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La marchesa Nene non si trovò col
marito sola e sicura dalle curiosità domestiche se non assai tardi nel
dopopranzo, poco prima dell'ora di conversazione. «L'ovo!» diss'egli umile,
quando sua moglie lo interrogò con un lugubre cipiglio. «Tasi, xe vero, lo go
tolto mi. No magnarme, son andà in oca. Cossa vustu? Son andà in oca.» Egli
offerse, nella sua mansueta virtù, una confessione pubblica in cucina.
«Sempiezzi!» brontolò la moglie, accigliata. Il marito, molto superiore a lei
di cultura e molto inferiore d'animo, largamente fornito di ambizioni a lei
sconosciute, sapeva camminar bene certe mobili vie delle nuvole e anche certe
altre vie sotterranee, certe gallerie elicoidali che potevano condurre piano
piano su qualche cima dominatrice il suo carico di desideri e di scrupoli, ma
non era mai riuscito ad impratichirsi delle vie comuni dove il volgo cammina
spedito, anzi non sapeva raccapezzarsi neppure in casa propria dove camminava
spedita sua moglie. Invece costei, natura complicatissima d'intelligenza e di
tardità, di larghezza e di parsimonia, di gentilezze poetiche e di fermezze
quasi dure, nata immune da fantasie, da passioni e anche da egoismo, ma curante
di sé e pur sempre tenace, in palese o in segreto, de' suoi propositi, pronta
alle franchezze difficili e custode gelosa degl'intimi propri pensieri,
possedeva un senso acuto dell'angusta realtà dentro la quale chiudeva l'energia
instancabile de' suoi affetti oscuri e profondi, i suoi disegni sapienti e i
suoi discorsi insipidi.
Ella era devota al marito, come
al solo uomo cui avesse pensato mai; devota a quella felicità del marito che
nel campo morale rispondeva non tanto ai desideri di lui quanto alle idee di
lei. Le inettitudini di Zaneto alla vita pratica la irritavano nel suo segreto.
Né una discreta fama di archeologo, né l'ambito seggio in Senato, né un
portafogli di ministro avrebbero scemato d'un atomo la occulta disistima
ond'era partito adesso quello scatto: «Sempiezzi!». Un'ombra di malcontento le
restò in viso per tutta la serata, benché di tempo in tempo il vecchio sposo
cercasse farle, quasi di soppiatto, qualche amabilità, e benché la
conversazione dei soliti amici, preti e piccoli borghesi, clienti della nobile
famiglia, fosse più vivace del solito.
Il salotto di casa Scremin era
una specie di laboratorio dove si recavano ogni sera, per la descrizione e
l'analisi, parole raccolte per le altre case e per le vie, parole di
riconosciuti proprietari, parole vaganti senza padrone, ogni voce da cui si
potesse spremere qualche curioso fatto altrui, qualche sospetto solleticante,
qualche materia oscura ove far comparire, mediante reagenti opportuni, le ombre
mobili di un intrigo, ove trovar col fiuto le orme di una persona nota e
seguirla poi all'odore e pungerla se possibile nella sua via nascosta e
morderla un poco, tanto da gustarne anche il sapore o almeno da cogliere
qualche minuscolo filo delle tenui trame di commedia che la vita continuamente
ordisce, sperde e ricompone intorno a ogni persona umana. Il laboratorio non
mancava né di sali né di acidi. Vi si faceva della maldicenza misurata e
garbata su tutti i peccati del prossimo salvoché su quelli di amore.
I peccati di amore non si
potevano assolutamente introdurre nella conversazione. Se i due o tre più
liberi parlatori della brigata si arrischiavano a infrangere il divieto, subito
il marchese Zaneto alzava la voce: «Ta ta ta!» e accadeva ben di rado ch'egli
fosse costretto dalla protervia di un ribelle a continuare di galoppo e più
forte: «Taratatà, taratatà, taratatà!». Il buon uomo, che avrebbe avuto una
spiccata inclinazione a mettersi con i farisei e a lapidar l'adultera, non
usava altrettanto rigore che per le espressioni poco esatte in materia di fede.
Quando non si trattava di malcostume né di dogmi lasciava correre. Guardingo
egli stesso in ogni sua parola, pareva quasi compiacersi che gli altri non lo
fossero altrettanto. Una certa dose di sale comune l'avevan tutti. C'era poi un
burbero giudice in pensione che aveva sempre in pronto il sale amaro e c'era un
vecchio lungo, magro, giallo, arcigno, che veniva assiduamente con una moglie
lunga, magra, gialla, malinconica e che non parlava se non per schizzare
qualche goccia di acido.
Quella sera i chimici di casa
Scremin avevano nel crogiuolo il fiore del mondo elegante, l'Olimpo della
piccola città. Trattar quest'Olimpo con acidi e sali era il loro più squisito
piacere. Da buoni botoli borghesi non si pigliavano alcuna soggezione della
grossa bestia rampante sullo stemma di casa. La marchesa Nene non pareva tener
gran fatto alla bestia; il marchese Zaneto, affabile e umile con tutti, sapeva
coprir bene un certo debole per essa. I nobili coniugi appartenevano a un
gruppo scuro, pesante, malinconico di nobili codini, fra i quali e l'Olimpo dei
ricevimenti eleganti, dei balli, dei pick_nicks, del lawn_tennis,
del pattinaggio, le relazioni erano scarse e fredde. Un prete bonario, assai
curioso e ambizioso cronista, mise fuori, appena venuto, la sua ghiotta
primizia: «Dunque, picche nicche, gnente!». Subito il signore acido e il
signore amaro, che quando potevano mordere il prete ci avevano un gusto matto,
esclamarono: «Vècia, vècia! Barba, barba!». Il prete, sbalordito, irritato,
rosso, affermò che la risoluzione di mandar tutto a monte era stata presa tre
ore prima, alle sei, e i suoi tormentatori perpetui replicarono che alle sei e
mezzo se n'era parlato al caffè e che il picknick era andato in fumo per causa dei forestieri
di villa Diedo. «Vedìo, che no savì gnente!» fece il prete trionfante. Egli
aveva una versione diversa. «E la mia xe sicura!» Una gran dama anfibia, tutta
chiesa alla mattina e tutta Olimpo alla sera, aveva raccontato il fatto a suo
marito in presenza del medico di casa, e il medico, amico del prete, lo aveva
incontrato, gli aveva detto: «Vai a casa Scremin, stasera? Conta questa». E il
prete cominciò solennemente, in lingua aulica:
«Bisogna sapere che parecchie
signore avevano posto per condizione che il picche_nicche si facesse di
domenica per rispetto alla quaresima.» «No credo un corno» brontolò il signore
acido. Gli altri zittirono, il prete ribatté in dialetto: «La fazza de manco» e
risalì subito sul suo pulpito dell'italiano, pulpito, per verità, un po'
sconnesso e sdrucciolevole.
«Dunque si sceglie domenica;
questa che viene. Intanto succede che Pittimèla, Loro sanno chi è, incontra a
passeggio i Zigiotti, marito e moglie, e, da balordo, li invita. I Zigiotti,
figuremose!, beati, beati! La cosa si spande, succede un putiferio. Nessuno
vuole i Zigiotti, specialmente le signore. Pittimèla prende una fila di titoli,
ma come si fa? dicono i promotori del picche_nicche, i direttori. "Come si
fa?' dice una signora. "S'intima a Pittimèla, poiché ha fatto la frittata,
che se la mangi e che ci liberi come può.' Un'altra dice: "Si pianta anche
Pittimèla'. Un'altra dice: "Si manda tutto a monte'. Una quarta non dice
niente, ma subito, ticche tacche, si ammala.»
«Benone!» brontola il signore
amaro. «S'indovina chi è.» «La tale!» dice il signore acido. «Mi no so gnente!»
esclama il prete. «Eh caro, come se no lo savesse tuti che fra so marìo e la
Zigiotta...». «Ta ta ta, ta ta ta!» squilla in furia il marchese Zaneto.
«Avanti, don Serafin.» E il prete continua: «I promotori, disperati, non sanno
a che santo votarsi. Però, adesso vi dirò come stamattina tutto pareva
accomodato per modo che alle tre una Commissione andò a villa Diedo per
invitare i signori Dessià!.» «Dessalle!» interruppe qualcuno. «Va ben, va ben,
de sal, de pevere, de quel che i xe.»
Appena uditi nominare i Dessalle,
i forestieri di villa Diedo, il signore acido che li aveva designati come
colpevoli della catastrofe e s'era udito smentire dal prete, cominciò a
storcere la bocca, il naso, tutti i muscoli del suo viso di cartapecora, con le
più lugubri e fantastiche smorfie. Don Serafino lo guardò e prima ancora che
colui aprisse bocca, gli disse: «La spèta!».
«Mi no parlo, benedèto!»
Il prete riprese:
«Fatalità volle che i signori
Dessalle aspettassero amici da Venezia proprio per domenica.» «E dunque?»
brontolò colui che non parlava. A misura che don Serafino veniva raccontando come
per effetto del rifiuto dei Dessalle si fossero divise le opinioni circa il
fare e il non fare il picknick, il signore acido e il signore amaro lo
interrompevano sempre più forte: «E dunque? E dunque?». Qualche altro più
sommesso «e dunque?» scattava qua e là dall'uditorio. Per un poco il prete andò
avanti e poi, perduta la pazienza, si mise esemplarmente a gridare: «Pazienza!
pazienza!». Quindi scese dal pulpito: «Le lassa andar avanti, Le lassa, corpo
de mi solo!» - «Zitto, zitto, buoni, buoni!» gridava Zaneto. Ma quando il
prete, rosso come un gambero, abbaiò che non sapevano niente, no, niente; e che
per il rifiuto dei Dessalle si era dibattuta da capo la questione Zigiotti; e
che per causa della Zigiotti «tin tun tan para martella, i ga mandà tuto per
aria», allora gli altri si misero ad abbaiargli contro che senza il rifiuto
Dessalle non sarebbe tornata in campo la questione Zigiotti e abbaiarono tanto
forte che Zaneto diede un gran colpo di timone e voltò il discorso verso il
naso del signor Carlino Dessalle. «L'ho visto una volta sola, ma un gran naso!»
«Non lo tocchi, marchese!» esclamò l'uomo acido.
«Tutto dev'essere perfetto a casa
Dessalle; anche i nasi. Forestieri, marchese, gente che invita, gente che
spende, signor mio! Adoriamoli, ungiamoli, lecchiamoli, andiamo in visibilio,
andiamo in deliquio! Che distinti, che amabili, che cari, che spirito, che
bellezza! Ella, marchese, mi parla del naso di lui, ma giurerei che qui si
trova bello anche il naso di lei!»
«Peuh!» fece don Serafino, come per
dire che questo secondo naso non gli pareva poi tanto obbrobrioso.
«Ma sì, caro! Sente, marchese?
Anche il clero! Ci perde la testa anche il clero, ci perde! Eppure quella è
gente che non va a messa. Gente, ute religion, che qua se ghe dise pamòi».
Questa parola pamòio che nel dialetto del luogo significa tanto
una zuppa quanto una persona di dubbia ortodossia, forse per le parvenze
incolori, per la poco nutriente virtù di un tal cibo e di un tal credo, fece
succedere un altro tafferuglio. Il prete gridava: «Cossa vienlo fora? cossa
m'importa a mi che i sia pamòi o che no i sia pamòi? Cossa ga da far i pamòi
col naso?». Il censore bilioso gridava: «Sissignor, sissignor, pamòi, pamòi!
Pamòio lu e pamòia ela!». Gli altri ridevano e li aizzavano. Zaneto, fra
ridente e contrito per la mala riuscita della sua manovra, cercava metter pace.
Durante la zuffa un signore ossequioso seduto presso alla marchesa Nene le
domandò sommessamente il suo parere. La marchesa, che lavorava di calze, non
alzò gli occhi dai ferri e rispose:
«Mi no vado a zavariarme.»
La vecchia marchesa non si
«zavariava» mai, ossia non si dava mai fastidio per ciò che non la riguardava.
Così almeno pareva; perché nel fondo dell'anima sua vi era una quantità di
celle segrete e chiuse a chiave dov'ella custodiva note raccolte in silenzio su
tante cose cui non pareva badare, fila intricate di tenebrosi disegni per il
bene di questa o quella persona in qualche caso futuro e incerto, simpatie e
antipatie non confessate mai, giudizi sugli uomini e sulle cose tenuti occulti
ma inflessibili e duri come il bronzo, idee parte diritte, parte storte che
davano qualche rara volta, nei colloqui più intimi, parole impensate, ben
diverse da quei comuni ferravecchi di cui teneva un magazzino in bocca. Ella
era, del resto, imbronciata, quella sera; e il marchese Zaneto, con la sua
coscienza tutta intrisa dell'uovo illegittimo preso per distrazione in cucina,
colse il tempo in cui gli altri, infervorati nella disputa per i nasi Dessalle,
non badavano a loro, si accostò alla sua sposa, si mise a farle delle moine
contrite che la seccarono. «Va là! Lasciami stare!» diss'ella brusca. «Non far
sciocchezze!» Il pover uomo si voltò mogio mogio a don Serafino che stava
rimbeccando un interruttore. «Abramo? Cossa vienlo fora con Abramo questo qua,
adesso?» «Sì», rispondeva colui: «Abramo e Rebecca, no, e Sara, cossa xela!»
Poiché i Dessalle si erano fatti conoscere come fratello e sorella, s'insinuava
benignamente che qualche Faraone avrebbe forse potuto dire una cosa diversa.
Più voci protestarono. I Dessalle erano conosciutissimi a Roma e a Venezia come
fratelli, orfani di un ricchissimo banchiere di Marsiglia e di una Guglielmucci
romana.
Don Serafino diceva di non
saperne se fossero pamòi o no.
Avevano invitato il loro parroco a pranzo, certo, e largheggiavano con lui di
danaro per i poveri. La signora gli aveva anche offerto qualche cosa per la
chiesa. «Una santa!» brontolò l'uomo acido con un ghigno pieno di reticenze.
«Oh no se sa po gnente!» esclamò don Serafino. «Ela, no La sa gnente!» ribatté
l'altro: e si fermò lì per paura dei «ta ta ta» di Zaneto. «E pur la gavarà i
so trenta» brontolò il signore amaro, a epilogo di parole taciute. Allora gli
scoppiò da ogni parte un fuoco vivo di «Cossa, trenta? Cossa, trenta?» «Venticinque!»
«Vintidò!» L'acido venne in soccorso dell'amaro: «Mo sì! Undese! Diese!».
Al battere delle undici tutta la
brigata si rovesciò in frotta dal salotto sulle scale. Nell'atrio del palazzo
cominciarono i bisbigli sul muso lungo della marchesa. Che diavolo aveva?
Appena uscito lo sciame sulla via sopraggiunse l'ultimo amico di casa che s'era
indugiato con Federico sulle scale appunto per spillargli il segreto del muso
lungo. Sopraggiunse correndo, ridendosi nel bavero rialzato, fregandosi le mani,
ripetendo a se stesso: «Bela, bela, bela, bela!». Subito gli furono tutti
attorno, tutti sorbirono con voluttà il famoso uovo, tutti fecero eco: «Bela!
Bela!» meno don Serafino che trattandosi di materia molto delicata, rideva con
riserbo e diceva solo: «Povareta! Povareta!» in tono di blando compatimento.
Dopo il muso lungo della marchesa venne la volta della lucerna. «Che puzzo di
petrolio! Che indecenza!». «E il caffè?» esclamò don Serafino. «Non era proprio
acqua sporca, stasera?» Anche qui gli amici fecero eco; solo il signore acido
sostenne ch'era acqua pulita.
Il prete raccontò che in passato
aveva fatto qualche osservazione a Federico. Federico s'era scusato accusando
la padrona. «Avarizia cagna, sior.» Ogni mese, appena pagato il conto del
droghiere, la padrona andava in cucina a predicare sul caffè troppo forte.
Ripagata così la ospitalità degli Scremin dove quei piccoli borghesi gustavano
da lunghi anni un odore, un sapore di padronanza sulla nobile casa molto
voluttuosi ai loro sensi democratici, la brigata si sciolse sotto il fanale di
un crocicchio, si sparse per tre o quattro vie deserte. Di qua l'uomo acido
riprese il tema Dessalle brontolando con l'asprezza di una stizzosa virtù cose
da fare spiritare quattro Zaneti e strillar «ta ta ta» anche alle vecchie
metope del Cinquecento, che dall'alto delle cornici palladiane guardavan giù
nella via. Di là era l'uovo che si frullava da capo fra bisbigli e risatine; e
si ricommentava l'uscita di Zaneto dalla confraternita del Duomo. Poi si faceva
l'autopsia del vecchio amico per trovargli l'ulcus senatorium e l'uomo amaro andava ripetendo: «Mondo! Tuti
compagni! Mondo!». «Caspita!» diceva un altro: «Un ovo de matina, la quaresima!
Atenti ch'el se fa turco!» Poi vennero in campo certe promesse di Zaneto al
deputato del collegio. Figurarsi, Zaneto che dopo il 1870 non aveva mai votato!
Parlarono anche di pratiche fatte per lui dal deputato del collegio presso una
dama romana amica di due ministri.
«Capìo?» diceva uno. «Amiga de
do! Figurève che dama! altro che ta ta ta!» Un altro alluse discretamente a un
potentato della città, a un uomo politico detto per antonomasia il
Commendatore, basso di statura. «Sì, ma se el picoleto no lo aiuta!...»
Per una terza straduccia don
Serafino trotterellava verso il suo umile nido insieme a un compagno che aveva
nidificato negli stessi paraggi. Anche questi due frullarono l'uovo ma con
mansuetudine. Si figuravano i rimorsi di Zaneto per lo scandalo dato. «Perché
l'è un santo omo, savìo!» diceva il prete. «Perché mi so!» E raccontò al suo
compagno atti di ascetismo compiuti dal marchese Scremin in segreto. Ci aveva
in corpo quel baco del Senato, sì; un baco guastamestieri! Don Serafino stava
considerando minutamente, a bassa voce, il disgraziato baco e i suoi malefizi,
quando, allo svoltar d'un canto, il suo compagno lo interruppe con un colpo di
gomito. Quegli aveva sfiorato, svoltando, un signore astratto che svoltava nel
senso opposto, e camminava adagio, con le mani nelle tasche del soprabito.
«Gala visto el consiglier!»
diss'egli, fatti pochi passi.
«Mi no. Che consiglier?»
«Eh, cosso! Maironi!»
Maironi! A quest'ora! Da queste
parti! Dove sarà andato? In conversazione non si vede più. Tanti lo trovano più
distratto, quel giovine, più cupo. Ogni mattina a messa, ogni sera alle
funzioni, ogni otto giorni ai Sacramenti. È sempre stato pio ma non a questo
punto. E carità, carità senza fine. «Perché mi so!» La sua disgrazia, sì! Ma
insomma non è cosa nuova, son quattro anni, adesso.
No, non poteva esser questo. Un
buon giovine, ma un po' strano anche lui, sapete. Il sangue non è acqua, dicono
che sua madre sia stata una testa calda, e suo padre: hèhèoli! Buono,
però! Ecco, un santo davvero. Una fede, una carità! E devoto alla causa!
Clericale proprio di quei convinti, capite; perché, inter nos, anche fra
i nostri della zizzania ce n'è! C'è chi tira alla scarsella e c'è chi tira a
far chiasso, a farsi un nome, un'influenza. Pochi, ma ce n'è! Quello lì no; eh,
quello lì! E talento. Talento grande. - Qui don Serafino si fermò sui due
piedi, cavò la tabacchiera e, ficcate le dita nel tabacco, soggiunse con
importanza: «Adesso lo femo sindaco, capìo».
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