PICCOLO
MONDO MODERNO
1. Ab ovo.
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La vecchia marchesa Nene Scremin
stava spolverando ella stessa, in abito di ricevimento e con un viso arcigno,
il suo salotto. Strofinava col fazzoletto le spalliere delle sedie appoggiate
alle pareti, gl'intagli del canapè e delle poltrone, i piani delle cantoniere,
la campana della pendola. Alzava uno a uno i candelieri dorati dalla caminiera
di marmo nero, alzava dal tavolo di marmo bianco, uno a uno, i
porta-fiori, i porta-ritratti, le
bomboniere, i ninnoli accumulati da una serie favolosa di natalizi e di
anniversari, strofinava il marmo, cancellava le piccole nuvolette di polvere,
brontolando contro quel benedetto Federico che pretendeva di avere spolverato.
Il povero Federico, mezzo storpio, mezzo sdentato, mezzo calvo, capitò in quel
punto, nella sua blusa di fatica, a dirle che c'era il giardiniere vecchio,
quello licenziato da due mesi, e che desiderava di parlarle.
«Ch'el speta!» disse la marchesa.
«E vu, benedeto, cossa feu che no ve vestì? No savì che xe marti? Che spolverar
feu, vu? No vedì che stala che xe qua?»
«Che stala?» fece Federico, intontito.
«Che stala? Cape, mi so che son sta qua do ore stamatina.»
«Ben, gavarì dormìo. Gài portà
l'ovo a la Tonina?»
La Tonina era una vecchia
cameriera inferma, mantenuta dagli Scremin per carità. Federico dichiarò di non
sapere se a mezzogiorno le avessero portato il solito uovo, e in quel punto
venne la cuoca a ripetere il messaggio del giardiniere licenziato. Ne seguì un
battibecco fra i due servi, appunto per questa replica non richiesta, malgrado
la presenza della padrona. Ma la marchesa, dominata da tetri presentimenti,
voleva notizie dell'uovo e seppe dalla cuoca che l'uovo alla Tonina lo aveva
portato la guattera e che la Tonina, sentendosi poco bene, non lo aveva preso.
Questo fu il principio di un dramma. Cos'era accaduto dell'uovo? Silenzio. Possibile
che qualcuno l'avesse mangiato? Che si fosse dimenticata la quaresima? Federico
brontolò: «El sarà in cusina». La marchesa intascò il suo fazzoletto sudicio,
andò diritta in cucina. Cerca qua, cerca là, niente uovo. Andò alla finestra e
chiamò il cocchiere che stava ripulendo finimenti nel cortile. Mentre colui
saliva ella si affacciò alla buia scaletta di servizio per chiamar la guattera,
vide qualcuno nell'ombra, lo credette il cocchiere e gli domandò bruscamente:
«Gavìo tolto un ovo?». «Mi, signora?» rispose colui, timido. «Mi no so gnente
de ovi.» Allora la marchesa lo giudicò un accattone, gli gittò un brusco «No
ghe xe gnente!» Quegli replicò ch'era il giardiniere vecchio. «Oh, ben, spetè.»
E la vecchia dama ricominciò la sua caccia all'uovo.
Nessuno aveva preso l'uovo, né la
guattera, né il cocchiere, né la cameriera. La marchesa andò in cerca del
fattore che di solito dopo mezzogiorno pigliava un caffè in cucina. «Galo visto
un ovo?». «Un ovo, signora?» Il povero fattore, non potendo negare di aver
veduto un uovo durante la sua carriera mortale e non osando affermarlo in quel
momento, rimase a bocca aperta. Intanto i cinque domestici, quale sulla scala,
quale in una stanza, quale in un corridoio, quale in cucina, brontolavano
soliloqui alquanto scorretti e l'uovo scomparso empiva la casa di sé.
«Per un ovo!» fremeva il
cocchiere, seccatissimo di aver fatto tante scale per niente «e i tien carozza
e cavài, sti fioi de cani!» Proprio in quel momento la padrona lo chiamò da
capo. Voleva sapere se avesse visto il padrone. Colui rispose di no,
sgarbatamente. «Sarà in Duomo, il signor padrone» disse la cameriera alle
spalle della marchesa. «Sarà andato a far l'ora.» La vecchia signora sapeva che
da qualche tempo suo marito, per certe coperte ambizioni politiche, non vestiva
più la cotta di socio della confraternita del Duomo. Tacque, però. In quel
momento un ragazzotto uscì dalla scuderia con una bracciata di fieno. «Dove va
quel fien, ohe?» gridò la vecchia, imperiosa. Stavolta il cocchiere rispose con
affettata solennità, compiacendosi di farla tacere e di esprimere insieme un
coperto disprezzo per qualcun altro: «Fien del paron giovine! Ordine del paron
giovine!».
Federico, che stava
abbottonandosi la livrea, masticò un altro soliloquio sulla clientela di
straccioni che aveva il «paron giovine», il genero dei padroni vecchi, che
abitava un'ala del palazzo e teneva in scuderia un cavallo da sella. Anche i
brumisti disperati, venivano, adesso, a spremerlo! Anche fieno regalava!
Federico diede al giardiniere, nella sua sapienza, il consiglio di andarsene e
di ritornare verso le quattro quando veniva a casa il «paron giovine». «Ancò,
ciò, la parona la ga in testa un ovo e diman la gavarà in testa un galeto. Vien
dal paron giovine. Adesso che i lo ga fato anca consiglier!»
L'arrivo delle prime visite
interruppe le indagini della marchesa mentre stavano per approdare a una
scoperta impensata e imbarazzante. Ella era in relazione con tutta la città. Aveva
nel suo taccuino una nota di novantasette visite a fare in dicembre e in
aprile, residuo delle centoquarantasei cui era giunta, per compiacere al
marito, nella sua giovinezza e forse anche negli anni faticosi e tormentosi in
cui aveva dovuto mettere in mostra la figliuola. I suoi ricevimenti del martedì
erano però di solito molto scarsi perché le amiche intime e le amiche umili
evitavano il giorno solenne. Invece quel martedì, natalizio della padrona di
casa, un po' per questo un po' per caso, venne molta gente. Le amiche umili
capitarono presto per non abbattersi nelle amiche grandi. Erano tre o quattro
vecchiette dignitosamente composte nel decoro delle loro maniere cerimoniose e
della loro seta, nella coscienza della loro modesta civiltà. Il tu che davano alla marchesa Nene aveva una
segreta, commovente anima di soggezione e d'intima compiacenza. La marchesa se
la intendeva con loro meglio che con le altre, anche perché in fatto di
pratiche religiose, di magri, stretti magri e digiuni avevano tutte, come lei,
una coscienza di ermellino, così candida che persino la più minuta goccia di
latte avrebbe potuto macchiarla. Le vecchie signore si eran sempre tanto
guardate, nei loro colloqui, dal menomo accenno a cose politiche, a elezioni, a
Consigli comunali come da ogni altro discorso che non riguardasse il tempo, la
salute, gli interessi, le vicende familiari di qualche persona, tutt'al più
l'ingegno e i polmoni di un predicatore; avevano così regolarmente ammutolito e
con tale identico sussiego udendo altrui parlar di faccende pubbliche e di
faccende sporche, che adesso non sapevano come felicitar la suocera per la
elezione del genero a consigliere comunale, avvenuta due giorni prima.
Dopo aver lamentato, tutte a una
voce, la fortunatissima recrudescenza di freddo che alimentava i languenti
colloqui dei salotti cittadini, la più ardita arrischiò una parolina: «El ga
avudo una bela sodisfazion, to genero, i me ga dito. L'è tanto bon, po,
poareto!».
Le altre vecchiette, preso animo,
gracidarono con le loro fesse voci untuose: «Eh quel che xe, po! - Tanto bon,
tuti no fa che dire. - Se consolemo tanto».
La marchesa Nene fece un viso
grave e disse loro: «Conforti magri». Allora venne dalle amiche qualche triste,
misteriosa parola di compianto e di speranza che cadde non raccolta. Il
discorso ritornò alle virtù del genero e le buone signore, invece di parlarne
alla suocera, ne parlarono, per un raffinamento di adulazione, tra loro. Una di
esse aveva udito il parroco del Duomo levare a cielo la pietà del signor Maroni;
un'altra riferì che la sua domestica s'incontrava ogni mattina col signor
Maroni alla prima messa. La più timida non fece che correggere sottovoce le
altre quando nominavano il lodato, ma per quanto mormorasse «Maironi, Maironi»,
esse continuavano col loro Maroni; scusabili, perché anche la marchesa, usa a
rimpastar nel dialetto nomi e cognomi, diceva Maroni tre volte su quattro. La
conversazione passò quindi al matrimonio di un garzone della merciaiuola dove
tutte quelle signore si provvedevano di aghi e di refe.
Più tardi, partite le pedine,
arrivarono quasi a un punto alcune dame e un paio di cavalieri, che si eran
data la posta per alleviar le noie di questa visita a una vecchia signora, che
non viveva abbastanza nel mondo per poterle parlare di cose mondane né
abbastanza fuori di esso per poterla piantare del tutto. Fu suonata la stessa
musica di prima, in tono diverso. Si parlò di freddo e ci furon brevi accenni
fra le dame e i cavalieri a un picknick, a una grossa questione
diplomatica, a certe persone non desiderate nella compagnia. L'idea di una
trottata mattutina in stage
metteva segreti brividi a molti, ch'eran però contenti di gelare per
l'eleganza della partita e della brigata. Poi una dama politicante entrò a
spada tratta nell'argomento dell'elezione, mentre le altre la guardavano come
un fenomeno di eloquenza e di ardire e uno dei cavalieri faceva di soppiatto
qualche smorfia burlesca. Costui fece pure rumorosamente le sue felicitazioni
ma intercalandovi sottovoce, per uso delle vicine, certe giaculatorie: «Atenti
che adesso vien Federico con quattro cichere de aqua santa. - Scommessa che el
consiglier xe in camera col piviale ch'el canta el Te Deum davanti a l'altariolo. - Me par de sentirlo
in Consiglio: et cum spiritu tuo». Le vicine si mordevano le labbra, gli
sussurravano: «El tasa!» ed egli pretendeva che la marchesa fosse sorda. «Ahi,
ahi» brontolò udendo annunciare il Prefetto, «ahi che adesso bisogna parlar
pulito! Se savea portava la gramatica!»
Il commendatore Prefetto, un buon
toscano, amante del quieto vivere, venuto da un mese appena nella sua modesta
sede veneta, era stato presentato alla marchesa da suo marito, in ferrovia, e
ora veniva per la visita d'obbligo, ben contento di blandire il marchese
Zaneto, di servirsi delle sue velleità senatoriali per staccarlo poco a poco
dal partito clericale.
La marchesa, impacciatissima con
la gente che parlava italiano, lo accolse in modo da farlo rimanere impacciato
anche lui. Per fortuna la signora eloquente si era incontrata più volte col
commendatore in una casa di amici, a Firenze. Ella fece subito pompa di questa
relazione, gli parlò con familiarità, e poiché tra lei e lui era seduta
un'altra signora, lo presentò sottovoce per far intendere che sapeva come ciò
sarebbe toccato alla padrona di casa ma che si pigliava una licenza amabile.
«Disemoghe a la Nene» mormorò allora il cavaliere satirico alle vicine «che qua
gnente ocore e che la pol andar a dar fora el butiro in cusina». Infatti la
povera marchesa, nota per la sua severa economia domestica, assisteva muta al
duetto brillante dell'amica e del commendatore, al quale non era parso vero, in
quel primo smarrimento, di afferrare la sola mano offertagli. Egli non fiatò,
naturalmente, dell'elezione clericale Maironi, fece alla padrona di casa, non
sapendo che dirle, dei complimenti per il suo bel palazzo del Quattrocento, si
udì rispondere che lo aveva tenuto in gran pregio anche il fu professor Canella
e senza domandar chi diavolo fosse questo illustre uomo, visto alzarsi il
cavalier faceto e la signora eloquente, si alzò anch'egli.
Fuori, la via deserta luceva nel
sole di marzo. La irrequieta dama, invece di salire in carrozza, si portò i
suoi due compagni, a piedi, sotto gl'ippocastani del passeggio pubblico, già
tutti spruzzati di verde. Il Prefetto s'informò con una faccia ossequiosa se la
signora fosse cugina degli Scremin. Udito che no, si volse all'altro: «Allora è
Lei?» diss'egli. «No, neppur Lei? Dio La honservi!» Dopo un mese di residenza
nel suo minuscolo principato egli s'era fitto in capo che tutti i nobili vi
fossero, fra loro, poter del mondo, almeno «hugini!» Immaginava con terrore le
loro affinità e parentele come un garbuglio inestricabile, un'arruffata matassa
enorme che a tirarne un poco il menomo filo vien tutta addosso. Perciò non
s'attentava mai a parlar di nobili con altri nobili senza infiniti riguardi e
cerimonie. Voleva dunque sapere quanto valesse questo nuovo consigliere
clericale, questo genero senza moglie, di questa suocera senza figlia. Non lo
conosceva affatto, non s'era mai incontrato con lui neppure in una visita. E
perché, Dio bono, quest'uomo che non si vede sta in casa di questa donna che
non parla?
Tanto la dama politicante quanto
il cavaliere di spirito possedevano una scienza minuta di tutti gli Scremin e
persino dei loro domestici, dal famoso Federico ch'era stato licenziato dal
Vescovo per causa di certa piacente pollivendola, sino alla guattera, cugina
della bella Matilde di casa X, tanto cara al padrone. Sapevano quanto la
vecchia marchesa spendeva il mese nello zucchero e nel caffè, e a quale altezza
favolosa giungevano le calze del marchese. Avrebbero potuto offrire al Prefetto
la completa biografia del nuovo consigliere, ornata di un ritratto cui non
sarebbe mancato un pelo. Forse gli sarebbero soltanto mancate certe ombre
recondite nell'occhio, inafferrabili dal loro intelletto e di pochissimo conto
per l'amministrazione provinciale.
Ma nessuno dei due s'attentò
d'istruire il Prefetto in presenza dell'altro che lo avrebbe poi raccontato al
mondo. Convien dire altresì che se non eran parenti né amici degli Scremin,
sentivano però di avere un decoro comune con quei nobili di vecchia razza e il
linguaggio poco riguardoso del Prefetto li aveva turbati come un leggero urto
di contraccolpo all'aristocratico sedile onde assorbivano, dissimulandolo,
coperte, intime dolcezze. Il nobile signore arguto poteva bene burlarsi degli
Scremin in privato, come fece poi quando gli riescì di cavare a Federico la
storiella dell'uovo, ma in pubblico era un'altra cosa e quando gli capitava
d'incontrar la carrozza della marchesa Nene, salutava solenne e compunto come
se passasse una persona della Sacra Famiglia. Così il Prefetto poté solamente
sapere che Piero Maironi, nato dalle nozze poco savie del nobile Franco Maironi,
bresciano, con una persona inferiore, orfano dall'infanzia, era stato pupillo
del marchese Scremin suo parente per parte di una defunta marchesa Scremin
maritata Maironi, bisnonna del giovane; che aveva sposato l'unica figliuola
degli Scremin; che sventuratamente la giovane signora, colta pochi mesi dopo il
matrimonio da grave malattia mentale, giaceva da quattro anni, senza speranza,
in una casa di salute. Il marito non se n'era consolato mai, non andava in
società, viveva ritiratissimo, frequentava molto le chiese, studiava molto.
Ricco assai per la eredità della bisnonna, più ricco degli Scremin, non si
occupava punto de' suoi affari, largheggiava in beneficenze.
Il povero Prefetto sarebbe
rimasto male se, partita la dama col cavaliere nel coupé che li seguiva, avesse udito l'arguto
gentiluomo commentar piacevolmente il suo copricapo, un Pantheon, e,
rifacendogli il verso, la sua larga cravatta: «Un vero hollare di haval di
harretta dello Stato!». Quanto a Maironi, né il cavaliere né la dama lo potevano
soffrire, e dopo servito il Prefetto si sfogarono sul nuovo consigliere, un
antipatico, un baciapile, un orso, uno strambo, un ambizioso coperto che
probabilmente sapeva collocare le sue beneficenze a frutto. Il cavaliere
neppure voleva credere alla santità di un uomo giovane, da quattro anni
ammogliato e non ammogliato. Povero cavaliere, povera dama, essi pure sarebbero
rimasti male se, due minuti dopo saliti in carrozza, avessero udito il capitano
Reggini di Nizza cavalleria, famoso cinico, affrontar sotto gli ippocastani il
Prefetto, suo compaesano, a questo modo: «O che ci faceva Lei, commendatore
mio, fra quella vecchia scatola e quel coperchio? Per causa Sua non
combaciavano!».
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