, celarsi a me e piegò il viso sul libriccino che teneva fra le mani.
Sfiorai colle labbra i folti suoi capelli odorosi, ma non n'ebbi allora
vertigini. Sentii che avevo baciato i capelli non di un'amante, ma della cara
compagna mia, congiunta a me da un sentimento sacro e solenne cui erano oramai
indifferenti la gioventù, la bellezza e tutto quello che passa.
Scrissi nel portafogli:
FAIRYLAND.
In un paese d'incanto
Passo una selva
profonda;
Sospiro e immagino
intanto
Dove la fata si asconda.
Or geme il bosco ed or
tace
Ora si schiara, or
s'oscura;
Riposa immobile in pace,
Spande la inquieta
verdura.
Stupido io miro la via
Che sale, gira e si
perde;
Vorrei saper dove sia
Più scuro e segreto il
verde,
Perchè se dai passi miei
Colà rifugge turbata,
Chetar co' baci vorrei
La bionda timida fata.
E se la via m'è
straniera,
E se mistero m'è il
bosco,
Forse nell'ombra più
nera
Le fini labbra conosco.
In vita mia non mi vennero mai scritti venti versi
così presto; però vi erano tante correzioni che Violet ne fu esterrefatta.
Tentò decifrarle, ma inutilmente; dovetti legger io. Contavo molto sull'effetto
dell'ultimo verso, e m'ingannai perchè fin dalla prima strofa Violet non ebbe
il menomo dubbio di non essere lei la fata.
- Come puoi essere tu la fata - esclamai - se
dico che vorrei sapere dove si nasconde?
- Sì, sì, - rispose, - ma già sono io.
E quando udì l'ultimo verso disse solo:
- Ecco.
Intanto sopraggiunsero gli Steele innamorati di
Molkencur e risoluti di ritornar lassù con noi al tramonto. Vi salimmo infatti
il signor Steele ed io a piedi, le signore in carrozza. Vi passammo due ore
deliziose ad un tavolino appartato, con l'acceso tramonto e i piani vaporosi
del Palatinato a fronte, colla valle del Neckar e lo Schloss a' piedi, bevendo
l'aria pura dei boschi cui l'amico Steele aggiunse per suo conto alquanti chopes
di birra. La piccola rotondetta signora Emma, piena d'intelligenza e di bontà,
sosteneva contro di me la preminenza della letteratura tedesca sulla inglese,
mentre suo marito, più giovane, più vivace, e meno colto di lei, andava e
veniva dalla birra a questo o a quel punto di vista, arrabbiandosi di non poter
discernere all'orizzonte la cattedrale di Spira.
- Si capisce - diss'ella ridendo - che Lei
ammiri tanto tutto quello ch'è inglese, ma si provi d'esser sincero, se lo può!
Mi dica se, come artista, preferisce la donna nella nostra letteratura o nella
inglese; mi dica se le donne di Goethe non sono più vere delle stesse donne di
Shakespeare!
- Oh! - fece Violet come se non potesse prestar
fede a' suoi orecchi.
- Ma sì! - riprese la signora Emma. - Più vere!
Io credo che nessun poeta abbia creato donne così vere come Goethe, ed essendo
tanto vere così care e graziose. Le donne di Shakespeare sono tutte un poco del
paese dei sogni; le cattive sono mostri orrendi, e le buone, scusa, cara
Violet, mi parvero sempre un po' sciocchine.
- Già - replicai scherzando - Desdemona,
Miranda, Giulietta, Jessica erano disgraziate Wälsche che non avevano
studiato a Nymphenburg, nè fatto ginnastica col bastone Jäger, che non
possedevano la menoma idea sul libero esame e non amavano di pattinare sul
ghiaccio. Ofelia non aveva seguito suo fratello a Gottinga, e ora si crede che
non fosse nemmanco abbonata alla Gartenlaube.
- Lei è perfido! - esclamò la signora.
- Cosa c'è, cosa c'è, cosa c'è? - fece suo
marito, che disperando di scoprire Spira, si ritirava lentamente sulla sua chope.
- Senti - gli rispose sua moglie - aiutami. Il
nostro amico preferisce la donna nella letteratura inglese e io preferisco la
donna nella letteratura tedesca. Cosa pare a te?
- A me pare - rispose con mansuetudine
filosofica il signor Steele - a me pare di preferir la donna fuori da ogni
letteratura.
Noi si rise e la signora fece una spallata. - E
a te, Violet? - diss'ella - Cosa pare a te? Dimentica per un momento la tua
patria e dì quel che senti.
- Ho la mia opinione - rispose Violet - e non so
fare bei discorsi. Non sono letterata - soggiunse sorridendo - non so che scrivere
il mio nome qui.
E trasse a sè l'albo dei visitatori di Molkencur
che ci avevano portato poco prima. C'era una colonna per il nome, un'altra per
la patria; Violet vi scrisse invece del proprio il nome fantastico di una donna
immaginata da me e vi pose accanto l'altro dolcissimo nome: Italia. Gli
Steele avevano già scritto nell'albo al mattino ed io solo vidi l'amoroso
pensiero di Violet. Non ne parlai, non ne avrei parlato a ogni modo quand'anche
Violet non mi avesse fatto cenno di tacere; sentivo bene che questo doveva
restare tra lei e me, ch'erano solo due parole d'amore, forse fra le più tenere
possibili e pie. Io fui tanto felice che lasciai la signora Emma interamente
padrona del campo.
Quando scendemmo la luna sorgeva sulle alture
boscose del Königstuhl. Violet volle far la discesa a piedi, appoggiata al mio
braccio. Un suono lontano di campane dalla città andava e veniva col vento, il
cuculo cantava nei boschi cui la luna radeva le vette agitate. Gli Steele ci
precedevano ridendo tra loro e io dicevo a Violet la commozione provata nel
leggere il suo nuovo nome, la sua nuova patria. Ella mi strinse forte il
braccio senza rispondere, e perchè passavamo allora nell'ombra di un gran
castagno era ben naturale che la mia fata mi ricordasse nel modo più dolce i
versi fatti per lei:
Forse ne l'ombra più
nera
Le fini labbra conosco.
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