XLVI.
Seguì un accesso nervoso che durò quasi tutta la
notte. Ella fu assistita da un medico, dalla signora Emma e da una figlia
dell'albergatore. Io vegliavo nella camera vicina.
Il medico voleva partire quasi subito, ma lo
supplicai tanto, che si trattenne fino a mezzanotte. A mezzanotte se ne andò
sorridendo de' miei timori e ripetendo nell'accender la pipa:
- Io conosco, io conosco, io non vedo niente di
pericolo, io non vedo niente di pericolo.
Verso il mattino Violet si quietò alquanto. La
signora Emma uscì di camera e venne a dirmi che miss Yves voleva assolutamente
partire col primo treno possibile.
- Lei si sarà opposta? - diss'io.
La signora tacque. Capii dal suo silenzio che
non s'era opposta e che ne aveva qualche particolare cagione cui non osava addurre.
- Credo che sia meglio - diss'ella finalmente; -
e credo che Violet ne sarà in grado.
Conoscevo la signora Steele per una donna
intelligente e savia; piegai il capo sotto il doloroso peso delle sue cagioni
segrete. Mezz'ora dopo Violet mi fece chiamare. La trovai affranta, ma in piedi
e ferma di partire; e avendo arrischiata una parola per dissuaderla, n'ebbi in
risposta che desiderava considerarsi già come mia moglie, che mi ubbidirebbe in
tutto, ma che mi pregava di rimettermi, in questo, al giudizio suo. Ella fece
quindi uscire con un'occhiata la signora Steele. Capii che voleva raccontarmi
l'incontro della Drachenburg e la scongiurai di tacere, di non commuoversi;
ella mi abbracciò nascondendo il viso sul mio petto, e dopo un lungo silenzio
mi disse con voce soffocata:
- Ti prego, ti prego, andiamo via.
Alcune ore dopo giungevamo, abbastanza
felicemente, a Rüdesheim. Durante il viaggio non si parlò mai dell'accaduto, e
quando fummo a casa, Violet, cedendo alle nostre preghiere, si pose a letto. Il
mattino vegnente, per tempissimo, ebbi queste sue righe:
«Caro,
«Quando ieri a Königswinter sono rimasta sola
con te, avrei voluto dirti tutto, ma non ho potuto, lo hai visto; ho solamente potuto
stringerti fra le mie braccia, perchè tu sei la mia forza e la mia vita e avevo
tanto bisogno di te. Ho pensato un momento di farti parlare da Emma, che sa quasi
tutto; ma poi mi son detta che fra me e te non deve interporsi mai nessuno
e che avevo a parlare io stessa.
«Tu sai come e perchè io abbia cessato di
amarlo; ora egli si è posto in capo, disgraziatamente, di farsi amare ancora e
di essere mio marito. Non credevo che l'amore potesse rinascer così; perchè
certo vi fu un momento in cui parve ch'egli pure non mi amasse più affatto,
quantunque ora lo neghi. Egli conosce Emma, che fu anzi un tempo la sua
confidente; trovandoci insieme alla Drachenburg volle ch'ella fosse presente
alle sue offerte, alle sue suppliche appassionate. Io lo respinsi con quanta
forza potei, con un orrore che l'offese. Minacciò di chiederti un colloquio,
ripromettendosene la rottura delle nostre nozze, benchè io gli dicessi che tu
sai già ogni cosa; minacciò, se non potesse avermi, di togliersi la vita.
«Io fuggo a te, mi aggrappo a te; dimmi, per
amor di Dio, che niente, che nessuno ci potrà mai dividere.
«Non voglio che tu gli parli, non voglio che tu
lo veda. Non temo già ch'egli ti possa raccontare più ch'io non raccontai, ma
sento che ha ragione quando dice come l'ho amato, come il mio amore pareva
inestinguibile, com'io stessa lo credevo tale e quanto è doloroso che anch'io
sia come tutte le altre che possono amare due volte. No, egli ha gravemente
mancato verso di me e non è in diritto di dolersi se ti amo; ma tutti quelli
che hanno fede nella nobiltà umana sono in diritto di dolersene, e tu stesso,
ascoltando ciò da lui, non avresti che a piegar la fronte. Ora io non voglio
che tu pieghi la fronte davanti ad esso, per causa mia, mai!
«Io non voglio più pensare a lui nè alla sua
minaccia d'uccidersi; ne l'ho rimproverato come d'una viltà, e non posso aver
altri doveri. Ora voglio solo esser tua, irrevocabilmente tua il più presto
possibile, e poi andar lontano; dove ti piacerà, ma ben lontano.
«Vieni alle nove; ho già parlato a Steele per
affrettare il matrimonio; Paolo è un caro amico pieno di zelo, e, per fortuna,
si trova in ottime relazioni col vescovo di Magonza. Combineremo tutto.»
Ho già detto come i nostri amici non
approvassero che si facesse a Rüdesheim il solo matrimonio religioso, salvo a
fare il civile in Italia. Ora le pratiche per il matrimonio civile erano bene
avviate ma non compiute, e lo stato di Violet appariva tale che Paolo mi disse
- adesso è una questione di vita o di morte - e partì immediatamente per
Magonza.
Eravamo a martedì, e la prima pubblicazione, sì
a Rüdesheim che in Italia, doveva farsi alla domenica seguente. Non so come
l'amico Steele abbia potuto persuadere il vescovo; insomma, vi fu uno scambio
di telegrammi fra Magonza e Roma, e venerdì a mezzogiorno arrivò la dispensa di
tutte le pubblicazioni. Fu lo stesso Paolo che la portò a Rüdesheim. Eravamo
nel salotto della sua villa quando egli entrò. Violet lesse subito nel suo viso
che la dispensa era ottenuta, che fra poche ore sarebbe diventata mia moglie;
si fece pallida pallida e si strinse le mani sul petto. Io ringraziai Steele
con un abbraccio silenzioso.
- Siate sempre così felici - disse la signora
Emma abbracciando la mia fidanzata.
- Povera mamma - susurrò Violet singhiozzando, -
povero padre mio!
- Sono qui con te - le rispose, pure commossa,
l'amica sua. - Non li vediamo, ma sono qui per benedirti, per affidarti a tuo
marito.
Violet mi stese la mano, coprendosi gli occhi
con l'altra.
- Ti ricevo da loro - dissi stringendo quella
mano. - Li sento tutti...
Non potei continuare. Allora ella venne a me con
un viso così dolce e grave, mi posò le mani su le spalle e mi mormorò
all'orecchio:
- Sì, caro, anche il padre tuo, anche la mamma
tua. Sono qui. Li amo tanto.
Uscii insieme a Steele per intendermi col
parroco circa l'ora della cerimonia nuziale. Io ero sotto l'incubo di una
preoccupazione gravissima. Avevo ricevuto nel mattino una lettera di colui,
colla data di Bingen; due sole righe in cui mi chiedeva un colloquio per
l'indomani. A Violet non ne avevo fatto parola; ma ora dovetti parlarne a
Steele perchè s'adoperasse meco a ottener dal parroco che il matrimonio venisse
celebrato con segretezza, nel cuore della notte. Colui era a un quarto d'ora da
Rüdesheim, certo si teneva informato, e Dio sa che avrebbe fatto se fosse
venuto a sapere ciò che si preparava. Il parroco si persuase sulla nostra
parola che le stesse gravissime ragioni per cui s'era accordata la dispensa,
richiedevano che il matrimonio avesse luogo alle due antimeridiane. Così
potevamo passare, dopo la cerimonia nuziale, dalla chiesa alla stazione per
prendere, alle tre, il treno del Sud e andare, non sapevo ancora se fino a
Triberg o se solamente, per quel primo giorno, fino a Stuttgart.
Quando riferimmo quest'accordo alle signore, la
signora Emma se ne meravigliò assai; non si poteva dar pace che fosse stata
scelta un'ora così incomoda e romanzesca. Perchè non si poteva partire col
treno di mezzogiorno e fare il matrimonio alle nove o alle dieci? A questo modo
Violet non potrebbe neanche mettere il suo abito bianco di sposa, sarebbe
costretta di andar all'altare in toletta da viaggio.
Risposi che preferivo viaggiar di notte, evitare
il sole e la polvere almeno per qualche ora. Violet sorrideva. Vedevo bene
ch'ella stessa, in fondo, trovava singolare la mia idea, ma le bastava che
venisse da me per accettarla e difenderla. Tremavo non si accorgesse dei cenni
che Steele veniva facendo a sua moglie perchè si chetasse. Fortunatamente non
ne fu nulla.
- Venga - mi disse la signora Emma; - guardi,
uomo barbaro e crudele.
E mi fece vedere spiegato sopra un letto, nella
camera vicina, accanto a due scarpettine di raso, l'elegantissimo abito bianco
della mia fidanzata. Mi parve, in quel punto, esser tratto con violenza nella
intimità della bella persona che doveva appartenermi, diventarne ed esserne
riconosciuto signore; e n'ebbi una stretta di piacere.
Violet pensò forse la stessa cosa, perchè
arrossì fino al collo.
Mi congedai in fretta e corsi all'Hôtel Krass,
dove avevo bisogno di parecchie ore per disporre le cose mie.
Scrissi una infinità di lettere a parenti ed
amici, annunciando ex abrupto il mio matrimonio. Avevo l'intenzione di
metterle alla Posta il giorno dopo, a Triberg o a Stuttgart; benchè immaginando
il giorno dopo, mi paresse impossibile avere il capo ad altro che all'amore e
alla gioia. Scrissi pure a mio fratello, poichè la idea di recare all'altare
un'ombra sola di risentimento contro di lui mi metteva raccapriccio. Gli
scrissi breve ma affettuoso, ed aggiunsi una riga gentile per mia cognata.
Avrei creduto, prima, che questa riga mi dovesse costar molto. Non fu così; ero
felice e sentivo in me lo spirito generoso di Violet come se fossi già una
persona sola con lei.
Era già notte quando mi posi a scrivere una fila
di nomi e d'indirizzi che dovevo lasciare all'amico Steele per le
partecipazioni ufficiali a stampa da spedirsi più tardi, appena fossero pronte.
Alzando qualche volta il viso a pensare, a raccapezzar qualche nome mezzo
uscitomi dalla memoria, vedevo dalla finestra i lumi di Bingen, mi assaliva
l'immagine di quell'uomo che voleva parlarmi. Dio mio, indovinavo ciò che
avrebbe voluto dirmi, e la sola possibilità di udirlo mi metteva una
irritazione terribile. Perchè si ostinava egli mai? Intendeva forse di
riprendere Violet a forza, di averne il diritto? Era tanto pazzo da venire a
dirmelo?
Mi parlavo così fremendo e almanaccavo dove
l'uomo potesse essere in quel punto, se a passeggiar sotto i lontani fanali o
forse a vigilare sotto le mie finestre, o fors'anche a spiar sospettoso e
appassionato la stessa dimora di Violet. Allora il cuore mi batteva di collera.
Poi rimproveravo la mia immaginazione, mi chetavo, tornavo a scrivere. Verso le
undici feci portare il mio bagaglio alla stazione e lasciai l'albergo.
Non vi erano stelle nè luna e nelle vie
silenziose di Rüdesheim faceva tanto buio che non potevo assolutamente vedere
se qualcuno mi seguisse o mi precedesse. Di tratto in tratto mi fermavo
istintivamente, stavo in ascolto. Non una voce, non un passo; udii solo il
fragore d'un treno della riva sinistra e pensai al treno che aveva portato
Violet, quando io stavo alla finestra col lume, palpitando.
- Voi siete un vero poeta - mi disse la signora
Emma quando entrai. - Non avete pensato al Vostro testimonio.
Mi battei la fronte, era vero! Per meglio dire,
ci avevo pensato e avevo scelto il cavalleresco signor Andrea Grossmann di
Wiesbaden, antico mio professore in Italia e reduce in patria dopo il 1866, ma
in questo precipizio di cose m'ero affatto dimenticato di lui. Presi certo
un'aria molto desolata perchè la signora si affrettò ridendo a dirmi che ci
aveva pensato suo marito, il testimonio di Violet. Egli era uscito da mezz'ora
per andar a svegliare un amico e imporgli questa parte. Mentre discorrevamo un
uscio si aperse piano piano e comparve Violet nell'abito bianco da sposa che
avevo veduto prima. Feci un'esclamazione di sorpresa. - Almeno vederla! - disse
la signora Emma. - Adesso la guardi bene; io penserò a un po' di cena, intanto.
Ella uscì ed io stesi le braccia alla mia
fidanzata.
- Hai piacere - susurrò sul mio petto - di
vedermi con quest'abito? Tutti gli altri vedono la loro sposa così; ho voluto
che mi vedessi così anche tu.
E rialzò sorridendo il viso, un viso timido e
luminoso. Poi lo chinò ancora e disse con voce spenta:
- Ne sono degna?
Non le risposi con parole ma intese bene la mia
risposta.
- L'ultima volta - riprese dopo un lungo
silenzio - l'ultima volta che siamo soli da fidanzati. Ho avuto tanta paura di
morire prima! Sai cosa ho scritto poco fa?
Rise un breve riso argentino, mi posò le mani
alle spalle e la bocca all'orecchio.
- Il mio testamento - diss'ella. Ritrasse il
viso, mi guardò negli occhi e soggiunse ridendo ancora:
- Non ti lascio niente, sai.
Poi si fece cupa, mi gittò le mani alla testa,
mi baciò con impeto.
- Mio Dio! - esclamò. - Pensare che ti ho
resistito tanto!
Le raccontai che io pure avevo fatto testamento,
forse nel tempo stesso.
- Ah - diss'ella - se Dio ci facesse morir insieme!
Non ho coraggio di pregarlo che faccia morir me prima perchè soffriresti tanto.
- Sia fatta la Sua volontà - diss'io.
- Sì, sì, sia fatta la Sua volontà, ma se io
vado avanti non ti devi accorare, devi essere certo che sono con te, sempre. Con Dio e con te.
Passi e voci nel giardino; Violet si ritirò.
Erano Paolo Steele e il mio testimonio che non
avevo mai veduto nè tampoco inteso nominare. Paolo aveva la faccia d'uno che ha
giuocato qualche bel tiro al prossimo e se la gode; quell'altro, una figura
gotica in giubba e cravatta bianca, con un palmo di collare sulla nuca e due
braccia di coda sotto la schiena, con una tuba enorme da museo, aveva l'aria di
sognare ancora e mi fece due o tre inchini rispettosi e spaventati come s'io
fossi stato l'imperatore della China.
- Ah Ella è qui! - fece Steele. - Passando
dall'Hôtel Krass m'era parso veder un'ombra entrar nella stradicciuola fra il
giardinetto e l'albergo e credevo fosse Lei.
Quest'ombra nei pressi dell'Hôtel Krass mi colpì
e mi dispiacque. - Oh - disse Steele - sarà stato un forestiere romantico.
Mi presentò l'altro signore, e poi, impaziente
di farlo vedere in quel costume, corse a chiamar sua moglie che rise in faccia
al povero diavolo senza tante cerimonie. Venne subito anche Violet ma nè lei nè
io avevamo voglia di ridere malgrado i cenni e le smorfie dell'amico Paolo. A
mezzanotte fummo chiamati a cena con grande stupore del signor Bröhl, mio
testimonio, il quale prese il suo coraggio a due mani e domandò segretamente a
me se queste nozze si facevano davvero o se non era tutta una graziosa burla
del suo ottimo amico.
La cena non riuscì molto allegra malgrado le
brillanti descrizioni che Paolo veniva facendo della sua visita notturna al
signor Bröhl. Violet ed io non eravamo in grado di prender cibo, e ci erano poi
anche troppi lumi, faceva un gran caldo; per le finestre aperte si vedeva un
lampeggiar frequente, si udiva qualche rombo sinistro di tuono. Verso la fine
bevemmo il generoso Rüdesheimer dell'ospite, e la signora Emma che sapeva
dell'altro Rüdesheimer bevuto nel bosco di Eichstätt, mi pregò di ripetere i
versi fatti per Luise. Steele osservò che ora avrei dovuto dire il primo così:
A te, mia bionda sposa,
il bevo il vino biondo,
e
s'incaricò egli stesso di un brindisi poetico a Violet. Poi volle costringere
il povero signor Bröhl a farne uno a me. Questi si schermiva quanto poteva,
protestando di non essere poeta.
- Ma, santo Dio, - gridò Paolo - alza il
bicchiere, di' «evviva lo sposo» e poi bevi! - Bröhl alzò il bicchiere; in quel
punto scoppia un tremendo tuono, Bröhl lascia cadere il bicchiere, il vino
salta in aria, la signora Emma strilla, Paolo fa dello strepito per quattro e
il mio infelice testimonio resta di sasso. Stavolta Violet rise di cuore e non
posso esprimere la gioia che n'ebbi. Mi parve che quel riso limpido portasse
via dall'anima sua le ultime ombre di tristezza.
Al tocco e mezzo cominciava a piovere e le
carrozze non erano ordinate che per portarci dalla chiesa alla stazione. Ci
avviammo subito alla chiesa onde evitare l'acquazzone imminente. Non si passò
all'Hôtel Krass; perciò non potei vedere se l'ombra scoperta da Steele ci fosse
ancora. Del resto pioveva e sarebbe stato ben difficile a ogni modo che io la
discernessi. La chiesa non era ancora aperta e si dovette aspettare più di
cinque minuti alla pioggia che allora cadeva dirotta. Anche lì, nessuno.
Quando finalmente potei inginocchiarmi accanto A
Violet nella chiesa tenebrosa temo non aver saputo ringraziar umilmente Dio di
avermi data, anima e corpo, la parola udita in sogno; temo aver consentito ad
un movimento d'orgoglio, pensando alla mia lunga guerra vinta con la costanza e
la forza. Violet dal canto suo pregava col viso chino sul banco e allorchè si
accesero i lumi dell'altare mi disse che aveva tanto pregato di potermi render
felice.
Incominciò il rito nuziale. Prima di rispondere
in tedesco alla domanda del sacerdote risposi sì, in italiano, e mi pare aver
udito pure dalle labbra di Violet un impercettibile sì. Eravamo un solo,
oramai; un solo anche nella riverenza della cara lontana Italia, madre mia. Si
udì una carrozza giungere rumorosamente e fermarsi alla porta; il prete ci
disse gratulor, gratulor salutandoci a due mani, io diedi il
braccio a mia moglie ed uscimmo, Dio mio, quanto felici!
I bagagli di Violet erano già alla stazione, ma
salendo in carrozza ella s'accorse di aver dimenticato in camera certe chiavi.
La stazione di Rüdesheim, rispetto alla villa Steele, è proprio all'angolo
opposto del borgo e la chiesa cattolica sta presso a poco nel mezzo. Non c'era
moltissimo tempo da perdere dovendo far la spedizione dei bauli; e Paolo si
offerse di andar lui in cerca delle chiavi per raggiungerci poi alla stazione.
Accettammo. Intanto pioveva sempre a dirotto.
I bagagli erano molti e l'impiegato alquanto
sonnacchioso; ci volle del buono prima che venisse a capo di spedirli. Mentre
io attendevo a questo Violet e la signora Emma erano sole nella sala di aspetto
perchè avevamo mandato a casa il signor Bröhl. A un tratto udii la voce di
Paolo che rideva colle signore e faceva suonar le chiavi. Corse subito da me
vantandosi a gran voce di aver fatto presto, e, quando mi fu vicino, mormorò: -
attenzione, perchè l'uomo di Bingen è qui.
Il mio primo movimento fu di uscire e
affrontarlo. Finsi di parlare a Paolo dello scontrino che avevo in mano e gli
chiesi se colui fosse nella stazione.
- No - rispose - l'ho visto suonare all'Hôtel
Krass. Avrà dei sospetti e vorrà sincerarsene. - Respirai. Sperai che avessero
tardato ad aprirgli, a intenderlo, a rispondergli. Fra cinque minuti doveva
arrivare il treno; sperai partire prima che egli venisse alla stazione, fargli
perdere le nostre traccie.
- Adesso vi lasciamo - mi disse Steele. - Se lo
trovo lo trattengo. - Raggiungemmo le signore; Paolo prese il braccio di sua
moglie.
- Senti - diss'egli - forse questa povera gente
non ha la fortuna di trovare un coupè vuoto. Regaliamo loro cinque preziosi
minuti di solitudine.
La signora aperse la bocca per protestare, ma
una stretta eloquente del braccio di suo marito gliela fece chiudere. Nè lei nè
Violet capivano quest'idea, e Paolo non lasciò loro il tempo di pensarvi.
Appena potei abbracciare questo incomparabile amico e dirgli una parola di
gratitudine. Egli trascinò via sua moglie e disparve nella pioggia.
Due minuti dopo arrivò il treno da
Assmannshausen. Feci salire Violet nel primo coupè che trovai aperto, benchè vi
fossero due signori e Violet esitasse, mi interrogasse collo sguardo. Passammo
fra i due viaggiatori che stavano allo sportello e ci collocammo al lato
opposto del coupè. Subito udii qualcuno correre, udii gridare «presto!»
Un'ombra comparve allo sportello, fece atto di cacciar dentro la testa a
guardare; i nostri due compagni furon pronti a farsi avanti dicendo - non c'è
posto, non c'è posto. - Quegli tirò via, i conduttori. gridarono ancora -
presto, presto! - la campanella della partenza suonò, il treno si mise
lentamente in moto. Dio mio, quell'ombra! Era egli dunque sfuggito a Steele? Ed
era poi salito nel treno o no?
Violet non s'era accorta di nulla. Si levò il
cappello e i guanti e poichè la lucernetta del coupè aveva il paralume e noi
eravamo nell'ombra, mi appoggiò il capo alla spalla e abbandonò le sue mani
nelle mie. Poco a poco se le trasse sul cuore, sorridendo, guardando se i nostri
compagni non l'osservassero e mi disse sottovoce quando il treno correva già
forte:
Io sento il suo cuore
Che batte che batte,
Le voci sue rotte
Che dicono «vieni
Cedo, vieni, vieni.»
Io tacevo; le baciavo piano piano e lungamente i
capelli, respiravo il suo amore, il suo pensiero e il suo corpo.
Viaggiavamo12 forse da venti minuti
quando il treno rallentò la corsa e si fermò. Nè si udirono voci, nè si
apersero sportelli; guardammo fuori; eravamo fermi nella campagna deserta in
riva al Reno scuro e rumoreggiante, a poca distanza da Erlach, credo. Uno dei
nostri compagni si scosse, parlò ad un conduttore che passava; questi rispose e
della sua risposta intesi solo fünf Minuten, cinque minuti. Il
viaggiatore tornò a dormire. Violet, che aveva pure guardato dal finestrino, si
appoggiò daccapo a me e mi domandò se all'indomani, posto che ci fermassimo a
Stuttgart, doveva metter lo stesso costume o se avrei preferito l'abito di lana
bianca a risvolti di velluto bianco che avevo ammirato moltissimo. Stavo per
risponderle quando una testa si levò improvvisamente nel vano del nostro
finestrino, vi restò un attimo e ridiscese. Riconobbi l'uomo, scattai avanti
stringendo forte le mani di Violet che si voltò di botto. Colui era già
scomparso.
- Cosa c'è? - diss'ella,
- Niente - risposi.
- No, c'è qualche cosa, dimmi cosa c'è.
Ella mi aveva veduto in viso un lampo di
sorpresa e di collera e non voleva credermi. Non eravamo soli, quindi non
poteva interrogarmi con l'impeto che aveva in cuore; mi stringeva il braccio e
mi ripeteva piano, in inglese: - Dimmi, dimmi. - Replicai che avevo creduto
veder muoversi qualche cosa nella notte, ma che non era stato niente.
Violet non mi disse più nulla; tuttavia mi
guardò con uno sguardo appassionato come se temesse ancora. Le parlai
dell'abito di lana bianco nel quale desideravo vederla l'indomani, e del
cappellino di Panama a tese piane, col nastro di raso bianco, che le andava a
meraviglia con quell'abito. Non ebbe una parola nè un sorriso e continuò a
guardarmi come prima. A un tratto mi prese il braccio a due mani e mormorò,
sempre collo stesso sguardo:
- Non ingannarmi mai.
I nostri due compagni dormivano; mi chinai e
baciai con tutta l'anima la diletta moglie mia che non intese, stavolta, il senso
del mio lungo bacio e tornò serena, si appoggiò ancora alla mia spalla,
sorridendo!
Un altro treno ci passò accanto e il nostro si
mosse. Arrivammo in un quarto d'ora a Biebrich dove avviene lo scambio per
Wiesbaden. Sentivo di dover impedire che Violet vedesse quest'uomo, che si
accorgesse della sua presenza; e poichè sfuggirgli era oramai impossibile, non
restava che cercar di lui, imporgli di non perseguitarci. Perciò discesi,
dicendo a mia moglie che sarei tornato subito. Lo trovai nella carrozza vicina,
ch'era piena di gente. Io non lo avrei forse riconosciuto, ma egli riconobbe me
e saltò a terra. Ci domandammo ad un punto, io con voce sommessa ma risolata
che mai volesse da mia moglie e da me, lui in tono di sfida e con faccia
stravolta da maniaco perchè non gli avessi fatto l'onore di rispondere alla sua
lettera. Gli dissi che lo avevo creduto inutile e lo richiesi di non molestarci
mai più. Egli uscì allora in parole di collera e di minaccia, protestando di
non voler subire intimazioni, io mantenni il mio diritto di fargliele, mentre
egli vociferava che non aveva l'abitudine di molestare le signore, ma che
voleva soddisfazione da me; risposi che non lo temevo.
I conduttori invitavano la gente a salire.
- Vada! - disse forte colui. - Ella mi vedrà
presto ancora. Ciò che Le volevo dire in segreto glielo dirò in pubblico,
davanti alla signora, nel giorno e nel momento che sceglierò.
Gli voltai le spalle e saltai nel coupè. I due
viaggiatori erano discesi13, trovai Violet sola e compresi tosto che
aveva udito. Mi guardò, ansando in silenzio, con un viso sfigurato che mi fece
terrore, mi si avventò al collo, mi cadde addosso. Il treno partì. Sedetti
stringendomi in braccio il caro corpo tutto sussulti e spasimi, baciando la
testa bionda che mi pesava sulla spalla, palpitando e ansando io stesso, ma
senza comprendere ancora qual cosa terribile si compiesse, per arcano volere di
Dio, in quel momento. Chiamavo: Cara! Cara! Non rispondeva. La stretta delle
sue mani al mio collo si veniva rallentando, ma non era tuttavia possibile
disgiungerle. Allora mi alzai per coricarla sul sedile; la testa le cadde lungo
il mio braccio, le mani rimasero congiunte. Gridai singhiozzando inutilmente
nel fragore del treno, chiamai con voce disperata Iddio che solo poteva udirmi.
M'inginocchiai, la deposi supina, la copersi di baci e di lagrime levando ogni
momento il viso dal suo corpo immobile a gridar aiuto, supplicandola di udirmi,
di rispondermi. Le sue braccia inerti mi trattenevano ancora, ma pure
incominciavo ad aver la terribile idea che morisse e mi sforzavo di gridare, di
gridare sempre, non avevo più lena, non avevo più voce contro la stupida
violenza del treno, cacciavo come un frenetico i pugni per arrestarlo. E le
mani di lei non si disgiungevano; le baciavo la bocca, gli occhi, i capelli, le
spalle, il petto; caro amore, non avrebbe potuto avere più baci da me se fosse
stata piena di vita. Se un sobbalzo del treno le faceva muovere il capo o i
piedi, ridevo, fra i singhiozzi, di speranza e di gioia. Ma il suo povero viso
diventava freddo, solenne; non gridai più, non feci che chiamarla teneramente.
Quando Dio volle arrivammo a Kastel. Gridai
tanto che si venne ad aprire prima ancora che il treno fosse fermo e molte
persone accorsero.
- Un medico! - esclamai, e mi portai giù la mia
diletta da solo, passai fra la gente che ripeteva: - Un medico! Un medico! -
l'adagiai sopra un canapè, nella sala d'aspetto di prima classe. In un attimo
la sala fu piena di curiosi. Qualcuno mi voleva rincorare, mi diceva che la
signora si riavrebbe; altri veniva a guardare e si allontanava tacendo. Quando
fu annunciato l'arrivo del medico vidi due signori stringersi nelle spalle. Il
medico entrò, si accostò alla giacente, la guardò in viso; un silenzio mortale
si fece nella sala. Io guardavo lui, trattenendo il respiro. Alzò le
sopracciglia senza dir parola; quindi si provò di separar le mani tuttavia
congiunte, ma lo supplicai, più con gli occhi che con la voce, di smettere.
Tastò i polsi, ascoltò il cuore senza dare alcun segno del suo giudizio;
finalmente domandò un cerino che non si trovava mai. Quando lo accostò alle
labbra di Violet non osai guardare, mi copersi il viso. Allora udii che tutti
si avvicinavano in punta di piedi; poi un silenzio profondo, lungo; poi un
soffio, un rumore lieve di molti passi che si allontanavano; poi silenzio
ancora.
Una mano mi toccò; apersi gli occhi, ma non
vedevo nulla. Il medico mi chiese se la signora fosse mia moglie; udito che sì,
disse solamente:
- Povero signore.
M'inginocchiai presso al canapè, alzai piano le
care mani, vi passai sotto il capo, me le posai sul collo, e non mi mossi più.
È finito, ho detto tutto.
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