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Un servo tagliato all'antica
introdusse nella sala del biliardo il signore che aveva chiesto di don
Giuseppe. «Il suo nome, di grazia?» diss'egli.
«Maironi.»
Quegli andò in cerca del padrone.
L'uscio a vetri, che dalla sala
del biliardo mette per cinque scalini al giardino della villa Flores, era
aperto. Un languido sole d'aprile moriva sulla coperta grigia del biliardo e
sul chiaro impiantito di abete. Entrava con l'aria tepida un odor lieve della
pioggerellina fine fine che si vedeva tremolar nel sole, annebbiar le campagne
da lontano, sotto il cielo turchino. Il prato pendente in giro alla fronte
dell'edificio alto e scoperto, i grandi alberi, che fanno ala quasi a un atteso
corteo di principi, suggevano la pioggerellina dolce senza un bisbiglio. Così
taceva la casa vuota. Lì nella sala le sedie addossate alle pareti, i pochi
altri arredi simmetricamente disposti, il biliardo coperto, parevan tristi come
cose morte che serbassero il ricordo della vita.
Il domestico non ritornava. Piero
uscì sulla scalinata a guardar la pioggerellina muta, e un sentor debole di
viole gli rese la visione voluttuosa del primo incontro con la persona che ora
gli riempiva il cuore. La vide schiuder lentamente il mantello di pelliccia,
mostrar il busto squisito, odorante di viola, il mazzolino degli scuri fiori
alla cintura. Sentì lo sguardo intelligente, che gli aveva fatto allora dolere
il petto, entrargli ancora e diffonderglisi con tanta dolcezza nella persona.
«Non lo trovo, signore» disse il vecchio domestico alle sue spalle. «In camera
non c'è, nella chiesetta neppure. Sarà sul monte, forse.» Soggiunse che sarebbe
andato a rintracciarlo. Maironi non lo permise, prese egli stesso la via
dell'umile poggio che sale dietro il cortile della villa, blando verso
mezzogiorno e rigato per traverso di viti a filari, cui fende una sottile
processione ascendente di cipressi; erto, boscoso verso occidente, allacciato
da grandi maglie bizzarre di sentieri che ne legano il rotto cadere. Per uno di
quei sentieri Piero scorse calar il vecchio prete che cercava, don Giuseppe
Flores, l'ultimo della sua famiglia, il solo signore della villa deserta, del
poggio, dei bassi prati dove nel gran silenzio del mezzogiorno gurgugliavan
tacchini, schiamazzavano anitre e oche, delle folte macchie di alberi esotici e
nostrali che lì salivano i valloncelli e i dorsi del poggio fino al ciglio
degli alti vigneti.
Don Giuseppe scendeva passo
passo, leggendo, non curando le rade, fini goccioline di pioggia. Quando alzò
gli occhi dal libro, Maironi salutò accelerando il passo. Sulle prime il
vecchio prete non lo riconobbe; poi mise un «oh!» lieto, scese con vivacità
giovanile, a braccia aperte, il cappello in una mano e il libro nell'altra,
tutto lucente in viso di sorpresa e di piacere. Era un nobile viso dove le
linee maschie delle ossa inferiori e il grande arco del naso compievano
degnamente, per così dire, l'alta parola della fronte ampia, solenne; e gli
occhi scuri, vivi, dolci austeramente, pronti a colorarsi di ogni baleno, di ogni
fiamma, di ogni ombra dello spirito, dicevano la calda purezza interna, la
soavità recondita di quella parola così maestosa.
Ora scintillavano veramente,
perché don Giuseppe aveva conosciuto in Valsolda, prima del 1859, standovi
ospite di certi suoi parenti, Franco e Luisa Maironi, i genitori di Piero; e
godeva sempre di veder Piero che gli ricordava quelle elette creature, quel
poetico lago romito e i giorni suoi più sereni. S'incontravano di rado.
Prossimo ai settanta, solo, lontano dalla città nove mesi l'anno, don Giuseppe,
che aveva un tempo frequentato casa Scremin ed era stato confessore della
marchesa Nene, non ci andava quasi più. S'incontrava qualche volta con Piero
l'inverno al gabinetto di lettura o fuori porta, sulle vie solitarie della collina.
«Caro signor sindaco, caro signor
sindaco!» esclamò tutto ridente, posando le mani affettuose alle braccia del
giovane che gli stava davanti pur sorridente ma in atto di riverenza. «Che
miracolo! Come mai?»
«Lei è sempre stato così buono
con me, mi ha detto tante volte di venire, e oggi me ne sono rammentato, ho
avuto una ragione di rammentarmene.»
«Bene bene bene» fece don
Giuseppe e gli venne in mente che al Municipio volessero qualche cosa da lui,
forse imporgli la soma di un ufficio pubblico. Si avviò con l'ospite verso la
villa senza parlare, pensando a levarsi d'impaccio e preparando difese, vecchio
e infiacchito come si sentiva. Anche Maironi camminava preoccupato e taciturno.
Don Giuseppe fu il primo a sentir la molestia di quel silenzio, chiese notizia
degli Scremin. Poi si fermò e guardò Piero sorridendo con certa innocente
malizia.
«È vero» diss'egli, «quello che
mi hanno detto del marchese?»
«Cosa?»
«Che presto sarà fatto senatore?»
Piero si strinse nelle spalle.
«Può darsi» rispose. «Non lo so.
Non ne stupirei. Ma dica: io Le reco incomodo? Ella sarebbe rimasto fuori,
ora?»
Don Giuseppe protestò e si
confermò nell'idea che il sindaco fosse venuto per uno scopo determinato.
Presso il cancello del cortile convenne ai due di arrestarsi per una torma di
buoi che andavano all'abbeveratoio.
«Sudditi suoi?» fece Maironi.
«Cento volte migliori di certi sudditi miei, gliel'assicuro.»
L'accento fu così amaro che don
Giuseppe, stupito, esclamò:
«Dispiaceri? Ha dispiaceri al
Municipio?»
«No, no, no» s'affrettò a
rispondere Maironi. «Questo non importa affatto. Dicevo per dire.»
V'era dunque un'altra cosa che
importava. Don Giuseppe introdusse l'ospite nella sala del biliardo e lo invitò
a sedere.
«Scusi» disse Maironi, restando
in piedi. «Se mi permette, Le vorrei parlare.» E poiché don Giuseppe, con un
cenno di assenso, insisteva per farlo sedere lì, lo guardò un poco senza
rispondere. Il vecchio prete capì. «Come vuole, come vuole» diss'egli, e
accostatagli una mano al braccio, lo avviò verso l'uscio che metteva in un suo
freddo e umido studiolo.
«Scusi, sa» fece Maironi
sottovoce.
No, non potevano essere affari
del Municipio, quella non era la solita voce di Piero Maironi.
«Qui non entra nessuno?»
diss'egli.
Don Giuseppe chiuse l'uscio a
chiave e rispose:
«Ecco.»
Dubitava, per certe voci, che gli
Scremin fossero un po' squilibrati nelle finanze.
Una confidenza circa questo
punto? O circa la infelice reclusa? Mentre fantasticava così, Piero Maironi,
seduto accanto a lui sul vecchio logoro canapè rosso, stava silenzioso a capo
chino. «Don Giuseppe» cominciò finalmente, e stese una mano al prete senza
guardarlo, senza volgere il viso, «io sono venuto da Lei come un figlio.»
Don Giuseppe gli prese la mano,
gliela strinse commosso, con un tacito moto delle labbra, con un lampo
affettuoso del viso.
«Io ho per Lei la riverenza che
hanno tutti; sì, sì, me lo lasci dire! Ma poi ci ho anche un'affezione
particolare e Lei ne sa il perché. Ho un bisogno immenso di Lei, adesso.»
Il viso del candido, umile prete
si colorò di meraviglia.
«Bisogno di me?»
«Sì. Bisogno di Lei. Son venuto
da Lei come da un padre, ma da un padre ch'è sacerdote.»
Don Giuseppe gli riprese la mano,
gliela strinse ancora, senza parole.
«Non si meravigli di nulla, sa!
Pensi ch'io sia il penitente e Lei il confessore. Prima di tutto Le domando
questo: secondo le leggi della Chiesa, è mai possibile, in nessun caso, che un
uomo coniugato, il quale ha la moglie viva ma demente da più anni, proprio
affatto e senza speranza, ottenga il permesso di entrare in una corporazione
religiosa?»
«Eh, no.»
Maironi tacque.
«Può ritirarsi dal mondo»
s'affrettò a dire don Giuseppe, «può vivere con Dio nella solitudine, comporsi
lui una regola, santificarsi.»
La fronte solenne, gli occhi
gravi, la voce dolce e bassa spiravano ossequio al gran dolore, alla gran fede
che apparivano congiunti nel desiderio del giovane.
Maironi rispose sottovoce:
«Questo non è possibile».
Nel silenzio che seguì lampeggiò
in mente a don Giuseppe una parola dimenticata di donna Luisa Maironi Rigey, la
madre di Piero. Salivano insieme, i Maironi, i Pasotti e lui a piedi, il signor
Giacomo Puttini sull'asino del mugnaio, al Boglia per la via di Castello.
Presso Muzzaglio don Franco Maironi era uscito a dire: «Bel posto, eh, per un
monastero!». E donna Luisa aveva mormorato: «Troppo bello per gente inutile».
N'era venuta poi una gran discussione. Adesso dopo tanti anni, cose umane! il
figlio di Luisa, non ancor nato in quel tempo, sentiva il fascino del
monastero.
«Ella non comprenderà» riprese
Maironi, «perché non mi sia possibile ritirarmi dal mondo senza un abito
religioso, senza un voto. Questo dipende dallo stato dell'anima mia. Vede, io
son venuto veramente per parlarle dell'anima mia. Immaginavo che circa l'altra
cosa Ella mi avrebbe risposto come mi ha risposto. E parlarle dell'anima mia mi
è tanto difficile! Non riesco a comprendere bene me stesso. Se penso una cosa
di me mi vien subito in mente qualche ragione di pensarne l'opposta. Bisogna
che Lei mi aiuti, don Giuseppe. Soffro, sa; e Lei ha voluto bene, non è vero,
al povero papà e alla povera mamma?...»
Dicendo queste parole sorrise un
poco di un sorriso tanto triste che passò il cuore a don Giuseppe. «Sì, sì»
diss'egli, «tanto!» E tacque, esitando ancora a cercar consiglio e conforto per
una ultima resistenza dell'umiltà sua nativa.
«Mi dica» incominciò finalmente
sottovoce con un albore in volto di letizia santa: «questa idea della
professione religiosa, intendo che Le è venuta dal dolore, ma quando? Come ha
principiato in Lei?»
«Oh, don Giuseppe, non mi è mica
venuta dal dolore.»
«No?»
Il viso di Maironi, giunto dalla
tempesta interna, si scompose. La voce obbediva ancora al freno, ma tremava.
«No, don Giuseppe, sono un vile, non
sento più nessun dolore per lo stato di mia moglie.»
Don Giuseppe lo guardò,
sgomentato più ancora dal disordine di quel volto che dalle parole. L'altro
ripeté, a stento, con soffocata voce:
«Nessuno.»
Don Giuseppe aperse le braccia.
«E allora?» diss'egli quasi
severamente. Maironi scattò in piedi, andò alla finestra, vi stette un minuto
voltando al prete le spalle che sussultavano. Quando ritornò al canapè il viso
era ricomposto e la voce ferma.
«Bisogna che Le spieghi tutto»
diss'egli. «Avrà pazienza, don Giuseppe?» Alla protesta muta del vecchio,
continuò:
«Ella sa come sono entrato in
casa Scremin. Sa che restai senza padre appena nato, si può dire; perché mio
padre morì a Oria delle conseguenze della sua ferita nel 1860 e io nacqui nel
'59. Sa che mia madre morì, pure a Oria, due anni dopo, che mia bisnonna
Maironi non volle tenermi in casa e mi affidò ai suoi parenti Scremin. Il
marchese è figlio di un fratello della bisnonna. Morì presto anche lei, lasciò
erede me e nominò mio tutore il marchese. Credo che sin da quel giorno gli
Scremin abbiano pensato a me per la povera Elisa. Sono diventato uomo in casa
loro, studiando con don Paolo, com'Ella sa, senza libertà di scegliermi degli
amici, frequentando sempre la stessa gente, impregnata delle stesse idee. Io
voglio ancora bene a quell'eccellente don Paolo, ma da ragazzo, poi, l'ho
adorato. Quanto ho pensato allora di farmi religioso anch'io! Il solo odore
d'incenso che don Paolo serbava nella tonaca quando veniva a pigliarmi, dopo le
funzioni, per il passeggio, mi metteva una riverenza! E pensavo allo stato
religioso come ad uno stato quasi divino. Durante le funzioni, al suono
dell'organo, la mia delizia era di sognare la Tebaide o il Libano o anche
spesso un monastero fantastico perduto in mezzo al mare del Nord. In pari
tempo...»
Qui Piero s'interruppe.
«Mi ascolti come nel sacramento»
diss'egli sottovoce. E ripigliò:
«Dunque, io che sognavo monasteri
e vita religiosa, è incredibile come dai primi anni della fanciullezza, prima
di possedere il senso morale, fossi soggetto ad accessi strani di sensualità;
di una sensualità che la mia ignoranza, fortunatamente durata moltissimo,
rendeva cieca e particolarmente tormentosa. Quando il mio senso morale si
risvegliò, siccome poi religiosissimo ero già da prima, non Le so dire i miei
terrori e le penitenze segrete! Allora, molto molto presto, siccome per un
certo tempo dopo ch'ero andato ai Sacramenti avevo delle estasi religiose, dei
rapimenti inesprimibili, dei giorni in cui l'idea della menoma impurità mi metteva
schifo, cominciai a pensare sul serio che per liberarmi dalle ossessioni dello
spirito immondo avrei dovuto entrare in un Ordine religioso.
Una volta fui condotto a vedere
l'abbazia di Praglia, negli Euganei, che Lei conosce; dev'essere a sei o sette
miglia da qui. Là, proprio nelle logge del cortile pensile, mi venne l'idea di
farmi benedettino. Avevo quindici anni, allora. Ne parlai a don Paolo e don
Paolo mi disse ch'ero troppo giovine per pensare a queste cose. Capii da certe
vaghe parole del mio confessore che il discorso era stato riferito in famiglia,
che l'avevano preso sul serio e ch'erano contrarissimi. Infatti mi mandarono a
viaggiare con don Paolo, mi fecero condurre qualche volta al teatro da un amico
di casa. Io avevo sempre combattimenti interni, ma duravo fermo nel mio
proposito. Studiavo il latino e il greco assai volentieri ed ero contento che
il mio tutore non mi facesse seguire un corso regolare di studi perché prima
ancora di pensare a farmi frate, quando mi avevano detto che gli studi regolari
potevano solamente condurmi a diventare avvocato, o impiegato, o medico, o
ingegnere, o professore, n'ero rimasto sorpreso e afflitto. Non mi sentivo nato
ad alcuna di queste vie, avevo creduto che nel mondo ve ne fosse un'altra buona
per me, mi accoravo del mio inganno come di non saper decifrare in me stesso i
desideri che mi rendevano inquieto. L'idea di farmi religioso mi parve una
rivelazione, mi diede un benessere profondo, per qualche tempo; vorrei dire
fino a sedici anni. A sedici anni un certo senso di diventar diverso io e di
veder diverse tutte le cose, certi sguardi, nuovi, di donne, certe rivelazioni
del mondo e della vita mi sconvolsero l'anima. Però nelle mie agitazioni
indicibili di quel tempo, anche nei momenti in cui abborrivo dalla vita
religiosa, l'idea di renderla impossibile col matrimonio m'ispirava un
inesplicabile terrore; proprio terrore. Intanto mi tenevo attaccato a tutte le
esteriorità religiose, alla Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli, al Circolo
della gioventù cattolica, per istinto, perché lì almeno c'è qualche cosa di
fermo. Gli anni passavano, avrei potuto cominciare a occuparmi de' miei affari
ma non ci pensavo. Capivo che il mio tutore non lo desiderava e mi era facile
di compiacerlo: non ho affetto alla proprietà. Dal partito ero accarezzato
molto. Lei lo sa. Mi elessero vicepresidente del Circolo. Mi affidarono dei
lavori, delle traduzioni dal tedesco e dal francese di scritti cattolici, mi
parlavano sempre del mio ingegno, di uffici pubblici cui sarei stato chiamato,
di una grande parte che mi era serbata nell'azione cattolica, mi chiusero nella
loro cerchia, mi rappresentarono corrotti e pericolosi tutti i giovani non
clericali, m'insinuarono spesso idee di matrimonio con allusioni alla cuginetta
ch'era in collegio. Ciò che dovevo fare per il Circolo lo facevo senz'amore.
Non ho fatto con amore che una traduzione di Ketteler. Capivo che per l'idea
d'una legislazione sociale cristiana avrei potuto appassionarmi, ma sentivo in
pari tempo che fra i miei compagni di partito e me vi erano delle dissonanze
profonde, che un'azione comune con essi, proprio ex corde, non mi
sarebbe stata possibile. Mi pareva che avessero acqua nelle vene, acqua santa,
se vuole, ma troppo diversa da quel sangue pieno di fuoco latente che mi
sentivo io, e ricadevo in una specie di letargo, confortandomi con la speranza
stupida di una potenza ignota che maturasse dentro di me.
Quanto al matrimonio incominciai
a considerarne l'idea come un nuotatore stanco incomincia a pensare di
abbandonarsi. Avevo ventun anni quando gli Scremin levarono di collegio l'Elisa
che ne aveva diciassette. Allora ebbi un quartierino a parte, un domestico a
parte. Il marchese mi dichiarò solennemente che le convenienze volevano così;
tanto solennemente che mi parve quasi essere giudicato indegno di aspirare alla
mano di mia cugina. In apparenza ero libero. In fatto la marchesa, con tutte le
piccole buone arti che possiede, mi teneva più schiavo di prima. L'Elisa mi
piaceva come persona, mi piaceva per un certo che di enigmatico nella sua
stessa freddezza e severità, mi piaceva sopra tutto, credo, perché mi ero
accorto di piacere a lei. Però, siccome mi ero finalmente anche accorto delle
manovre di suo padre e di sua madre, n'ero seccato e mi difendevo; perché poi proprio
innamorato non ero. In questo stato d'animo, una sera, a Venezia, io che fino a
quel momento mi ero serbato materialmente puro...»
Silenzio.
«Passi, passi» mormorò don
Giuseppe. Piero ripeté:
«La reazione di vergogna e di
nausea fu violentissima. Allora il matrimonio con una fanciulla tanto pura e
severa come mia cugina mi parve un asilo di pace. Quando la sposai mi credetti
innamoratissimo di lei. Però neppure a lei ho voluto raccontare i miei
propositi segreti di una volta. Solo mi ricordo che si visitò insieme Praglia,
che il trovarmi nel cortile pensile con mia moglie mi fece un'impressione
straordinaria e che mia moglie mi domandò e mi ridomandò se mi sentissi male.
Adesso, don Giuseppe, viene qualche cosa di tanto penoso a dire! Mi pare una
viltà di raccontare certe cose quando...»
Piero non poté continuare, non
poté reprimere un singhiozzo violento.
«Ecco» ripigliò alfine, «dopo i
primi giorni mi trovai disilluso, in certe cose, riguardo a mia moglie.
Intanto, malgrado il suo affetto, aveva freddezze invincibili. Mi perdoni; a un
padre devo pur dire tutto! Non mi pareva più enigmatica, mi pareva chiusa, sì,
ma vuota. La portai in Valsolda per una visita ai miei morti, avrei voluto che
pigliasse affetto al paese, alla casa che mi è tanto cara. Invece si mostrò
gelida. Ne fui offeso amaramente. La malattia terribile incominciò con
prostrazioni, terrori, presentimenti sinistri e accessi strazianti di affetto
per me. Allora non Le so dire i miei rimorsi, mi sono disprezzato, odiato! Mi
sono proposto di adorarla, se guariva, come una creatura del cielo. Non avrei
voluto la casa di salute; cedetti perché solo a quel patto i medici mi
permettevano di sperare. Quel che ho sofferto Iddio lo sa, ma confidavo in lui,
tanto! Dopo un anno vennero certe parole dubbie, scure dei medici, che prima mi
avevano sempre confortato. La impressione fu terribile, ma poco a poco passò;
qualche momento buono di tempo in tempo c'era e bastava per rialzarmi. Mia
suocera, poveretta, aveva tanta fiducia! Nel primo tempo parlava sempre di sua
figlia come se avesse a guarire l'indomani, poi non ne parlava più, ma io
sapevo che faceva segretamente preparare in campagna un quartiere per lei.
Si figuri che vi faceva collocare
stufe perché fosse pronto ad accoglierla in qualunque momento, che vi andava
raccogliendo certi vecchi mobili stati cari all'Elisa da ragazza. Andai avanti
così un altro paio d'anni con un'altalena continua d'illusioni e di
disillusioni. Finalmente vi fu un primo momento in cui, pensando a mia moglie,
mi tornò in mente qualche suo atto, qualche sua parola che mi aveva fatto
cattiva impressione. Mi spaventai. Possibile che il mio dolore cominciasse a
venir meno? Cacciai quei ricordi come tentazioni diaboliche. Ma tornavano.
Reagii quanto potei, pregai e feci pregare più di prima, esagerai nelle
dimostrazioni. Non so, per esempio disposi la camera da letto e il gabinetto di
toeletta di mia moglie come s'ella vi fosse ancora, con tutti i suoi ninnoli, i
profumi, sino all'accappatoio sulla poltroncina. Per un po' di tempo questo mi
giovava, mi ravvivava le memorie; ma poi! Vedevo la tenerezza negli occhi de'
miei suoceri, vedevo la pietà negli occhi dei miei conoscenti. Era una cosa
terribile perché non soffrivo più, non amavo più, mi sentivo, con orrore, un
ipocrita. Non basta; prima non avrei guardato una donna in viso due volte, per
la sua bellezza. Poi...»
Il giovane si coperse gli occhi
con le mani ripetendo che voleva dire tutto, tutto! Scopertosi il viso
continuò:
«Un giorno, proprio ritornando
dal luogo dov'è mia moglie, m'incontrai nel treno con una signora giovine e
bella che certo mi conosceva perché mi avvidi subito che mi guardava con
curiosità e interesse. Quella è la prima persona che ha sospettato il vero de'
miei sentimenti perché mi parve leggerle in viso, dopo averla guardata due o
tre volte, una sorpresa, una specie di sorriso interno; capisce? Per molto
tempo non mi potei levare quegli occhi dalla memoria. M'infervorai sempre più
nelle pratiche ascetiche, pregai Dio che mi aiutasse e mi parve infatti di aver
dimenticato.»
Tutto quest'ultimo racconto
Maironi lo fece ansando, con voce rotta dallo sforzo di strapparsi dall'anima
cose tanto compresse nell'interno di lei. Don Giuseppe lo ascoltava triste,
senza guardarlo, con l'aria rassegnata di uno che non si meraviglia più, che sa
di aver ad ascoltare la solita, eterna, uniforme storia. Piero prosegui:
«Il fervore ascetico durò poco.
Qui devo anche dire che non sotto il colpo della mia sventura ma più tardi,
quando il dolore diminuiva, proprio quando mi davo più che mai alle pratiche
religiose, cominciarono a venirmi dei pensieri strani, novissimi per me, dei
dubbi circa la fede, fulminei, che mi scuotevano e che io cacciavo restandone
tutto tremante. Una sera la cameriera di mia suocera, giovane, graziosa, venne
da me con un pretesto. Mi contenni, il mio viso, le mie parole furono di
ghiaccio ed ella se ne andò, ma vi ebbe poi un momento in cui mi domandai
perché se Dio voleva proprio un simile tormento delle sue creature non le
aiutasse di più! Perché mi facesse incontrare quella signora nel treno e quella
ragazza in casa di mia suocera! Mi venivano impeti di ribellione, una domanda
insistente, acre, mi martellava il cervello: e se Dio non ci fosse? E se Dio
non ci fosse? Se tutta la mia fede fosse un tessuto di illusioni? Se io fossi
uno schiavo di pregiudizi altrui, d'idee cacciatemi nella testa quando non
potevo pensare? Se io fossi in fatto di religione una miserabile scimmia della
gente che ho sempre veduto intorno a me? Oh, don Giuseppe, don Giuseppe, mi salvi
Lei!»
Il giovine gettò le braccia al
collo del vecchio prete singhiozzando.
Don Giuseppe corrispose
all'abbraccio, sussurrò con dolcezza: «Sì, sì caro, io no ma il Signore La
salverà. Sì, confidi, confidi!».
Il servitore bussò e annunciò il
caffè. Don Giuseppe credette bene di aprirgli. Maironi riprese l'impero di se
stesso, e quando il domestico se ne fu andato continuò il suo racconto.
«Proprio quella notte mi decisi
di accettare l'ufficio di sindaco. Vi ripugnavo moltissimo, prima. Ogni volta
che ho pensato, dopo la mia sventura, a occupare in qualche modo stabile la mia
vita così vuota, a legarmi in qualche modo, mi arrestò sempre uno sgomento
istintivo. Sempre mi veniva in mente di essere destinato da Dio a qualche cosa
ch'Egli non mi rivelava ancora, sempre mi pareva di far male se pigliavo
un'altra via. Quella notte pensai che fosse bene di costringermi a tanti
pensieri nuovi, a tante preoccupazioni nuove, a lavorare assai, a occuparmi
degli altri più che di me. Guardi, mi decido e poco dopo ecco un biglietto di
quella signora incontrata in ferrovia, che mi domanda certe informazioni e mi
fa capire, non proprio chiaramente, ma copertamente, che gradirebbe una mia
visita. Ebbi come un'ondata di amarezza per questa tentazione che Iddio mi
mandava appena compiuto un sacrificio grande per serbarmi fedele alla sua
legge. Presi la penna e spedii sull'atto alla signora le informazioni
richieste, togliendo ogni ragione di visita. Poi mi diedi tutto alla
preparazione che mi era necessaria prima di assumere l'ufficio di sindaco. Mio
Dio, don Giuseppe, è passato un anno e sto ancora tanto male; se c'è per me una
via di salute, non è che questa: uscire dal mondo!»
Il giovine tacque. Poi afferrò un
braccio al prete, glielo strinse in uno spasimo di passione: «Don Giuseppe, don
Giuseppe, pensi, pensi se proprio non è possibile! Un romitaggio libero non fa
per me. Ho bisogno contro me stesso di un carcere, di quattro pareti
sepolcrali, dure, fredde, mute, e in questo momento sono ancora pronto, andrei
con gioia, domani non so! La supplico nel nome del mio povero papà, della mia
povera mamma che Lei ricorda tanto. La scongiuro!»
Fece l'atto, così dicendo, di
buttarsi ginocchioni. Don Giuseppe lo abbracciò di slancio, lo trattenne. La
gran fronte maestosa irradiava tenerezza e dolore, gli occhi erano velati, la
voce gli moriva in un movimento muto, incomposto, del viso inferiore.
«No» diss'egli a stento, dopo una
lunga pausa, «la cella no, adesso la cella non farebbe per Lei.»
«Perché? Perché?»
Il vecchio lo guardò un poco e
sussurrò tristemente:
«Perché tutte le Sue tentazioni
vi entrerebbero con Lei, perché il mondo è ancora troppo radicato nel Suo cuore
e credendo di fuggirlo Ella lo porterebbe con sé.»
«Ma forse Iddio mi aiuterebbe di
più.»
Don Giuseppe sospirò come chi si
duole di non essere creduto.
«Di questo parleremo» diss'egli.
«Intanto mi spieghi perché sta così male, ora.»
«Ecco: perché, prima di tutto, la
mia fede va molto peggio. Le ho parlato di dubbi, poco fa. Glielo dico subito,
i miei sono sopra tutto dubbi di sentimento, dubbi d'istinto, e in fondo, lo
capisco bene, vengono da un insieme di impressioni piuttosto che dal
raziocinio.
Fin da quando ero tentato nei
sensi ed ero tentato di accusar Dio che m'imponeva una legge terribile, una
legge contro la natura del mio corpo e non mi aiutava a obbedire, sin d'allora,
questa è una coincidenza che forse mi condanna ma insomma è la verità, io
cominciai a sentire fastidio di quella specie di religione che vedevo intorno a
me; fastidio degli scrupoli di mio suocero che parla sempre di umiltà
cristiana, che piega il ginocchio davanti al Vescovo e farebbe a quattro gambe
gli scalini di tutti i ministeri per esser nominato senatore; fastidio persino
qualche volta delle pratiche devote di mia suocera che con tutta la sua santità
e bontà suggerisce al marito grettezze, in materie d'affari, dell'altro mondo;
fastidio di certe persone pie che venivano a seccarsi ogni sera in casa Scremin
per mangiarvi a due palmenti una volta la settimana; fastidio di tante altre
pie persone o avare o malediche, piene di livore contro tutto e tutti o feroci
contro le povere creature che hanno ceduto a una passione illecita; fastidio di
certi formalismi farisaici, di certe idolatrie superstiziose, di certi incensi
pagani profusi a uomini. Li cacciavo allora, questi fastidi, come tentazioni
contro la carità e l'umiltà. Ah, don Giuseppe, quanto sono cresciuti dopo un
anno che sto in mezzo, come sindaco, alla parte attiva e politicante di un
partito il quale diffida già di me perché indovina qualche cosa del mio
interno! Non Le dico tutte le meschinità, tutte le piccole ambizioni, tutti i
piccoli rancori che fermentano intorno a me! Non immagini, sa, che io ammiri
gli altri, quelli che mi trovo a fronte più spesso nel Consiglio comunale,
gente pronta sempre a bravate contro persone che non schiaffeggiano né si
battono, gente prodiga di frasi sentimentali e avara di quattrini, gente che ha
paura dell'acqua santa quando vive e del diavolo quando muore, sempre a cavallo
su Roma e la monarchia liberale, di cui giurerei che almeno a tre su quattro di
loro non importa niente! Non li ammiro, ma quelli non si fanno avanti nel nome
di Dio! Di essi non mi curo. Ecco invece il mio pensiero terribile: come mai è
quest'altra gente gretta, questa gente piccina, questa gente maligna, questa
gente sciocca che possiede, proprio lei sola, la verità, il segreto di tutto
l'Essere, il segreto dell'anima umana, il segreto della nostra sorte futura?
Per un pezzo mi sono rifugiato nelle ragioni di credere che avevo nel mio
proprio cervello, nel mio proprio cuore; adesso non mi sento più sicuro neppure
lì. Mi risponda: posso io dire che la mia fede venga proprio, originariamente,
dal raziocinio mio, dal sentimento mio? Posso io dire che non vi è stata
seminata e coltivata dai miei educatori? Posso io dire - mi perdoni, don
Giuseppe! - ch'essi non mi abbiano storpiato il cervello e il cuore per farne
dei vasi di questa loro cultura artificiale, così che in fin dei conti è forse
la loro fede e non la mia che vive in me, perché io non ho mai avuto la libertà
di credere o di non credere e vado acquistandola solamente adesso? La loro
fede! Forse la fede che anche ad essi quand'erano teneri fu cacciata
nell'intelletto per forza, storpiandolo! Capisce che dubbio spaventoso! È anche
per questo che vorrei seppellirmi in un convento di Trappisti, fra uomini
religiosi che non abbiano tenuto niente per sé, che abbiano dato a Dio tutto,
che dovrei quindi ammirare, fra uomini che avranno presa la fede anche dai loro
educatori, ma che però l'hanno grandemente accresciuta in sé, per forza
propria.
Non si può, don Giuseppe, non si
può?»
«Ma no!» fece don Giuseppe, quasi
bruscamente. Il viso era freddo e grave; era il viso di un medico che uditi i
lamenti del suo infermo poco se n'è commosso, ma poi, ascoltatone il cuore, vi
ha udito nel profondo il passo zoppicante della Morte. Credette che Maironi
avesse finito e come cercando il suo esordio, con parlante moto inquieto di
tutti i muscoli del viso e delle mani raccolte davanti al petto, incominciò:
«Ecco.»
Maironi sussurrò angosciosamente,
in fretta:
«Non ho finito, don Giuseppe, non
ho finito.»
«Ah, bene bene, dica.»
L'altro non parlò subito. Era
venuto il momento delle parole più difficili, forse. Gli facevano groppo alla
gola, non venivano.
«Se crede bene di parlare» disse
don Giuseppe dolcemente, «si faccia coraggio.»
«Sì, caro don Giuseppe, mi farò
coraggio. Lei ricorda che Le ho parlato di una signora? Di una signora che
incontrai un giorno in ferrovia, e che poi mi scrisse un biglietto al quale
risposi in iscritto per togliermi alla tentazione di andare da lei? Bene...»
«Ah!» fece don Giuseppe,
sottovoce, involontariamente.
«Aspetti!» esclamò il giovine.
«Forse Lei pensa cose peggiori di quelle che adesso Le dirò. Senta, non so
perché farei misteri con Lei in un momento come questo. La signora è la
Dessalle di villa Diedo. Ne avrà sentito parlare. Male? Molto male?»
«Ecco, sì, non tanto bene»
rispose don Giuseppe imbarazzato, masticando le parole: «non tanto bene. Però
mi parve che in fin dei conti se ne parlasse vagamente, che fossero dicerie,
supposizioni...»
Qui, nel voler intravvedere la
possibile falsità della maldicenza, i begli occhi del vecchio diedero un lume
lieto. Maironi, alla vista di quel lume benevolo, al pensiero che don Giuseppe
fosse mitemente disposto verso la persona di cui gli stava parlando come di un
pericolo, riprese e strinse la mano del vecchio, lo interrogò con lo sguardo,
inconsciamente, quasi sperando una parola indulgente al suo sentimento. Don
Giuseppe non capì.
«Cosa?» diss'egli.
La benigna luce era già sparita
dagli occhi suoi. Maironi riprese triste:
«Niente. Cosa dicevo? Credo che
l'abbiano calunniata e che se in principio si son raccontate delle storie
odiose, adesso non se ne raccontino più. La credo pura. Lei sa ch'è divisa dal
marito? Ha chiesto la separazione, perché suo marito si ubbriacava e la
batteva. Pura per fierezza, sa, per orgoglio, forse anche per disgusto e per un
sentimento morale forte; per sentimento religioso, no. Dio mio, e adesso come
Le posso raccontare ciò che vi è stato fra lei e me se di atti non c'è stato
niente, se dovrei raccontare dei movimenti d'anima che sono in me, che sento in
lei, che vogliono dire tutto? Si, vedo anche nell'anima sua, perché è molto appassionata
e si tradisce molto persino quando si difende contro se stessa, quando lotta,
forse per orgoglio, contro la sua inclinazione ed è aggressiva con me. Ho
capito che la prima impressione risale per lei come per me all'incontro in
ferrovia. La prima volta mi portò da lei il consigliere delegato Bassanelli,
amico di casa Dessalle, compagno d'armi di mio padre, che zoppica per una
ferita riportata a Palestro.
Bassanelli voleva mostrarmi la
stradicciuola comunale che conduce a villa Diedo, e che il Municipio dovrebbe
riattare. Abbiamo incontrato il signor Dessalle e bisognò entrare nella villa.
Me ne venni via solo. Lei conosce villa Diedo, naturalmente? L'avrà visitata
per i Tiepolo, almeno. Nell'uscire per la terrazza di ponente, fra
quell'ondeggiar di rose sulle balaustrate, nello scender la gradinata in faccia
a uno splendore di tramonto, io avevo addosso, direi, la ubbriacatura di un
sogno strano, e avevo insieme un dolore muto, fisso, proprio nel centro del mio
essere. Avevo inteso che la signora voleva farsi amare da me, mi sentivo
attratto non per i sensi che tacevano, non per l'anima che aveva paura, ma per
una specie di fascino magnetico. Ora, e questo non l'ho capito, non lo capirò
mai se Lei non mi aiuta, l'idea di un legame spirituale, anche solo spirituale,
con la signora mi atterriva molto più che l'idea di un vero e proprio peccato
con la prima disgraziata che passa. Ritornai a villa Diedo molte volte e, per
un pezzo, riluttante, tratto, non so, dal magnetismo. Ci stavo come uno che
fosse innamorato e non credevo di esserlo; non potevo a meno di guardarla
spesso, non potevo a meno di parlarle, quando eravamo soli, come uno che
l'amasse e volesse contenersi. Intanto, devo pur dirlo, le altre mie tentazioni
mi davano tregua. Forse per questo il mio confessore mi citò un passo dell'Imitazione,
che dice presso a poco «non ogni affezione che pare non buona deve subito
sfuggirsi» e non mi ordinò di troncare. È un sant'uomo, ma, peccati a parte,
certe cose non le può intendere. Dirgliele sarebbe peggio che inutile. Ora in
quest'ultimo tempo, proprio in questi ultimi giorni, c'è stato un cambiamento.
Sento, vedo, intendo che dall'altra parte, se prima c'era capriccio, adesso c'è
passione, una passione che non dissimula quasi più. Ieri proprio me l'ha confessata
quasi del tutto apertamente. E da tre giorni temo che la passione vera stia
entrando anche in me, lo stesso mio senso morale, a momenti, si oscura. Mi
pare, a momenti, che in presenza dell'amore ogni restrizione morale cessi di
diritto, resti abolita, che l'amore li abbia tutti, i diritti. Non li accetto
ancora questi pensieri, mi fanno ancora orrore, li mando via, mi dico che se
sarei capace di consentirvi con la immaginazione non sarei però capace di
consentirvi col fatto; e c'è anche in me, ogni tanto, una reazione forte di
tutte le resistenze buone, una reazione di fede, di slanci mistici, persino di
tenerezza per la mia povera moglie, per la memoria di mio padre e di mia madre.
Il bene e il male si alternano dentro di me con una violenza che non posso più
sopportare. Vuole che glielo dica? Io non ho un po' di tranquillità, un po' di
riposo se non quando sto con questa signora. La presenza sua mi riposa invece
di eccitarmi. Dopo è peggio, questo sì. Non so neppure come posso attendere al
mio ufficio. Già la gente si deve accorgere di qualche cosa, non è possibile!
Stanotte non potevo dormire, avevo un'ora buona, pregai e piansi tanto, mi
venne in mente quest'idea di uscire dal mondo, mi parve che il Signore mi
suggerisse di venire da Lei e...»
Violenti singhiozzi senza lacrime
gli ruppero la parola. Don Giuseppe gli pose una mano sul capo dolcemente.
«No» diss'egli «no, caro. Perché?
Dolore sì, terrore no. Lei sta in mezzo alle onde e alla tempesta, ma nella
navicella vi è Cristo, sa; Cristo che dorme».
«Mi parli, mi parli» mormorò
Maironi. Gli s'inginocchiò ai piedi e il prete non lo impedì.
«Sì, caro, sì. Prima di tutto non
abbia tanta paura delle Sue tentazioni! Non si creda tentato molto più di tanti
altri che a Lei parranno sicuri del male, tutti di Dio. Le Sue tentazioni
contro la fede, intanto, per poco che Lei resista, non mi paiono temibili. Se
non ci fossero state le tentazioni del senso, così forti, e, posta la fralezza
umana, così prevedibili, le altre probabilmente neppure sarebbero venute.
Perché fu tentato contro la fede? Perché Le è parso che Dio non L'aiutasse a
sostener la sua legge severa, perché ha temuto che la Sua fede Le fosse stata
imposta, perché ha visto intorno a Sé molti cattolici di mente ristretta e che
non Le paiono conformarsi all'ideale evangelico. Veda un poco quanto piccole
sono queste difficoltà! Iddio non L'aiuta! Come non L'aiuta? Permette che Ella
sia tentato, ma poi quando Lei combatteva, come mi ha detto, quando vinceva,
come mi ha detto, chi Le spirava la forza buona? Non sa che nemo potest esse
continens nisi Deus det? Dio opera nascostamente, noi non possiamo avere il
senso di quello ch'Egli fa in noi e fuori di noi, ma certo neppure possiamo
vincere la carne senza il suo aiuto. Se una volta permise che cadesse, L'ha poi
rialzato subito. La fede imposta? Sarà vero, se vuole, fino a un certo punto;
ma Le par questa una buona ragione di rigettarla? Rigetterebbe Lei le nozioni
di scienza che Le hanno impresso nell'intelletto quando era fanciullo, perché
non Le furono dimostrate? Non è invece questo un altro stimolo, se mai, a
considerare, a meditare i fondamenti razionali della nostra fede, che sono
magnifici, a compiere un dovere del cristiano intelligente e colto, un dovere
troppo poco inteso, troppo poco praticato, il dovere di elevare il Suo concetto
della verità cattolica sopra il concetto popolare e infantile, di formarsene
uno adeguato alle facoltà che Iddio dona per il fine ultimo di essere
conosciuto e glorificato? E quanto al disgusto che Le viene dalle persone...,
si alzi, sieda qui,... proprio, è un argomento misero! Poniamo che questa gente
sia come Lei dice, io non la giudico; forse le intenzioni sono migliori delle
opere. Vorrei solo affermare che Sua suocera potrà forse avere qualche piccola
debolezza, non lo so, ma è un'anima cristiana grande. Lasciamo pure. Per Lei, i
Suoi suoceri, i loro amici, i Suoi colleghi, metta pure un altro centinaio di
persone che pratica, sono dunque la Chiesa cattolica di tutti i luoghi e di
tutti i tempi? Non ha dato la Chiesa cattolica una folla di uomini santi e di
uomini grandi che hanno avuto un adeguato concetto della verità religiosa e del
modo migliore di praticarla? E non ha trovato mai, Lei, grandezza morale in
persone umili che non sanno niente di partiti e professano con ardore la
religione cattolica? Mi pare impossibile! Lei non se ne accorge, ma è la
passione che non Le lascia veder giusto.
Guardi, io potrei anche ammettere
degli apostoli che sorgessero a predicare una elevazione dello spirito
cristiano nella Chiesa, ma uscirne perché oggi nella sua parte umana essa non
risponde all'ideale che ne abbiamo? Allora, se siamo patrioti, andiamo in
esilio! Eh?»
Così parlando il vecchio prete
guardava Piero con tutta l'anima sua calda negli occhi santi, pieni di richiamo
alla ragione. Attese la risposta a bocca socchiusa, porgendosi ancora tutto
incontro all'altro, parlandogli ancora con gli occhi accesi e col viso.
«Mi perdoni» rispose il giovine
accorato. «Forse vi è un'altra ragione de' miei dubbi, più recondita, e io non
la so.»
Don Giuseppe sospirò.
«Senta» diss'egli dopo un breve
silenzio. «Mentre Lei mi parlava della persona che l'attrae, io pensavo una
cosa. Se l'esperimento di vita pubblica Le è riuscito male, perché non
troncarlo? Se non è contento de' Suoi colleghi, perché restare al Municipio? E
uscendo bruscamente dal Municipio, vorrebbe restare in città, subire il
fastidio delle pressioni, degli interrogatori, delle chiacchiere infinite che
si farebbero sul conto Suo? Perché non andrebbe a stare un anno o due nella
casa di Suo padre e di Sua madre? Mi pare che quel soggiorno avrebbe grandi
vantaggi per Lei. È anche un paesaggio spirituale, pieno di raccoglimento, che
so, di dolcezza casta.»
«E allora...» fece Maironi,
piano. L'altra parola gli morì nella gola. Perché dirla? Neppure don Giuseppe
l'aveva pronunciata e tutto il suo discorso del Municipio, della città, della
Valsolda non significava che quella parola: rompere.
«Lei era pur disposto» riprese
don Giuseppe vedendolo esitare «a entrare in un convento?»
Maironi si volse lentamente a lui
con le braccia aperte, lo abbracciò e appoggiandogli il viso a una spalla
mormorò:
«Uscir dal mondo sarebbe più
facile.»
Allora il vecchio lo cinse alla
sua volta d'un braccio, gli parlò sui capelli, gravemente. Le parole pie
avevano una sonorità velata, così profonda, così dolce!
«Caro, bisogna restar nel mondo e
bisogna uscirne. Bisogna che la Sua cella sia nel Suo cuore, nel più interno
del Suo cuore. Sì, caro, pianga di dolore, ma pianga pure di tenerezza. Vi è
Qualcuno che gliela prepara, in questo momento, la cella, che vi si dispone ad
aspettarLa, che Le dice di venire a Lui, di abbandonargli il capo in seno
perché ha tanta pietà di Lei, perché vuol perdonarle tutto, tutto, tutto.
Entri, entri, non resista. Dice che si sente tanto male? Sì, perché guarda le
cose del mondo a cui è legato e anche in esse vi è Gesù, ma vi è Gesù severo,
Gesù triste, e niente fa dolere il cuore come lo sguardo severo e triste di
Gesù. È un prezioso dono l'amarezza del Suo cuore, sa! Come vivrebbe in un tal
tormento, come non si volgerebbe da Gesù severo a Gesù amoroso? È un prezioso
dono e le Sue tentazioni, se proprio sono tanto più fiere delle comuni, dànno
segno di cose grandi a cui è chiamato dal Signore. Le dico questo secondo la
parola di un arcangelo, una delle parole più profonde che ci siano pervenute
dal mondo angelico.
Lei dice che le tentazioni di
sensualità sono diminuite e che non comprende come il pericolo di legarsi a
quella signora con l'anima La sgomenti più del pericolo di una caduta puramente
sensuale. Il Suo terrore è giusto perché la viltà stessa del peccato
semplicemente sensuale prima è un ritegno e dopo genera quell'impulso di dolore
e di sdegno che rialza rapidamente. Invece il legame creduto solo d'anima conduce,
a poco a poco, quando c'è l'occasione, a certe familiarità che vanno diventando
più e più sensuali e preparano una sovreccitazione del corpo che si unisce alla
sovreccitazione dello spirito. Allora, in questo naturale accordo del corpo e
dello spirito, il peccato pare meno vile, meno deformatore della natura umana e
non genera odio e schifo dell'altra persona come nel primo caso, genera invece
una più stretta unione nel male, unione superba e cieca, contenta di sé fino a
che, per suo castigo, e spirito e corpo non si raffreddino. Ringrazi Dio che
L'ammonisce del pericolo da Lei non veduto con un orrore da Lei non compreso.
Non indugi, cessi di vedere quella signora e, senza timore dei suoi dubbi circa
la Fede, si chiuda nelle braccia di Gesù. Poi, quanto a rimanere o partire, io
non Le voglio più dare consigli. Io La vedo già fra quelle braccia, su quel
petto, e sento che debbo solamente dirle, poiché sono qui un amico e non altro:
interroghi Lui, ascolti Lui. Allora, quando dirà i Suoi desideri a Gesù, si
ricordi anche, per l'ultima cosa, di questo vecchio prete tanto impedito ancora
nello spirito da un miserabile corpo che decade sempre e non si dissolve mai.
Ha inteso, caro?»
Maironi non rispondeva, baciava
l'abito dell'uomo santo, piangendo. E l'uomo santo chinò il viso, gli posò
lievemente le labbra sui capelli, guardando pur sempre con occhi riverenti
nell'alto, nell'Invisibile.
Non pioveva più, blandi chiarori
di sole mal nascosto nelle nuvole giallognole ravvivavano il giardino
sonnolento, lucevano sulla umida gradinata della villa, dove don Giuseppe stava
mostrando a Maironi con un sorriso triste la scena dei piani sfumanti di qua
sino ai grandi coni azzurrognoli degli Euganei, di là sino alla sottile parete
soleggiata dei Berici, e il giardino da lui pensato, disegnato, gittato sul
rustico piano e sul colle selvaggio, abbellito via via, d'anno in anno,
vagheggiato nel suo futuro fiore non per sé, ma per dilette anime partite dalla
terra, contro l'antivedere umano, prima di lui.
«Ecco» diss'egli accennando con
una mano agli Euganei, «Praglia è là.»
Per venire da don Giuseppe,
Maironi aveva detto in casa che si pigliava un giorno di riposo e che
desiderava rivedere l'abbazia benedettina di Praglia. Adesso aveva poca voglia
di andarci. Don Giuseppe lo incoraggiò. Era così magnificamente triste,
l'antico monastero! Era così propizio, nella sua maestà cinta di solitudine, ai
pensieri di cui Maironi aveva maggior bisogno! Il vecchio si animava tutto in
viso parlando dei cortili eleganti e severi, della Crocifissione di Bartolomeo
Montagna che stava nel refettorio e anche dell'indegno abbandono in cui
l'insigne monumento era lasciato dal Governo, degli strazî maggiori che si
temevano allora e che furono compiuti più tardi: assassinio vile di un vecchio
glorioso, delitto consumato nel silenzio, col favore della solitudine.
Maironi, distratto, lo ascoltava
male. Pensava all'altra solitudine lontana della Valsolda. Proprio il giorno
prima gli avevano scritto di là che il mandarino del giardinetto pensile era
uscito malconcio assai dall'invernata dura, che l'antica passiflora della
terrazza era morta, che occorrevano riparazioni al tetto della sala e alle
palizzate delle fondamenta nel lago, e che si sperava in una prossima visita
del padrone. Mentre don Giuseppe gli parlava del doloroso abbandono in cui
giaceva Praglia, egli aveva in mente la casetta deserta dov'erano morti suo
padre e sua madre e dov'egli non faceva che due apparizioni l'anno: il giorno
dei morti e nel maggio per provvedere il giardinetto di fiori. Il prete sentì
di non essere ascoltato e tacque. Poi, come cercando i pensieri dell'ospite in
argomenti più vicini a lui, gli parlò di una visita che la marchesa Nene gli
aveva fatta l'anno prima.
«Desiderava una Messa per la Sua
signora, qui nella cappella dove la Sua signora è stata da bambina e si è tanto
divertita a tirare i mantici dell'organo. Mi chiese pure certi aranci
dell'aranciera, molto acerbi, per verità, ma che insomma la Sua signora aveva
gustati quella volta e che aveva ricordati poi spesso. E desiderò, poveretta,
che io unissi agli aranci una parola mia.» Qui don Giuseppe ebbe un sorriso di
commiserazione triste, come per dire: si figuri cosa può valere una parola mia!
«Adesso gliela mando con gli
aranci» disse. «Mi ha veramente ispirato riverenza, povera marchesa. Lei sa che
di solito esprime poco i proprî sentimenti, non dice mai cose accentuate. Bene,
qui, proprio qui dove siamo adesso, ricordo queste sue parole dette senza
lagrime, sa, senza troppa commozione: "Don Giuseppe, dica al Signore che
non ne posso più'.»
Era infatti, a pensare la
maschera di calma che sempre la vecchia signora portava davanti ai suoi e al
mondo, una parola tragica. Maironi, quantunque avesse più volte intravvedute le
profondità segrete di quell'anima, ne fu colpito come da un rimprovero, sentì
la inferiorità morale della propria natura obliosa, piena di concupiscenze. Gli
balenò insieme il dubbio di una impotenza della volontà contro questa
disposizione fatale, imperante, dell'essere suo, il cuore gli si sollevò in un
amaro «perché» e subito si raumiliò per la riverenza dell'alto spirito vicino.
«Don Giuseppe» diss'egli quando
il domestico lo ebbe avvertito che la carrozzella era pronta, «crede proprio
che il Signore vorrà aiutarmi?»
«Ma sì, purché non ne dubiti.»
Sul sedile della carrozzella era
stato posato un panierino di aranci. Maironi si volse a don Giuseppe. «Son di
quelli che Lei sa» disse don Giuseppe umilmente, come scusandosi. Il giovane
gli strinse forte le mani e non poté proferir parola. Poté appena, quando la
carrozzella partì, levarsi il cappello, rispondere così al saluto, pur
silenzioso e commosso, del vecchio prete.
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