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Intanto il signore astratto si
avviava con un'andatura stanca verso il palazzo Scremin. Trovò il portone chiuso,
spento il gas nell'atrio, spento il gas sulle scale. Entrò nel suo
appartamento, al primo piano, in faccia a quello abitato dagli Scremin. Si
stava levando il soprabito nell'anticamera quando fu leggermente bussato
all'uscio. Aperse. Era la giovane cameriera della marchesa Nene, una figurina
snella e alta, bionda, vestita di scuro, con i capelli arruffati sulla fronte.
Egli impallidì, le domandò, tenendo la maniglia dell'uscio, che volesse. La
ragazza lo fissò, pallida anche lei, con due belli occhi azzurri, arditi nel
fondo, velati di dolcezza. «Scusi un momento» diss'ella. «C'è una cosa.» Si
guardò, con una mossa rapida, alle spalle e ripeté: «Le avrei a dire una cosa».
La voce, un po' fioca, un po' grossa, era tuttavia musicale. Il giovane esitò un
momento, poi mormorò: «Avanti» e si fece da banda. La camerierina passò
sfiorandolo col suo odor tepido di capelli giovani e di persona monda, sussurrò
un «grazie» pieno di senso, pigliò il soprabito del signore, s'indugiò ad
appenderlo all'attaccapanni, ad assettarvelo con leggeri colpettini delle mani
non bianche ma piccole e sottili. La lucernetta, che ardeva sulla consolle in faccia all'attaccapanni, le dorava i
capelli magnifici attorti sulla nuca come un groppo di serpi.
«C'è stato il giardiniere» diss'ella
accarezzando ancora il soprabito e parlando piano, quasi con tenerezza, come se
le parole fossero state più di quell'abito e di quelle carezze, che d'altro.
«Il giardiniere ch'è andato via.»
Per qualche momento ella non si
udì risponder nulla, e le sue mani parvero moversi incerte, a caso. Poi il
giovine disse: «Cosa...» con voce diversa dalla solita e non compiè la frase.
Ella si chinò a raccattar chi sa che, gli offerse un baleno del suo fine collo
bianco.
«Dice» riprese ancora più
sottovoce, «che forse andrà dai signori Dessalle e che i signori Dessalle
domanderanno informazioni alla mia marchesa e che allora Lei ci potrebbe forse
mettere una parola buona. Dice pure che Lei ora diventerà sindaco e che gli
raccomanda un suo figliuolo per la biblioteca.»
Si voltò, diede un'occhiata alla
lucerna che fumava, si mosse, adagio adagio, per andarne ad abbassare il
lucignolo e nel passar davanti a Maironi gli alzò in viso due occhi grandi,
vitrei, pieni di una chiara proposta. Egli fremette ma non disse niente. La
biondina si pose ad abbassar lentamente il lucignolo, giù, giù, senza sosta,
quasi fino a spegnere. Allora Maironi disse brusco:
«La signora ha suonato.»
«Ha suonato?». Colei trasalì, rialzò
il lucignolo, guardò il giovine in viso, capì subito di avere passato il segno.
«Se quell'uomo ritorna» riprese
Maironi, «gli dica che per le informazioni parlerò.»
La ragazza rispose asciutta «va
bene», se n'andò dritta e seria senza degnarlo né d'un saluto né d'uno sguardo.
Rimasto solo, il giovane si
strinse i pugni alle tempie, li batté con impeto sul piano della consolle,
ve li tenne per un momento, ansante, guardandosi nello specchio, interrogando,
quasi, l'immagine di se stesso.
Poi, a un tratto, come se avesse
paura del proprio viso, del proprio sguardo, dei propri pensieri, soffiò
furiosamente sulla lucerna, entrò al buio nella sua camera da letto, si gittò
ginocchioni sull'obliqua lama di luce biancastra che per una grande finestra il
cielo notturno gittava sul tappeto del pavimento, giunse le mani di slancio,
guardando il chiaror fioco delle nuvole.
Passati alcuni secondi, gli occhi
suoi poco a poco discesero fino al davanzale della finestra, fino all'ombra; si
fermarono come smarriti in una visione. Egli pareva immaginare con la volontà
sospesa, né consentendo né resistendo alle immaginazioni, cose che gli
togliessero il respiro. Si scosse, si gettò bocconi a terra figgendo il viso
sul pavimento. Poi balzò in piedi, accese una candela e, snudatosi il braccio
destro, lo tenne a più riprese, stringendo il pugno, sulla fiamma. Si guardò le
grandi macchie rosse delle scottature, mise un sospiro di sollievo, trasse il
portafogli, lo aperse, contemplò una piccola fotografia ovale, il viso di una giovinetta
sui diciott'anni, regolare, freddo nella espressione e tuttavia non senza una
tal quale malinconica dolcezza nell'occhio e una più spiccata fermezza nel
mento. L'acconciatura altissima, passata di moda da cinque o sei anni, lo
guastava come un goffo accento circonflesso e faceva pensare a una persona
morta. Il giovane se lo accostò alle labbra ma poi non ebbe cuore di baciarlo,
parendogli esserne indegno, depose sospirando il portafogli sul tavolino da
notte e soltanto allora vi scorse un mazzolino di violette sopra una lettera.
Il suo pensiero corse alla
cameriera toscana. Era lei, forse, che aveva scritto, che offriva i fiori. Né
volendo né disvolendo mosse lentamente la mano, tolse le violette di su la
lettera e restò con la mano in aria, tutto amaro di vergogna.
Non era una lettera, era un
cartoncino e aveva due sole parole di pugno della marchesa Nene:
17 marzo.
Piero Maironi ed Elisa Scremin,
la donatrice del portafoglio, si erano fidanzati il 17 marzo 1882 e ogni anno
la marchesa Nene, con un delicatissimo, poetico pensiero, aveva silenziosamente
ricordato così a suo genero il giorno felice, diventato giorno di lagrime. Ora,
per la prima volta, il 17 marzo era giunto senza ch'egli ricordasse. Neppure le
viole glielo avevano rammentato. Dio, e aver pensato che venissero dalla
cameriera! Ne chiese mentalmente perdono alla riverita vecchia signora con uno
slancio che subito gli mancò nella morta sfiducia montante dal fondo
dell'anima. Si coricò senza pregare, covando un disordine di sentimenti informi:
umiliato amor proprio, cruccio di non sentirsi alcuna dolcezza della vittoria
materiale sulla tentazione, rancore sordo contro Iddio che taceva, dubbi che il
suo lottare con la natura fosse inutile e stolto, dubbi di essere un miserabile
schiavo inconscio di pregiudizi religiosi e morali impressi dagli altri, e per
sempre, nella sua molle coscienza infantile, terrore e rimorso di questi dubbi,
propositi di lottare ancora. Poi, chetati alquanto i moti incomposti dell'animo
e successovi un lieve sopore, gli risalì nell'ombra interna del capo e gli fugò
il sonno l'immagine più e più viva della donna che si era offerta, degli occhi
vitrei, parlanti e brucianti.
Cacciò la visione voluttuosa, la
richiamò, la respinse ancora con più molle difesa. Ebbe, con un gran batter del
cuore, l'idea che un velo denso e molle si stendesse lentamente sopra di lui,
chiudesse il cielo. Ebbe il senso di una liberazione, di un'ebbrezza saliente
dalla terra calda, di un abbandono, di un'amorosa estasi in cui tutta la più occulta
parte dell'esser suo, una magnifica potenza intatta di passione, di gioia e di
follia gli sarebbe scoppiata dal cuore, dal pensiero, dai sensi. Diverse forme
gli lampeggiavano nella visione interna: l'ardita cameriera bionda, la bella
signora Dessalle, incontrata un giorno in ferrovia, dai grandi occhi bruni che
tanto lo avevan guardato, e altre ancora, cui egli si foggiava con violenza in
una forma sola, in un essere solo, creandole di sé con un pensato magico bacio
fra l'orecchio e il collo, creando nella cameriera come nella dama, con
irresistibile impero, la donna voluta da lui, animando della propria sua fiamma
la donna da lui uscita e da riaspirare in sé. Balzò a sedere sul letto. Nel
silenzio della notte, nel lume tremante della candela le stesse cose intorno a
lui parevano guardarlo attonite. Scese, aperse la finestra, bevve l'aria
fredda, scura e muta.
Ore dalla torre di città: una,
due. Silenzio. Ore dalla prossima chiesa: una, due. Paiono voci tristi e gravi
che si scambiano un lugubre saluto claustrale: memento. Altre voci
solenni, vicine, lontane, nell'interno stesso della casa, ripetono: una, due: memento.
Maironi si fece macchinalmente il segno della croce, mormorò macchinalmente:
«Et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo, amen».
Sentì la preghiera cader senza
eco nel mistero vuoto e sordo, giunse le mani, chiamò a sé, quasi per un cieco
istinto, due persone non conosciute mai, immaginate in diverse forme infinite,
talvolta dimenticate, talvolta desiderate intensamente, strette a lui dal più
tenero affetto, ma impedite di rispondere al suo richiamo, dormenti l'ultimo
sonno nel povero camposanto di Oria in Valsolda: «Madre mia! padre mio!».
Si ricordò di avere una lettera
urgente a scrivere, volle farlo subito. Si trattava di rispondere a monsignor
De Antoni, canonico del Duomo, ch'era venuto il giorno prima da lui con una
missione segreta di S.E. il Vescovo. La maggioranza clericale del Consiglio,
uscita dalle recenti elezioni, avrebbe corso pericolo di vita se non metteva alla
luce il giovane sindaco da lei concepito. Questo frutto restìo del suo seno era
Piero Maironi. Le pratiche fatte presso di lui prima dell'elezione non avevano
approdato; Maironi non voleva saperne, l'aveva dichiarato a monsignor De
Antoni. Il mansueto monsignor De Antoni a forza di spiccicare durante le sue
proteste dei vischiosi «ben, ben, sissignor, sissignor», a forza di sorrisetti,
di contorcimenti, di blandi «ho capito» e di vispi «facciamo così» aveva
ottenuto una proroga alla risposta definitiva. Ora Maironi era impaziente di
sbarazzarsi del tutto. Se si era lasciato portare dagli amici per disciplina di
parte e anche per un desiderio indefinito di moto e di lavoro, non voleva però,
nuovo agli affari, esser posto a capo dell'amministrazione comunale in un
momento difficile, in cui la sua inesperienza poteva costar cara al partito e
più al pubblico.
Gli ripugnava pure di lasciar del
tutto, sui due piedi, l'abito di vita bigia che portava da quattro anni.
Qualche altra cosa gli ripugnava forse nell'offerta degli amici, cui neppure
voleva confessare a se stesso. Ed era ritornato a casa, quella sera, col
proposito di scrivere subito, per finirla.
Nel pensare, con la penna in
mano, le frasi di cui vestire i suoi argomenti per modo che persuadessero il
Vescovo al quale la lettera sarebbe stata indubbiamente mostrata da monsignor
De Antoni, nel cercare gli epiteti delle difficoltà, dei pericoli, delle cure,
delle angustie che lo avrebbero atteso sullo scanno sindacale, un pensiero
nuovo gli si affacciò alla mente. E se accettasse? Se le difficoltà, i
pericoli, le cure, le angustie potessero cacciare i fantasmi amorosi, e
voluttuosi che lo assediavano? Se questo dubbio glielo ispirassero suo padre e
sua madre allora invocati? Se l'offerta degli amici e le premure del Vescovo
celassero un coperto aiuto di Dio? Pensò, pensò fino a che il capo gli
s'intorbidò di stanchezza, di sonno; e rimise la decisione all'indomani
mattina.
Egli dormiva ancora quando gli
capitò in camera, guardingo, con la faccia piena di rincrescimento e la bocca
piena di scuse, il marchese Zaneto. Aveva una tal quale necessità di parlare al
genero, non gli era venuto in mente, conoscendo le sue abitudini, che potesse
dormire ancora, gli parlerebbe adesso, se però il genero non ne fosse troppo incomodato.
Dopo il successo elettorale di Maironi il suocero lo trattava con una
officiosità così impacciata e fredda che Piero n'era seccato e aspettava sempre
di vederne comparire la cagione occulta. Udito quell'esordio, pensò: "Ci
siamo" e rispose: «Figurati!».
«Bene, ecco, due cose» cominciò
Zaneto lentamente, guardando in terra e spremendosi a più riprese, dalle guance
con la mano sinistra, le parole che parvero colar vischiose dalla bocca: «due
cose».
Aperta così la vena del discorso,
alzò gli occhi, non però in viso al suo interlocutore, e parlò un poco più
fluido:
«Sono venute da me alcune persone
del tuo partito. Dico del tuo partito
perché forse le mie idee... sì, dico, non so... insomma per intenderci
meglio. Persone ottime e anche, dirò, autorevoli. Sì sì, autorevoli.
Desideravano che io ti persuadessi ad accettare l'ufficio di sindaco. Io ho
risposto che parlerei per riferire, semplicemente. Dicono...»
Qui la voce di Zaneto cambiò,
prese l'accento caricato di chi ripetendo parole altrui, vuol fare intender
chiaro che parla così un altro e non egli.
«Dicono che sei indicato per la
posizione sociale, per la votazione stessa, che nessun altro sindaco è
possibile fuori di te, che se non accetti è un danno gravissimo della città e
così via.»
Zaneto tacque un momento, poi
guardò finalmente suo genero e lasciò cascare floscia floscia questa chiusa:
«Ecco.»
«E tu» domandò Piero, «cosa ne
dici?»
Zaneto si fece un po' scuro,
prese un'aria di Sibilla restìa e dopo aver taciuto alquanto rispose con insolita
risolutezza:
«Dispensami!»
«Eh no!» rispose il giovane
ironicamente, volendo pur aver ragione di tanta diplomazia.
«Perché dispensarti?»
Zaneto fece un gran gesto
silenzioso, menò il braccio destro in aria, sorrise come per dire «cosa serve?»
e ripeté:
«Dispensami!»
«Ci vuol tanto» esclamò Piero «a
dire che sei contrario?»
«No» rispose Zaneto, «io non sono
né contrario né favorevole. Ti dico subito che di questo stesso argomento mi ha
parlato un'altra persona per indurmi a sconsigliarti dall'accettare, ed io l'ho
pregata, come adesso te, a dispensarmi.»
«E chi era questa persona?»
Zaneto si scosse, si contorse con
un brontolìo che pareva nascergli nel ventricolo. Suo genero indovinò subito.
«Il Prefetto» diss'egli. «Non c'è
dubbio.»
«Piano, piano» fece Zaneto
sconcertato. «Io non ho detto niente e non dico niente. Del resto ieri son
venuti molti a parlarmi del tuo sindacato. Il primo è venuto alle otto della
mattina, un individuo che non conosco. - Chi è Lei? - Sono uno che suona il
pelittone in fa bemolle. - Bravo. E allora?... Se dicesse una parola a
Suo genero che sarà il nostro sindaco... se mi facesse prendere nella banda
municipale... - A mezzogiorno ne capita un altro; anche lui per avere la tua protezione,
perché tu gli faccia impiegare un figliuolo alla Posta e collocar la madre al
Ricovero comunale. Un terzo è venuto ieri a sera, un diurnista del Municipio.
Dice che fra pochi giorni sarai eletto sindaco, che vorrebbe presentarsi a te
per farti i suoi ossequi e anche per certe sue istanze particolari, ma che si
trova in condizioni miserabili di vestito e gli occorrerebbe una giacca
decente, se puoi aiutarlo. Vedi vedi, che tesoro di clienti ti fai!»
Piero lo fissò in silenzio,
leggendogli nelle pieghe dell'anima, e, finito di leggere, cambiò discorso.
«Avevi un'altra cosa, mi pare»
diss'egli.
Il marchese ostentò di reprimere
grosse ondate di riso, ostentate anche quelle.
«Sì, un'altra cosa» diss'egli.
«Un'altra cosa sicut et in quantum.»
E mise fuori l'altra cosa, non
senza sussultare ancora, tratto tratto, di riso represso.
Un ambasciatore della stessa
risma di coloro ch'eran venuti colla fascia sindacale in tasca, aveva picchiato
all'uscio di Zaneto molto più segretamente e timidamente per averne aiuto a
cavare quattrini dal genero in pro del giornale clericale. Zaneto riferì il
messaggio con lo stesso umorismo di cui aveva lievemente condite, poco prima,
le suppliche di quei tali clienti, aggiunse sale alla vivanda amara volendo
renderla impossibile al palato, non tanto per una paterna cura de' quattrini
insidiati quanto per il desiderio che il giornale più inviso alla Prefettura
non ricevesse aiuti da casa sua. «La parte mia» conchiuse il vecchio
diplomatico, «l'ho fatta.» E si alzò.
Maironi credette finito il
colloquio, ma s'ingannava. Il suocero si accostò al suo letto, gli prese una
mano, gli disse sottovoce, tutto mutato in viso: «Senti», represse a stento dei
singhiozzi come prima aveva represso il riso e poté finalmente spiccicare
queste due parole: «Quando vai?...»
«Al solito» rispose Piero, pure
sottovoce. «Posdomani.»
«E credi che la vedrai?»
«Ma no, lo sai bene che da molto
tempo il direttore non vuole più.»
Allora Zaneto ruppe in singhiozzi
più forti. Maironi sapeva che il vecchio portava veramente affetto alla
figliuola reclusa in un luogo di sventura; sapeva che quelle lagrime non si
potevano dir false. Pure, siccome il modo suo di sentire e di esprimere il
dolore era affatto diverso, le dimostrazioni così rumorose e intempestive di Zaneto
gli ferivano i nervi come a suo padre le dolcezze della süra Peppina. Il sangue che ora gli corse al viso
era proprio il buon sangue impetuoso del povero Franco.
«Oh Signore!» mormorò Zaneto
asciugandosi gli occhi con un fazzolettone biancastro.
«Cosa?» Piero trasalì. Che c'era
di nuovo, adesso?
«Oh! Una cosa, una cosa! Uno
sforzo tale che debbo fare!»
Nuovi singhiozzi, nuove lagrime,
affannosa ricerca del fazzolettone per tutte le tasche, brancicamento, molto
spiacevole a Piero, delle lenzuola, scoperta, finalmente, del sudicio coso fra
le gambe della sedia quando gli occhi si erano asciugati da sé e Zaneto non
poteva, decentemente, rimettersi a lagrimare.
«Cosa vuoi? Bisogna pur parlare.
Sai che il termine dopo il quale tu puoi conseguire il capitale della dote
di...»
Una pausa, una contrazione del
viso, una vittoria della volontà.
«... scade l'anno venturo.
Occorre dunque parlarne. Ora ti confesso che nelle mie condizioni il metter
fuori questa somma...»
Piero lo interruppe. Ma di che si
crucciava mai? Ma che termini, che scadenze! Facesse il comodo suo. Allora il
buon Zaneto s'impelagò in un mar di parole ingarbugliate, né avrebbe
riguadagnata la riva senza il soccorso altrui. In sostanza quel chieder la
proroga dell'affranco della dote non era stato che un esordio, una introduzione
alla proposta di addossare per l'avvenire al genero il pagamento della
ricchezza mobile. Piero capì subito che il pover uomo recitava male una
lezioncina spuntata, meditata e composta dentro quel duro e freddo bernoccolo
degli affari che fioriva sotto le trecce grigie della marchesa Nene, in
amichevole compagnia con parecchi altri bernoccoli di opposta indole.
«Ma tutto quel che volete!»
diss'egli, sdegnoso.
«Abbi pazienza» fece il povero
Zaneto. «Abbi pazienza. Le cose bisogna dirle, eh!»
Cavò l'orologio, trasalì, fece
«ohe, ohe!» e scappò dicendo che aveva l'impegno di andare con la Nene in Duomo
alla novena di san Giuseppe.
Uscito Zaneto, Piero pensò
lungamente guardando nella sedia vuota la impronta sincera del suocero pesante,
lo sgualcimento scandaloso e ignobile, senza velature diplomatiche, senz'alcuno
di quegli accomodamenti studiati ch'erano familiari a Zaneto quando intendeva
produrre impressione in altrui con una parte diversa di sé, con la parte superiore
e più degna. Poi si vestì e scrisse la seguente lettera a monsignor De Antoni:
Monsignore, Voglia, La prego,
informare monsignor Vescovo che se i miei colleghi penseranno proprio di
chiamarmi a quell'ufficio malgrado le mie scarse attitudini e la mia totale
inesperienza della cosa pubblica, lo accetterò. Gli dica pure che confido molto
nelle sue preghiere. Mi raccomandi a Dio, monsignore, anche Lei.
Suo devotissimo
P. Maironi
Rilesse e si disse: «Fino a qual
punto sono sincero? Fino a qual punto sono ipocrita?».
Entrò Federico recando una
lettera.
"Qualcuno' pensò Piero,
"che suonerà il pelittone in mi.' Si disdisse subito. Era una busta
di carta pergamena, leggermente profumata di violetta, con questo semplice
indirizzo: - Signor Maironi - a
caratteri grandi e sicuri. Chi l'aveva portata? Un cameriere dei forestieri di
villa Diedo.
Piero aperse e lesse:
Signore, Un tale Pomato ci si
è offerto per giardiniere asserendo di essere stato lungamente al Suo servizio.
Mi permetto di chiederle, a nome pure di mio fratello, ch'è assente, qualche
informazione circa l'abilità e l'onestà di quest'uomo. Gradisca le mie scuse
per l'incomodo che Le reco.
Jeanne Dessalle
P.S. Sono in casa il lunedì e
il venerdì dalle cinque alle sette.
Federico domandò se vi fosse
risposta. Maironi tacque, assorto nelle due righe discrete, significanti del
poscritto. Egli aveva viaggiato due mesi prima in ferrovia con una giovane
signora elegantissima, dai lineamenti molto spiccati, ma bella, dagli occhi
grandi, intelligenti e dolci che troppe volte si erano incontrati con i suoi e
gli erano poi rimasti parecchi giorni nel cuore. La signora era discesa con lui
e nello staffiere in livrea che ne aveva preso la valigetta egli aveva
riconosciuto un antico domestico di casa Scremin, passato al servizio dei
Dessalle. Adesso i due grandi, intelligenti, dolci occhi gli si erano riaperti
nel cuore.
«Risposta?» diss'egli, guardando
ancora il poscritto. «No, adesso no.» Ma poi, quando Federico era già uscito,
lo richiamò: «Aspetta, sì, c'è risposta». E scrisse:
Signora,
Il Pomato fu veramente al
servizio del marchese Scremin, mio suocero. Lo credo abile. Ho inteso dire che
fa professione d'idee socialiste. Non so che gli Scremin abbiano mai sospettato
della sua probità.
Con perfetto ossequio.
Devotissimo
P. Maironi
Consegnò a Federico il biglietto
senza rileggerlo e congedò bruscamente il povero diavolo sbalordito: «va là! va
là», come se temesse di pentirsi ancora.
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